giovedì 27 dicembre 2007

L'eclissi della madre

Si torna a “sparlare” di aborto. E, ancora una volta, a “sparlarne” è un uomo. Giuliano Ferrara questa volta, che continua a sorprendermi in questa sua virata teo-conservatrice che contraddistingue gli ultimi anni delle sue riflessioni, peraltro spesso sagge e pungenti. Non è la prima volta che si affaccia su questo tema: già la scorsa estate, di fronte ad una platea ciellina osannante, aveva definito l’aborto “lo scandalo moderno”, poi era passato alla pazzoide equivalenza tra Shoah e aborti, ed adesso torna alla carica, torna a “sparlarne” permettendosi addirittura di farlo in concomitanza con la moratoria internazionale sulla pena di morte. Saranno state le feste di Natale, i cervelli lobotomizzati da chili di panettone che si incollano sui nostri neuroni impedendoci ragionamenti più sottili di quelli necessari al Mercante in Fiera, ma ho trovato poche reazioni nella stampa di questi giorni.
“Un appello alle buone coscienze”: a parte il fatto che l’espressione “buone coscienze” la trovo davvero infelice, manca un punto nell’appello di Ferrara, come sempre. Come sempre si elude la questione essenziale, ossia il fatto che il feto non esiste, non vive, non si nutre e non cresce se non nel corpo di una donna. Ancora una volta si assiste all’“eclissi della madre”. Eclissi imperdonabile, eclissi che dimentica che un embrione, monstrum fra umano e disumano, è niente se isolato dalla diade primaria: la madre diventa così la vittima sacrificale in questi ragionamenti, nella pervicace volontà di separare i destini di feto e madre, destini che separabili non sono. A questa tesi, molti obiettano che alla fine con l’aborto si realizza una sottomissione del primo termine al secondo, realizzando una dipendenza del più debole dal più forte. Altri, invece, piegano alle loro teorie anche Aristotele, con le loro digressioni sull’embrione come essere umano “in potenza”…chissà che ne direbbe lo stagirita, che in quanto a misoginia non invidia proprio nessuno.
In attesa di un dibattito, torno a leggere “L’eclissi della madre” di Maria Luisa Boccia e Grazia Zuffa, che tanto mi aveva aiutato per la preparazione al referendum sulla legge 40 e che, tra l’altro, è un libro di Bafisia che dovrei decidere a restituirle. Ringrazio comunque Ferrara perché riporta l’attenzione sul tema del corpo femminile e dà nuovamente a questa questione il valore politico che spesso gli è stato rifiutato. Forse in questo modo potremmo tornare a parlare dei nostri corpi e magari riuscire a spostare l’attenzione anche sulla sessualità maschile, tabù che nessuno osa mettere mai sotto analisi e in discussione. Ma nell’attesa, forse vana, che gli uomini si sveglino, non sarà forse il caso di riportare al centro delle nostre riflessioni il tema della corporeità, della sessualità, del corpo usato ed abusato delle donne? Dobbiamo tornare, credo, a più di trent’anni fa a quando le donne sottolineavano con forza la politicità del corpo, disseppellendo una materia segreta per secoli ritenuta l’impolitico per eccellenza e confinata nello spazio privato della casa, delle scelte private, della vita. A recuperare quel “personale è politico” di cui molto si è discusso negli anni Settanta e che oggi sarebbe un buon punto di partenza per rileggere con occhi di donna questa politica che non ci rappresenta proprio più.
A proposito di cervelli lobotomizzati dalle calorie dei pranzi natalizi….mi faccio una bella fetta di Pandoro, perfettamente innevato di zucchero a velo….

domenica 23 dicembre 2007

Ritorni a casa

Ritorno a casa per le feste di Natale. Sono stata qualche giorno in silenzio, senza scrivere, completamente immersa nell’atmosfera familiare, riscaldata dalla presenza, davvero miracolosa questa volta, di mia madre, di nuovo a casa da domenica scorsa. Avvolta nei suoi abbracci, ho scelto un mutismo necessario a riannodare i fili delle mie emozioni, così concentrate su di lei. Sono ore, queste, in cui continuo ad imparare da lei la pazienza e l’attesa, l’entusiasmo e il coraggio, sono ore in cui cerco di fare ordine fra i miei sogni, i miei progetti, vicini e lontani, sono ore di dissodamento e seminagione, in attesa del raccolto. Io che sono sempre stata allergica al Natale, intollerante a questi assalti ai negozi in cerca degli ultimi regali, mi godo davvero questi giorni con la mia ingarbugliata famiglia, e vivo anche la mia città da cui perennemente fuggo, perché oggi è simbolo di radicamento e di comunione. Buon Natale a tutte e a tutti, ci sentiamo dopo le scorpacciate che ci attendono.

domenica 16 dicembre 2007

Andando e stando

Torno a riflettere, stasera, sulle assurde dinamiche che dentro di me tengono insieme l'istinto alla fuga e quello al radicamento. Fuga e radicamento rispetto ad una pluralità di eventi, ad un caleidoscopio di esperienze, anche quelle di un passato non più prossimo. E allora penso a come non abbia potuto capire, a come abbia abitato per anni la mia sicura caverna "platonica", scegliendo una minorità rassicurante e paralizzante insieme. E allora stasera penso a Sibilla Aleramo e alle sue parole illuminanti, in grado, ancora una volta, di squarciare il velo delle mie paure, ma di mettermi di fronte a quanto sia difficile ogni fuga, qualunque essa sia.

"A metà, la creatura si solleva, ancora incerta: triste è stato il lungo sonno, ma se più triste fosse l'esser desta?" (Sibilla Aleramo, Andando e stando).

venerdì 14 dicembre 2007

Tota mulier in utero

I ragazzi dell’ultimo anno tornano da Praga con centinaia di fotografie, quelle classiche da gita scolastica: poco spazio ai monumenti della città e molto alle situazioni più ludiche e divertenti di quei giorni. Mi mostrano anche, senza imbarazzo, le immagini scattate al museo del sesso, installazione stabile nel centro della città e fra queste si soffermano su quelle che ritraggono i primi vibratori elettrici. Alle risa divertite subentrano poi degli sguardi increduli quando spiego loro che in realtà non di veri e propri vibratori si trattava, ma di strumenti scientifici, utilizzati dai medici del tempo per curare l’isteria femminile. Ovvero: la masturbazione medica era per molti specialisti del tempo una pratica terapeutica fondamentale, la risposta prima al disagio femminile…Ecco come, per secoli, gli uomini ci hanno rappresentate: donna equivale ad un groviglio di organi riproduttivi che, governando la propria fisiologia, ne determinano le emozioni, condannandola ad una instabilità emotiva, ad una eccessiva teatralità, ad un’incorreggibile mutevolezza. Il tutto causato da un ciclo biologico che la umilia e la degrada. “Tota mulier in utero”: tutta la femminilità si risolve nell’utero e per questo la donna è più instabile, meno intelligente, ancorata ad uno stadio inferiore di sviluppo. Niente di nuovo, diremmo oggi, le classiche teorie pseudo-scientifiche che servivano da sostegno alla misoginia di quegli anni. Allora che dire di fronte alle immagini di un Paolo Liguori che, proprio nei giorni scorsi, durante uno scontro con Gaia Tortora, si è permesso di apostrofarla come una “verginella disturbata”? Che dobbiamo aggiungere noi donne di fronte a questa “violenza simbolica” che ancora si riproduce identica a se stessa nei secoli? Quando un uomo non ha parole per attaccare una donna, per discuterci, per confrontarsi con lei, allora si passa sempre al più bieco e volgare sessismo: è il caso della Tortora e di Rula Jebreal (“gnocca senza testa”) e chissà di quante altre che sono sfuggite al mio sguardo di solito attento quando si parla di donne.
A coloro che ci definiscono “il sesso debole” consiglierei una bella visitina al reparto di Neurochirurgia dell’ospedale di Siena, dove una donna splendida e fortissima sta tenendo a bada una nera signora che la insidia da un anno e mezzo ed ha davvero tirato fuori “le ovaie” (per non dire le palle…) anche questa volta….anche ne se non le ha più.
Grazie davvero a mamma e papà per avermi fatto donna…..per il futuro…speriamo che sia femmina. Nel frattempo mi guardo, sempre su La7, un’altra donna di fine intelligenza: Daria Bignardi (a proposito, devo ricordare la battuta infelice che le fece quel bandito di Luciano Moggi?).

Così rispenso alle parole di Carla Lonzi: "La donna appartiene alla specie vinta: vinta dal mito dell'uomo. Il privilegio dell'uomo su di lei la donna lo soffre, ma lo subisce nell'ossequio che le ispira chi ha imposto sè come soggetto. Quello della specie vittoriosa dice alla donna: 'Renditi degna di me. Assorbi, attraverso la conoscenza del soggetto, il pensiero di chi è completamente umano e universale. Sotto la mia guida raggiungerai la dimensione del soggetto"
Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel.

mercoledì 12 dicembre 2007

Torino 2007

Ho cercato di vivere questi ultimi giorni in una sorta di camera iperbarica dei sentimenti, cercando di concentrarmi su di noi senza lasciarmi scalfire dal mondo intorno, se non dalle voci dei miei studenti. Così ho per il momento sospeso il mio naturale occuparmi della polis e mi sono concentrata sullo spazio angusto dell’oikos, trasformandomi in una Penelope attenta, con il mio raccogliermi nel lavoro monotono e ripetitivo del tessere e disfare la trama delle mie relazioni con mia madre e mio padre. Però questo ritirarmi in me stessa e questo imbrigliarmi negli intrecci familiari si sono squarciati di fronte ai morti di Torino, di fronte a un pezzo di vita operaia che sembrava dimenticata da tutti, anche da me. Così a quella notizia mi sono venute subito in mente le pagine che Paolo Spriano ha dedicato alla sua città, pagine che ho così avidamente letto nei mesi della tesi di laurea e a quelle che Paul Ginsborg ha composto sulla Torino del boom economico, nella sua insuperabile capacità di descrivere quei quartieri operai in cui “tutte le sveglie suonavano alla stessa ora”. E allora penso al mio babbo e a quell’inferno piombinese, penso alle strade del Cotone, penso a cosa abbia significato per me essere il frutto della fatica in una acciaieria, penso a come adesso mio padre mi guardi orgoglioso pensando a tutta la strada che ho percorso grazie alle loro invisibili spinte, e rifletto su come io stessa abbia respirato la vita operaia e ne abbia interiorizzato l’enorme forza e dignità. Così stasera in questa stanza di albergo che mi lega ancora di più alle radici familiari mi guardo Gad Lerner che dedica il suo “L’infedele” alle vittime della Thyssen e mi specchio in quelle facce, sapendo che la mia, nonostante sia così diversa, è comunque figlia loro.

Mi perdo nel quartiere popolare
tanto animato se la sera è prossima.
Sono fra gli uomini da me così
lontani: agli occhi miei meravigliosi
uomini: vivi e chiari, non valori
segnati. E tutti uguali e ignoti e nuovi.
In un angolo buio prendo il posto
che mi ha lasciato un operaio accorso
(appena in tempo) all’autobus fuggente.
Io non gli ho visto il viso ma i suoi modi
svelti ho nel cuore adesso. E mi rimane
(di lui anonimo, a me dalla vita
preso) in quell’angolo buio, un suo onesto
odore di animale, come il mio.
Sandro Penna

lunedì 10 dicembre 2007

Compleanno orbetellano

Compleanno di pensieri e paure, quello di quest'anno. Oggi, mentre i miei ragazzi cercavano di farmi gli auguri, felici ma imbarazzati dalla necessità di usare quel "tu" al posto del "lei" (non si può, li capisco, cantare "tanti auguri a lei"....) mi sono chiesta come immaginavo, alla loro età, la Barbara che sarei stata nel 2007. Allora penso a Giovanna e al nostro scherzare sui "programmi e programmini" che facciamo sulle nostre vite e al nostro riflettere su come il caso scompagini i nostri piani quando meno ce lo aspettiamo, costringendoci alle curve più assurde, alle più difficili deviazioni. E allora penso che credevo di passare il prossimo Natale a festeggiare tutti insieme, respirando la gioia di un nuovo arrivo, godendo del tepore di una casa tutta mia, e invece mi trovo qui ad immaginare un letto di ospedale, a desiderare un abbraccio, ad allontanare pensieri troppo ingrombranti per le mie forze. Sono qui a godermi un compleanno orbetellano, sola soletta in questa casa non mia, immersa nello studio, ma piacevolmente interrotta dalle mille telefonate di auguri che hanno riempito la mia giornata.
L'unica cosa che la mia immaginazione di adolescente aveva indovinato rispetto al futuro è il mio essere dietro quella cattedra, anche se, in realtà, dietro la cattedra non ci sto mai, ma spiego sempre in piedi, consumando tonnellate di gessi sulle lavagne, oppure girovagando tra i banchi, sbirciando fra le Smemorande, cercando di mimetizzarmi un po' in mezzo a loro. Loro non sanno quanto mi abbiano resa felice oggi, loro non immaginano quanto mi abbiano scaldato le loro attenzioni dei giorni scorsi, le loro continue, ma discrete domande sulla salute di mia madre.
Mi chiedo se sto facendo bene, mi chiedo se è questo il miglior modo di affrontare questa prova, mi chiedo da dove abbia tirato fuori questa insospettata voglia di farcela e di resistere.
Domani non vado a Siena come avevo programmato, mamma dice che sta bene e che mi aspetta solo il giorno prima dell'intervento...che ci sarà, dicono, a breve. Per adesso mi prendo la mia gatta pelosa e me ne vado a letto a leggere il libro di Luzzatto su Padre Pio, di cui parlerò, credo, al più presto.

mercoledì 5 dicembre 2007

Corpo a corpo

Giornate dense di corpi. Lascio che ogni sensazione passi attraverso il corpo, attraverso il calore degli abbracci, la levità delle carezze, la densità dei baci. Cerco una fusione che fluisca nello stringere mani, una comunione che si realizzi nelle corrispondenze delle voci e dei suoni.
Mi concentro sul suono ovattato delle sue parole, sulla delicatezza delle sue risate e cerco di risarcire il suo dolore con una serie di attenzioni, che so non essere mai sufficienti. Così il suo corpo ferito e martoriato si ristora nel mio ed io ritrovo in noi il dolce sapore della diade, respiro il forte mistero della nascita, cerco una inutile fuga dalla morte. Tutto, adesso, parte e si risolve nei corpi, il mio e il suo, così uniti, così diversi. E tutti i miei pensieri si costruiscono attorno a questa concretezza della carne e del sangue, alla densità del contatto, al profumo della pelle, alla morbidezza dei capelli. E allora mi fermo a pensare a come il suo corpo abbia ospitato il mio e alla sua dolce richiesta di rendere presto il mio un luogo accogliente per chi verrà.

martedì 4 dicembre 2007

Anticorpi anni Ottanta

L’ultima volte ho parlato di “latte e marie” e di cartoni animati. Mi chiedo come possa essere così fragile, insicura e sensibile al dolore, pur essendo nata nel 1974 e quindi, pur essendo cresciuta negli anni Ottanta. Non so perché, ma stasera, mentre sul divano mi facevo la “zuppetta” di latte e biscotti mi sono venute in mente le mie merende davanti alla televisione a ingozzarmi di cartoni animati, oltre che di “Oro Saiwa” e “Latte Maremma”. Ed ecco che mi sono davvero stupida di questa mia endemica insicurezza, cresciuta come sono stata a suon di disgrazie e tristezze di tutti quei drammoni stile feuilleton di fine Ottocento che erano i cartoni di noi bambini in quegli anni. Così penso che tutti noi avremmo dovuto sviluppare una capacità di adattamento superiore alla media, visto che dalla nostra più tenera età abbiamo sofferto di una bulimia di tragedie.
Si parte con un disgraziato “Senza famiglia” di nome Remi, con tre cani anoressici e un maestro girovago, il tutto farcito con una fame insaziabile, e un errare senza meta per le città d’Europa; si traghetta la nostra immaginazione infantile in una baita di montagna con una bambina cresciuta da un nonno pastore, circondata solo da mille pecore, un amico sfigato e una compagna di giochi paraplegica; per non parlare di Georgie a cui muore il padre alla terza puntata, la madre alla nona e che è costretta ad abbandonare il fidanzato ammalato di tubercolosi. Vogliamo forse aggiungere Candy Candy, l’aspirante attrice Maya e Sara, l’inglesina senza mamma che fa la schiava in un college per nobildonne?
Poi, non contenti di queste scorpacciate di disgrazie, rafforzavamo il nostro addestramento al dolore con le figurine Panini, con quegli album dedicati ai nostri eroi preferiti, altre gallerie del dolore da scambiarsi tra amici. “Tu ce l’hai la figurina del maestro Vitali morto sotto la neve?” (oddio mi sembra di vederla adesso quella figurina…), “C’hai mica la figurina del babbo di Georgie morente?”, “Mica vuoi cambiare con me questa bella figurina di Lady Oscar mentre le sparano una revolverata durante la presa della Bastiglia??”. Avete qualche perla di dolore da aggiungere?
Per fortuna riesco ancora a concedermi un po' di ironia, in questo momento di dramma. Credo però che mi faccia bene, a me e anche a lei che deve vedermi sempre tranquilla.

venerdì 30 novembre 2007

Latte e Marie

Giornate di latte e Marie. Ci sono sapori che racchiudono un mondo, un periodo, che ti concedono una piacevole inversione, che permettono incantevoli apparizioni. Nei pochi minuti di calma che mi concedono queste giornate mi regalo una regressione, mi dedico un ritorno all’infanzia, che, adesso, non sono altro che un marcato ritorno al materno. Così mi sono tolta una “voglia” e mi sono comprata un pacco enorme di biscotti e la sera, quando torno stanca dall’ospedale, e non ho nessuna voglia di cucinare, mi sfamo a caffellatte e Marie spezzettate che richiamano alla mia mente ricordi che oggi mi proteggono e mi scaldano un po’. Come stasera, in queste stanze della casa che ha ospitato i miei primi passi, i miei pomeriggi di studio, il mio amore di adolescente e che stasera mi parlano così tanto di noi tre. Così mi sono messa accovacciata al tavolino del salotto, come da piccola, quando accompagnavo i pochi bocconi alle immagini dei miei cartoni ed ho respirato ricordi. Che strano abitare questa casa da sola, inalarne le memorie, percorrere con lo sguardo ogni centimetro di questo spazio che adesso mi sembra così vuoto, nonostante le voci che mi affollano i pensieri e Bube che continua ad abbaiare, mannaggia a lui, è quasi mezzanotte.
Ascolto Galimberti che parla di Nietzsche su La7 e aspetto che arrivi il sonno a portarsi via questa giornata che, nonostante difficile da gestire e digerire, avrei voluto non finisse mai…come domani.

domenica 25 novembre 2007

Yves Bonnefoy

Di nuovo una domenica orbetellana. Mi sono concessa una lunga passeggiata lungo lago, nonostante il grigiore che scandisce queste ore di festa. Adesso mi immergo in caldi versi di poesia, in cerca di parole che vadano a stanare il mio io nei recessi più nascosti....
Tra i versi che amo, oggi scelgo quelli in francese di Yven Bonnefoy...

Tutto ciò, amico mio,
Vivere, che annoda
Ieri, nostra illusione,
A domani, nostre ombre
Tutto ciò, e che fu
Così nostro, ma
Non è questo cavo delle mani
In cui acqua non resta.
Tutto ciò? E la più
Nostra felicità:
il volo greve dell'upupa
Nel cavo delle pietre.

Yves Bonnefoy, Una voce

venerdì 23 novembre 2007

A new heaven, a new earth


"Dovremmo trovare un nuovo cielo, una nuova terra", Shakespeare faceva dire ad Antonio, rivolto alla sua amata "zingara". E’ l’infatuazione improvvisa, la follia amorosa che subentra all’incrocio di sguardi che impone ad Antonio di immaginare "a new heaven and a new earth", per non imprigionare nel cielo delle stelle fisse il suo amore incommensurabile. Di questo ho parlato ieri ai miei studenti, che mi guardavano allibiti e curiosi, di fronte ad una lezione così inusuale. "A new heaven and a new earth": adesso sono io che devo trovarli. Un nuovo cielo verso cui dirigere i miei sguardi, che mi apra il varco dell’impensato, nel quale possa rintracciare paesaggi inesplorati, verso cui rivolgere mute preghiere. Un nuovo cielo che possa accogliere la Speranza, quella a cui io continuo a non credere, ad oppormi con la forza del mio pensiero positivo e razionale, che chiude ancora oggi la porta in faccia al divino. Una nuova terra da cui sia bandita tutta questa amarezza, che adesso sto attraversando, cercando di non rimanere impaludata nelle sabbie mobili dell’insicurezza e della paura. Una nuova terra in cui possa dirigere con più certezza i miei passi, una nuova terra dove mia madre possa camminare sicura, senza questa angoscia del futuro che tutti ci soffoca e tormenta. Una terra dove ci sia un posticino anche per me, meno labile, meno insicuro, una casa che mi scaldi le sere insonni e che mi accolga, insieme alla mia piccola Bice che la vecchiaia ha reso così affettuosa (e sembra anche sempre più affamata….). Mi chiedo se ci sia da qualche parte questo posto, mi chiedo se sia davvero possibile per la Barbara di adesso porre un confine, darmi almeno un argine, per non avere l’idea di una caduta in picchiata o di un vagare incerto, senza meta. Mi chiedo se non debba davvero condannarmi a questo mio eterno nomadismo, fisico e mentale, che mi rende apolide ovunque mi trovi. Eppure in quella città, così straniera, così diversa, così "altra", così immensa da essere il simbolo fisico del mio spaesamento, avevo davvero messo delle radici. Mi dicevo che mi ero piantata su quella collina di Hampstead ed ancora oggi penso che un po’ di radici siano rimaste a marcire là sotto, nonostante io abbia cercato di estirparle con tutta la forza possibile, quella che mi aveva dato l’incommensurabile amore che provo per mia madre. Sono tante le domande di queste sere solitarie: mi chiedo se davvero la vita che io sto vivendo non sia stata scritta da altri, da tutti coloro che hanno reciso ogni mio ancoraggio e mi chiedo se, alla fine, io abbia davvero la voglia di fermarmi o preferisca continuare a vagare. Dove? Sinceramente non so. Per ora me ne vado a Firenze, parto fra poche ore e torno domani. Vado a fare il pieno di città e di ricordi…senza la "bestia" però….

mercoledì 21 novembre 2007

La faccia come 'r culo


Pochi giorni fa spiegavo ai ragazzi dell'ultimo anno come in Italia sia stato difficile costruire un sentimento nazionale e come la mancanza di una lingua comune abbia rappresentato un ostacolo oggettivo alla realizzazione di questo obiettivo. Spiegando loro "l'Italia dei cento dialetti", come la chiama la Colarizi, li facevo riflettere sul fatto che l'italiano era la lingua colta, la lingua dei libri, quella parlata in pubblico ma poco utilizzata in privato. In casa si indulgeva in espressioni dialettali e la stessa famiglia reale, non dimentica delle sue origini savoiarde, usava il francese per comunicare tra le "mura domestiche". "Come prof. il re d'Italia che parlava in francese in casa sua?", eccola la domanda ovvia e scontata. Ebbene sì, parlava in francese, spessissimo. Quindi stasera, alla notizia, mi chiedo se mi devo rivolgere ai Savoia, purtroppo di nuovo sul suolo patrio, in francese, oppure se è sufficiente dare una leggera inflessione regale al suono delle mie parole, per avvicinarmi un po' alla classe di quell'imbalsamato di Emanuele Filiberto. Poi ho pensato: ma sai che c'è....io gli parlo in livornese, livornese che trovo, tra tutte le varie modulazioni del toscano, la più bella, la più spontanea, quella che meglio fa percepire la nostra solarità, schiettezza, genuinità. Si racconta che casa Savoia abbia richiesto allo Stato italiano un risarcimento di non so quanti milioni di euro per aver violato, imponendo loro un esilio forzato, i fondamentali diritti umani. Devo aggiungere altro? Cosa dovrei dire ai nostri ex reali? Boia de' c'avete proprio la faccia come 'r culo!!!

martedì 20 novembre 2007

Mi sento come compressa, piena di sentimenti strizzati. Vorri poter deflagrare e prendere respiro, ma non riesco a far altro che scegliere un infantile mutismo. Non so perchè ma le parole, in questi giorni, restano come attaccate l'una sull'altra, incapaci di districarsi, prendere aria e corpo. E poi le parole di questi giorni sono tutto e il contario di tutto e non fanno altro che annullarsi a vicenda, lasciando un vuoto assoluto. Ma forse è solo per questo che non riescono a trovare una cassa armonica dove acquistare risonanza. E non la trovano neppure a scuola: oggi non mi sono proprio piaciuta, nonostante tutto il mio studio. Per fortuna quella classe insopportabile domani parte per la gita e io respiro senza di loro almeno per una settimana.

giovedì 15 novembre 2007

Rifugio

Si sta avvicinando un nuovo weekend, spero più sereno di quello appena trascorso. Domenica passata a sfogliare pagine, correggere compiti, godermi qualche ora di riposo. Sono sempre qui, in questa nuova casa, diventata così accogliente nonostante gli innumerevoli difetti e mancanze. Vado a Follonica, faccio il pieno di baci e abbracci, respiro l'odore di mare a pieni polmoni, consumo i miei sguardi a fissare i suoi occhi, le sue mani, le sue spalle e le sue gambe sempre più magre e poi, anche di fronte ad un suo invito a rimanere, preferisco la fuga. Questa casa sulla laguna è una stampella a tutte le mie paure, aiuta a sorreggermi, a non rovinare a terra schiacciata da tutte le mie ansie e le mie insicurezze. E così queste stanze esorcizzano i miei timori e i miei libri mi permettono di immergermi in un pensiero avvolgente e totalizzante, che lascia spazio a poco altro. Cerco di tenere lontana da me la domanda sul quando e come sarà. Ormai, almeno per me, non si tratta più di confrontarsi con un'ipotesi, ma con una certezza che è sì procrastinabile, ma del tutto ineluttabile. Allora, di fronte al pensiero della sua morte, vorrei tornare, immergermi in lei, tuffarmi nelle sue parole, farmi scuotere dai suoi abbracci. E invece torno e resto qui, in cerca di una calda protezione, sforzandomi di tenere la mente occupata, rifiutando si sfidare la morte e la vita, che così mi interpellano in questi ultimi giorni. Divertissment, direbbe un filosofo che ho molto amato all'età dei miei ragazzi. "Quando non si trova uan risposta alla morte - scriveva - è preferibile fuggirla". E io ci provo a fuggirla, ma lei mi rincorre e, come si dice in Maremma, "va pure come 'na scheggia".

venerdì 9 novembre 2007

La costanza della ragione

Mi dedico alla lettura di un bel romanzo di Pratolini, "La costanza della ragione", dando alle sue pagine la possibilità di ridestare in me le sensazioni legate a una città tanto amata. Ecco che le singole righe su cui corre il mio sguardo in attesa del sonno pizzicano le corde emotive che mi fanno sentire ancora tremendamente legata a quei luoghi. E così la Firenze di Bruno, quella del dopoguerra e della ricostruzione, diventa la mia ed è come se ne ripercorressi le strade e ne respirassi un po' il sapore. Firenze è di nuovo mia nella purezza del ricordo, un ricordo finalmente depurato di tutta la sofferenza legata a quelle stanze umide e fredde del Dipartimento. Finalmente liberata dalla Sua invadenza, dalla Sua "bestiale" presenza, adesso mi godo i ricordi della mia città. Così, mentre leggo Bruno sulla sua bicicletta attarversare il Mugnone e pedalare spedito verso P.zza Dalmazia, mi vedo sul mio Liberty inforcare Via Mercati, percorrerla tutta in salita e svoltare in quella via alberata su cui si affacciava la nostra piccola stanza. Una stanza amata-odiata, ma calpestata con l'etusiasmo dei vent'anni e con la cieca fiducia nel domani. E ripercorro con i pensieri le stanze di quella città: da quelle offertemi in San Frediano l'anno della tesi di laurea, a Via Talenti, a Gavinana, fino a quelle stanze calde e accoglienti del mio nido a Coverciano, oggi scaldate da un'amichevole presenza.
Mi manca Firenze, mi mancano le mie città. Mi mancano i rumori assordanti che allora erano così insopportabili, ma che ora vorrei davvero resuscitare per aprire una breccia in questo silenzio ovattato di provincia....silenzio che è della mia laguna, ma anche del mio cuore.

"Perchè a vent'anni è tutto ancora intero,
perchè a vent'anni è tutto chi lo sa,
a vent'anni si è stupidi davvero
quante balle si ha in testa a quell'età...."
Francesco Guccini, Eskimo

giovedì 25 ottobre 2007

Sgravare

Stamani in seconda (che per me, povera diplomata al liceo scientifico è ancora una stramaledetta quarta) Max e Francesco, mentre io consumavo le mie corde vocali sulla storia della Francia nel XVII secolo, si dedicavano, beati e tranquilli, ai loro esercizi di chimica, in attesa del compito che li attendeva all'ora successiva. Così ho chiesto loro di smetterla e di prestare almeno un po' di attenzione alla lezione, per poi sentirmi dire che avevo frainteso e che non erano gli esercizi di chimica a tenerli occupati. Non lo credo, ma hanno dimostrato di essere ancora più sciocchi, visto che, in mancanza di altri indizi, li ho dovuti accusare di giocare a battaglia navale o a filetto.
Il filetto di Max e Francesco è solo un proemio, una introduzione al racconto di oggi, ma necessario a cogliere la "bellezza" di quello che è accaduto stamani.
Poco dopo, spiegando la politica fiscale di Jean Baptiste Colbert, nella Francia di Luigi XIV, ho utilizzato l'espressione "sgravi fiscali", per accorgermi che gli sguardi dei miei alunni da addormentati quali sono alla prima ora di lezione, si sono trasformati in sguardi preoccupati, indagatori, increduli. Così ho chiesto loro il significato di tale oscura espressione per sapere che, per loro, uno "sgravio fiscale" non è altro che un inaspettato aumento delle tasse, incontrollabile, spesso inspiegabile. Oddio, datemi una sedia, perchè alle otto e trenta del mattino, con l'emicrania che sale lentamente, credo che non resisterò a lungo a simili sciocchezze. "Vabbè", mi sono detta, "prendiamo il toro per le corna e cerchiamo di capire il loro ragionamento". Si, forse è meglio fare un passo indietro e indagare sull'oscura forma verbale "sgravare".
"Sgravare"...ragazzi ma cosa significa sgravare?
"Prof. quando uno 'sgrava', 'sgrava'", prima risposta. In che senso? Cerco di penetrare i loro intricati ragionamenti, cerco di immedesimarmi in loro, cerco di recuperare quelle scarne nozioni di orbetellano che adesso posseggo. Forse ho capito, ma attendo a formulare ipotesi, cerco di raccogliere ancora qualche loro segnale. "Prof. quando qualcuno esagera, va' di fori, 'sgrava'".
Sì, le mie intuizioni avevano colto nel segno. Ed ecco che, un altro Francesco, anche lui sempre in altre faccende affaccendato, tira fuori dal cilindro della sua saggezza l'esempio calzante, che illumina ogni mio più esile dubbio:
"Prof. ecco l'esempio giusto: per esempio no, prima no, quando loro due giocavano a filetto no, mentre lei spiegava, insomma prof., 'hanno sgravato'". Ci siamo, tutto è chiaro adesso. Ecco che cosa significa per i ragazzi di Orbetello di una seconda liceo classico il verbo "sgravare".
Così mi rendo conto, ancora una volta, che dobbiamo indietreggiare ai primi passi dell'alfabetizzazione. Nell'ora di buco trascrivo loro dall'enciclopedia Treccani il significato del verbo, inserendoci anche alcuni esempi e distribuisco nell'ora successiva la pagina ai ragazzi, chiedendo loro di imparare ad usare un po' il linguaggio. Anche oggi hanno dimostrato un errore di prospettiva: se di solito scambiano i privilegi per diritti, oggi hanno sbambiato il dialetto con la lingua italiana. E meno male che insegno al classico!

mercoledì 24 ottobre 2007

Di nuovo una kefiah

Sono sommersa dai pensieri, alla ricerca, ancora una volta di uno stabile baricentro, di una prospettiva in grado di ampliare il raggio dei miei sguardi. Sono stati giorni di sorprese, questi appena passati. La sorpresa di sentirmi, mai come quest'anno, debole e insicura nell'affrontare questa nuova avventura a scuola, sempre meno tollerante nei confronti dei miei ragazzi che mi stupiscono, ogni volta, con i loro comportamenti insensati. Ogni tanto cerco la Barbara di quindici anni fa nei loro sguardi, la intercetto con avidità per vedermi ancora un po' in loro, per capire come sono cambiata, che cosa mi sia successo in questi anni, quali percorsi mi abbiano portato fin qua. Allora mi ritrovo dietro quella kefiah che avvolge il viso di Gaia ogni mattina, in quella acerba iniziazione alla politica che mi faceva essere così insopportabile ai miei compagni alla sua età, ma che mi rendeva così fiera, in quella sensazione di abitare i margini che ancora oggi rivendico con orgoglio. Mi chiedo se avrei o meno fatto sciopero contro il decreto Fioroni. Ho raccontato loro i miei, di scioperi, i nostri, così diversi ma anche così simili a quelli che oggi li tengono fuori dalle aule scolastiche. Ho parlato loro di quel gelido gennaio 1991 con le mani immobilizzate dal freddo a suonare la chitarra in quella piazza piena di noi, a intonare quel geniale "Saddam Hussein Party" che qualcuno (forse il Mignetti? Forse Lapo?) aveva così abilmente strumentato. Ho detto loro che sicuramente oggi non avrei scioperato contro la seconda guerra del Golfo, ma questa è un'altra storia, è la storia di come si cambia nel corso degli anni, è la storia di come si abbandona la kefiah e si vota per il pacchetto welfare. Gaia dice che sono una "cerchiobottista" e da una fan di Turigliatto non posso che aspettarmi questo; ma mi piace questo mio confrontarmi con lei, che è un po' come parlare a me stessa indietro nel tempo. Peccato che Gaia sia una perla rara, ma la ringrazio, insieme a pochi altri, di aiutarmi ad amare ancora questo lavoro e insieme ad esso, anche un po' me stessa.

domenica 7 ottobre 2007

Lacrime

Avevo scritto alcune righe di getto, dopo la tragedia di quindici giorni fa. Non le avevo pubblicate, semplicemente perchè ad Orbetello non posso collegarmi e a scuola tutto fa acqua, persino una semplice connessione in rete. Le pubblico adesso, per non dimenticare il dolore di quei giorni.

"Ho parlato un po’ di vita e di morte ai miei studenti di prima, proprio nei giorni scorsi. Un’introduzione alla filosofia non può che contemplare simili questioni, soprattutto se è Savater il filosofo che ti offre la chiave di ingresso da fornire ai tuoi ragazzi. Nel suo testo di iniziazione alla filosofia, “Le domande della vita”, racconta che il suo amore per questa disciplina è nata dopo essersi accorto che, nolens volens, sarebbe andato incontro alla morte. Prima o poi la nera signora avrebbe colpito anche lui, avrebbe bussato alla sua porta, senza chiedersi educatamente se fosse o meno pronto a questa necessità. Ne abbiamo discusso, tutti insieme. E ci siamo chiesti se è proprio come dice Savater, se una vita senza domande, senza stupore, senza la meraviglia aristotelica, non sia davvero un anestetizzarsi, un rinunciare alla vita in attesa della morte. E poi abbiamo parlato dell’ingiustizia di Anassimandro, l’espiazione di quella colpa nella distruzione dell’esserci, e abbiamo proprio riflettuto su quell’ingiustizia cosmica su cui scrive il filosofo milesio. E ripenso ai loro occhi adesso, adesso che questa ingiustizia si è fatta palpabile, adesso che le domande trovano ancora meno risposte, adesso, attoniti in un abbraccio consolatorio. Spero di riuscire a fare del mio meglio, senza varcare i limiti come di solito faccio, ma assicurando una presenza che possa almeno scaldare un po’. Ci vorrà un po’ per riprendere i ritmi di sempre, ci vorrà un po’ per distogliere lo sguardo da quel banchino….banchino che non so che fine farà….decideranno i ragazzi tutti insieme, su tutto. Noi dobbiamo solo aspettarli…ed amarli come sempre. "

Indometacina

Scrivo da Roma, dopo un mese di silenzio. Solitamente il mio mutismo è indice di benessere e serenità, di un mio ritirarmi in me stessa a godere gli attimi senza bisono di rimuginare come al mio solito. E' la terapia della scrittura che mi offre riparo ogni volta che ho bisogno di fare ordine nei miei pensieri. Quest'estate, invece, mi sono consessa delle pagine divertenti, buttate giù senza bisogno di lenire nessun dolore, nessuna delusione, senza bisogno di rintracciare, ancora una volta, un farmaco efficace....ho scritto così anche per prendermi un po' in giro, per ridere un po' di me e di quello strano zoo che è la mia famiglia. Settembre, invece, è stato un mese drammatico e non ho scritto perchè prostrata a terra da emicranie sempre più terribili e incontenibili, schiacciata da un corpo che non riesco più a controllare. Indometacina. Sono sopravvisuta grazie a dosi massicce di indometacina. Chissà cosa succederà. Adesso mi sento completamente distrutta, ma sto cercando la forza di reagire, anche pensando alle parole di mamma che è stata qualche giorno ad Orbetello a coccolarmi un po' e che mi ha curato e sostenuto nonostante tutto. Adesso, invece, mi godo le coccole del mio Riccardo, insieme a questa città così amata. Che dobbiamo visitare in macchina, purtroppo, invece che in moto, visto che sta piovendo da ieri.

martedì 4 settembre 2007

Giornate fiorentine

Torno a casa, dopo le intense giornate fiorentine. Intense, è proprio il caso di dirlo, per mille ragioni. Il mio incontro con quella che considero, ancora oggi, una delle mie città, uno di quegli spazi, reali e simbolici, che hanno contribuito a tessere la mia identità, oggi, forse, non più così sfilacciata. Il mio ritornare alla scuola estiva della Società Italiana delle Storiche che mi ha impegnato, in questi giorni, in una attenta riflessione su temi e questioni abbandonati dopo la mia fuga dall'Università. Il mio ritrovare persone così care, nonostante percorsi non più paralleli.
Ho cercato di rintracciare accordi tra le parole di oggi e quelle che hanno costituito il mio principale interesse negli ultimi anni e mi è piaciuto ritornare su un sentiero già battuto, quello che avrei davvero voluto percorrere fino in fondo se non avessi trovato un carcere asfissiante da cui non potevo che evadere. Ma se gli studi delle/sulle donne ancora mi emozionano e mi spingono, perchè no?, a riprendere in mano antichi progetti, tutto il resto è proprio dietro alle spalle. Che bello è tutto finito, che bello me ne sono andata. Percorrendo Via di Parione domenica pomeriggio ricordavo Antonio Tabucchi di "Piccoli Equivoci senza importanza" e pensavo a Erri De Luca e alla sue parole così illuminanti sulla pesantezza della vergogna.
A proposito, Erri ha appena pubblicato per Feltrinelli un libro sulla maternità. Tema così caldo, per la Barbara di oggi, che pensa a quella di sua madre ed alla sua (a cui si comincia un po' a pensare, vista l'età!!!). Lo compreremo.

"Una quantità di coraggi spuntano da vergogna e sono più tenaci di quelli saliti dalle collere che sono scatti rapidi a sbollire. Invece le vergogne sono di grano duro e non scuociono"
Erri De Luca, Il contrario di uno.

lunedì 27 agosto 2007

Radici

Sto riflettendo in questi giorni sulle ragioni che mi fanno essere così insicura sulla scelta da fare in merito alla scuola. Sembra che ci sia di nuovo la cattedra di Orbetello, ma sembra pure, dalle frammentarie ed incerte notizie che giungono dalle scuole intercettate e dagli uffici del Provveditorato, che possa accoppiare un discreto numero di ore sparse tra Grosseto e Follonica e restarmene, così, a casa. Una mattina mi sveglio pensando che sia meglio Orbetello, un’altra mattina scendo dal letto felice all’idea di non dovere abbandonare questo appartamento che, finalmente, si è trasformato da grigia prigione in un nido caldo ed accogliente. Starò forse mettendo radici? Il mio spirito nomadico è forse capitolato, di fronte ad un bisogno di stabilità e certezza?
Mi chiedo, ad esempio, come ho letto Londra in questi ultimi mesi, come ne ho vissuto il ricordo. Sono felice di scoprire che ha perso l’ossessività che aveva un tempo, che è finalmente spoglio, adesso, di tutti quei significati aggiuntivi con cui l’avevo appesantito. Anche questo mi sembra un bel passo in avanti, una nuova maglia rotta nella rete. Forse dovrei solo afferrare l’intuizione che questa benedetta rete, di cui tanto ho ciarlato, anche a sproposito, in questo blog, non è intessuta dalle “dinamiche assassine” legate al vivere la mia città, la mia famiglia, il mio lavoro, ma è solamente un grumo ispessito di insicurezze e paure che ha paralizzato il mio procedere. Ancora belle spesse, senza dubbio, ma che stanno cominciando a sgretolarsi sotto i colpi della mia tenacia e della mia voglia di ricominciare.

"La casa sul confine della sera
oscura e silenzione se ne sta
respiri un'aria limpida e leggera e senti voce forse di altra età
la casa sui confini dei ricordi
la stessa sempre come tu la sai
e tu ricerchi là le tue radici se vuoi capire l'anima che hai"
Francesco Guccini, Radici (1972)

venerdì 24 agosto 2007

Ospiti

Questo posto piace, non c’è che dire. A tutti, a quanto sembra. Loira dice che sogna una casa come la mia e che ne comprerebbe una anche più piccola pur di godere di un giardino come questo; babbo e mamma l’adorano così tanto che, nonostante io abbia provato, neppure tanto velatamente, a manifestare il mio disagio per la loro eterna presenza, sono sempre qui, per motivi ogni volta diversi. Giovanna chiede sempre “asilo politico” e Riccardo la preferiva alle stanze orbetellane sulla laguna, nonostante la sua scelta gli comportasse novanta chilometri in più ad ogni viaggio. Tutti amano questa casa. Anche i topi, ultimamente. Scivolano dalla canna fumaria, rimbalzano nel camino e poi girellano per tutte le stanze, nascondendosi non so dove e riuscendo a scappare, senza alcuna sorpresa, ai timidi tentativi di Bice di rincorrerli e di afferrarli. Che gatta goffa e idiota, con quella pancia che le ciondola e che le impedisce anche i più semplici movimenti. Lo so, dovrei metterla a dieta, ma sono così stanca di diete che vorrei che, almeno lei, se la godesse un po’. In fondo, non credo proprio che abbia l’emicrania. Il topo di questa volta è simpatico però e, se non fosse così poco igienico e pericoloso perché divoratore di ogni cosa, giuro che l’adotterei. Anche solo per il fatto che si è mangiato il formaggio senza restare mozzato nella tagliola che babbo aveva preparato per lui e nascosto dietro il frigo. E’ un mito, ci ha proprio fregato. Allora abbiamo pensato di sostituire il formaggio, forse troppo morbido e quindi masticabile, con un pezzo di pane duro. Costretto a masticare per un bel po’, sostiene babbo, sarà obbligato a restare sulla tagliola per un tempo sufficiente a farla scattare. Bene, ho guardato, ma il pane se lo sono mangiato le formiche che d’estate mi infestano la cucina. Contro le formiche è una battaglia persa, in partenza, nonostante polverine sparse a tutti gli angoli della casa. Devo solo aspettare il freddo e se ne torneranno nei loro formicai a consumare le scorte di cibo che hanno rastrellato indisturbate in casa mia (compreso il pane destinato al topo). Al piano di sopra invece ho convissuto per alcuni mesi con Billy, come io e Francesca l’avevamo ribattezzato, un geco che sembrava non volersene andare da quella camera accogliente. Piena di ragni tra l’altro, che si riproducono ad una velocità imbarazzante e che non riesco mai a togliere completamente. Insomma, quanto è amata questa casa, proprio da tutti. Ma perché non ve ne state un po’ tutti a casa vostra: le formiche nei formicai, i gechi appiccicati sui muri esterni e i topi dove vogliono purchè all’aria aperta? Gio e Riccardo, invece, hanno il via libera; per babbo e mamma si prevede una libertà vigilata, perché a volte, rompono un po’ i coglioni. Do you know what I mean?, avrei detto…una volta.

giovedì 23 agosto 2007

Graduatorie "ad esaurimento"

E' quasi l'una di notte. Ho provato ad addormentarmi, ho cercato di tenere sotto controllo un attacco di emicrania per poi capitolare e ricorrere all'ennesima supposta di Difmetrè. Penso ininterrottamente, non riesco a dormire, faccio ipotesi e poi le smonto e partorisco idee che da geniali si tramutano, nel giro di qualche ora, in barzellette ridicole. Non c'è niente da fare, sono condannata a questo eterno ruminare, sono costretta a dedicarmi a quest'arte del fare e del disfare nella quale sono un genio insuperabile. Mai una certezza, mai un punto fermo, solo un perenne rimuginare e ripercorrere con la mente le mille opzioni possibili. E cambio idea ogni secondo, anzi ogni frazione di secondo, rischiando di impazzire. Cerco invano di rallentare i miei pensieri, mi sforzo di rintracciare un po' di stabilità, un baricentro non suscettibile al primo ondeggiamento di umori, provo a non farmi sedurre dai dubbi che vanno a corrodere anche le poche certezze.
Ho capito, adesso, il Ministero della Pubblica Istruzione. Da quest'anno le graduatorie sono "blindate", ovvero, questa è stata l'ultima possibilità di scegliere la provincia dove lavorare e dove inserirsi. Idea geniale, ad una prima lettura. Nessuno può più (almeno fino ai prossimi ripensamenti che in questo ambito sono quasi giornalieri) sorpassarti ad ogni aggiornamento, nessuno può più mettere in dubbio la tua posizione nella classifica dei supplenti, nella top ten del precario. Lì sei e lì rimani, in eterna attesa del "ruolo", banchetto pasquale dopo una così lunga quaresima....Ma non avrebbero certo potuto chiamarsi "graduatorie blindate", meglio battezzarle con l'espressione che a loro più si aggrada: "graduatorie ad esaurimento". Perchè è questo che alla fine diventiamo: un popolo di esauriti che non sanno fino all'ultimo giorno dove sverneranno l'inverno, quante ore lavoreranno, quanto guadagneranno e cercano, con una ricerca famelica e pure un po' insensata, di carpire più informazioni possibili, per non arrivare impreparati il giorno delle nomine. Che sarà giovedì prossimo per noi insegnanti di filosofia e storia, alle nove. Ci troveremo tutti a Grosseto a vedere come andranno ad amalgamarsi le mille variabili che cerco adesso di dominare ma che so saranno visibili solo fra una settimana. Ci vediamo a Grosseto giovedì prossimo, tutti belli "esauriti".

In questi, giorni, di fronte a queste esitazioni, a questi continui cambiamenti, a queste idee diverse e contrarie che si rincorrono nella mia testa, mi rimbombano nella mente i versi di Dante di fronte a Virgilio, nel secondo canto dell'Inferno: " e come quei che disvuol ciò che volle / e per novi pensier cangia proposta / sì che dal cominciar tutto si tolle /tal mi fec'io 'n quella oscura costa /perchè, pensando, consumai la 'mpresa / che fu nel cominciar cotanto tosta".

lunedì 20 agosto 2007

Fuori dalla caverna

Ho scritto queste poche righe alcuni giorni fa, in preda ad un acuto malessere. Le trascrivo solo adesso, dopo che l'amarezza si è stemperata.

"E’ un nuovo giorno a Follonica, senza dubbio più pesante di quello appena passato, ma va bene, va tutto tremendamente bene. Tutto torna, adesso, una volta disciolte le parole compresse. Per quale motivo, non so. Mi chiedo come sia possibile che le persone che più ti sono vicine cambino davanti ai tuoi occhi in maniera improvvisa ed inattesa, senza che tu abbia avuto il sentore, senza che tu abbia avuto il tempo di registrarne il cambiamento. E’ proprio vero che siamo sempre, costantemente, prigionieri di quella maledetta caverna, incapaci di volgere attorno il capo. Ed è tremendamente vero che quando abbandoni il buio delle tue sicurezze gli occhi ti fanno male e il dolore si diffonde su tutto il corpo, fino a colpire la tua anima". Ecco un'altra necessaria e vitale maglia rotta nella rete.

"Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sè e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?"
Platone, La repubblica, libro VII.

mercoledì 15 agosto 2007

Emicranie estive


Ancora una nuova emicrania. Ho cercato di stemperarne l’arroganza con una nuova supposta, l’ennesima. Mi uccideranno, questi farmaci mi uccideranno. Cerco di non abusarne, ma il dolore è ogni volta così lancinante che non riesco a farne a meno. Babbo mi sta facendo le iniezioni protettive, nel tentativo di proteggere il mio già così fragile corpo. Sono appena tornata da una cena a casa di Paolo e Simona e ancora, nonostante il Difmetré, sento ogni fibra del mio corpo pervasa da questa sensazione di dolore mista a stordimento. Il risultato del mio essere, giocoforza, una drogata legalizzata. Leggo sulle istruzioni che una supposta contiene: principio attivo indometacina mg 25, caffeina mg 75, proclorperazina dimaleato mg 4. Ecco di che cosa mi faccio quasi ogni giorno. Porto sulle spalle il peso degli ultimi giorni, o meglio, sulla testa. Mi chiedo perché questo ritorno in grande stile della mia terribile compagna emicrania. Ancora una volta cerco di proteggermi dai suoi assalti con mille accorgimenti per poi capitolare e sventolare bandiera bianca. E’ sempre lei a vincere la partita, non riesco a metterla alla porta. Nonostante tutto stasera ho cercato di non farmi soffocare dal dolore e godermi una piacevole serata con un pezzo di famiglia che mi ha donato il dolce sapore dell’appartenenza. E mi sono anche bevuta un bel rosso di Montalcino, alla faccia dei consigli della Lichkok, come la chiama Riccardo.

lunedì 13 agosto 2007

Millenovecentottanta

Che anno è stato? Bo, non so. E’ stato l’anno della pubblicazione del “Nome della Rosa” di Umberto Eco, il primo vero romanzo di cui ho sfogliato le pagine e che mi ha fatto innamorare del calore della scrittura. Vittorio Bachelet è stato ucciso dalle Brigate Rosse, John Lennon da uno squilibrato, è morto Tito a Belgrado, in Irpinia si è aperta la terra e a Milano il biscione ha dato vita a Canale 5. Intanto io entravo per la prima volta in una scuola elementare, in quegli stabili di Via Marconi che oggi, mi pare, ospitino un gommista o qualcosa del genere. Mamma e babbo avevano l’età che io mi porto addosso oggi e continuavamo ad andare a Roma per le visite ai nonni che da lì a poco si sarebbero trasferiti nella nostra città che, forse, non era poi così diversa da come la vedo oggi. Nell’estate del 1980 mi godevo i giochi ai “Bagni Gelli”, come noi avevamo ribattezzato quella lingua di spiaggia libera affollata da noi bambini e dai loro genitori che, operai, non potevano permettersi l’ombrellone agli stabilimenti adiacenti. Io e Sara continuavamo ad azzuffarci per ogni piccolezza per poi ritrovarsi, ventisette anni dopo, a raccontarci le vie più o meno tortuose delle nostre vite e dei nostri amori. E nessuno si sarebbe immaginato che uno di noi avrebbe trascorso l’estate del 2007 in un carcere livornese per qualcosa di più grande di lui, che nessuno di noi osa decifrare. Insomma, come quelli che lo hanno preceduto, il 1980 fu un anno di grande spensieratezza e serenità per la mia famiglia, che avrebbe vissuto momenti drammatici negli anni a venire. Un anno di bambina, una piccola “culodritto” con gli occhi spalancati sul mondo, pronta a cogliere ogni movenza, a decifrare ogni oscuro meccanismo, a moltiplicare le domande per vivida curiosità. Ma allora mi chiedo: perché questo 1980 dovrebbe spaventarmi così tanto? Pensando a questo stasera, accompagnata da questa musica caldissima e avvolgente, capisco che, ancora una volta, il mio sguardo è male indirizzato e vede pericoli dove non ci sono, lasciandosi sfuggire le vere insidie. Evviva il 1980.

"L'estate paziente"


Avrei tante cose da dire ma è come se le parole mi restassero strozzate in gola. Decido di postare ugualmente, convinta che questo blog, possa ancora parlare di me. Per chi non so più ormai, ma non importa. E’la mia finestra sul mondo e voglio ancora aprirla qualche volta per affacciarmi con le mie smorfie. Sono anche stufa di questa scrittura cerebrale e intimista che, come dice Alida, sminuisce la mia esuberanza e mi fa apparire per quella che non sono. Chissà, forse da queste pagine sembro essere una “boring woman”, come un lettore mi ha apostrofato in un commento un po’ di tempo fa. Che estate, piena di sorprese, di turbamenti, di paure e inquietudini. Non ho scritto, quasi mai, tutta presa come sono stata dall’affrontare mille pensieri, girandole di sensazioni, turbinii di incertezze. Mi chiedo se questa estate, prima della sua prossima fine, avrà ancora in serbo qualche sorpresa per me. Un’estate partita a gran velocità, con le emozioni che si rincorrevano ad un buon ritmo, estate che poi ha vissuto una brusca frenata fino a rischiare il collasso, per poi ripartire, sebbene con un battito rallentato. L’angoscia, non so perché, è arrivata da qualche settimana, davanti a quella domanda: ma che sarà di me a settembre? Ma in fondo, se ricerco un briciolo di razionalità, capisco che non posso aspettarmi che paura e inquietudine da quella che io chiamo “l’estate del precario”…
in mezzo a graduatorie, incarichi di ruolo, brutte sorprese, paure sul prossimo futuro (avrei potuto chiamarla “l’estate della supplente” ma mi vengono in mente le commedie sexy all’italiana….quindi vada per l’altra espressione, senza dubbio più sobria). Sembra tutto passato, adesso. Ora c’è un’attesa più calma e raccolta, meno ansiogena, convinta che la Dea Casualità giocherà le sue carte e io ne sarò, ancora una volta, vittima…Vittima? Per adesso, concedetemi questo purismo linguistico, ho avuto sempre un gran culo, nel bene e nel male.
E poi basta, sono stanca di rimuginare su quello che avrei o meno potuto fare. Non c’è niente che mi riesca bene come questo. Sono giornate serene, nonostante tutto e sono contenta per come riesco ad affrontare gli imprevisti e a sbrigliare le matasse, sempre più ingarbugliate.
Aspetto che questi giorni di metà agosto finiscano, portando con sé i mille turisti, il caldo, la festa dell’Unità che mi impegna quasi tutte le sere. E cominci l’ultima, intensa settimana prima di sapere dove il caso mi catapulterà il prossimo settembre. Vedremo. Per adesso vivo, come ho finalmente imparato a fare… e ricomincio a correre.

giovedì 5 luglio 2007

A scuola da Berlusconi

Stamani appena sveglia ero in preda a un senso di smarrimento. Velata da una sensazione di tristezza riflettevo su molte cose: sull’apparente guarigione di mia madre, sull’incertezza del mio lavoro, così amato ma così insicuro, sulla lontananza che mi separa da questo nuovo amore. Era come se, ancora una volta, vedessi i miei più profondi desideri rimandati in un nebuloso domani. Ma per fortuna, qualcosa è venuto in mio aiuto, facendomi godere della gioia di abitare questo straordinario e formidabile paese. Al tavolo di cucina, assonnata di fronte alla mia colazione, ho cercato nei programmi televisivi dell’alba qualcosa che mi svegliasse dal torpore e mi desse la carica. Ed è arrivato questo qualcosa, presto, prestissimo. Una giovanissima deputata forzista, identica a tutte le altre, imbalsamata nella sua bellezza, ha informato gli italiani mattinieri che il presidente Berlusconi ha istituito una scuola per la formazione delle giovani leve del suo “partito”. La deputata ha poi precisato che la scuola, che si chiamerà ovviamente, “scuola del pensiero liberale”, fornirà un supposto formativo a tutti coloro che, alla vigilia della discesa in campo in politica, vogliano acquisire una solida preparazione sui fondamenti del pensiero liberale.
Consiglierei un corso monografico sul Trattato sul governo di John Locke, dove il filosofo inglese parla di divisione dei poteri e, soprattutto, dei limiti al diritto di proprietà. Consiglieri anche, e vivamente, un corsetto sulla visione liberale dei rapporti tra stato e chiesa, tra potere politico e potere religioso. Inviterei a partecipare a quest’ultimo non solo il casto Formigoni, che di Berlusconi si dichiara seguace ed ammiratore, ma anche il caro Walter Veltroni che sembra essersi immolato alla causa del Pd. Qualche lezione di laicità non farebbe male a nessuno, soprattutto a chi sta per aprire la porta alla Binetti & Co. Buona scuola a tutti.

Registro di classe

Mi sono lasciata di nuovo affanscinare dalle pagine di quel testamento narrativo che è Registro di classe di Sandro Onofri. Mi ha accompagnato per tutto l'anno scolastico, some stimolo alla riflessione. Trascrivo le due pagine più belle, nonostante la lunghezza.

"Quelli che di questi tempi, con gli scrutini, non fanno che interrogare e interrogare. Quelli che tanto non serve a niente. Quelli che lo sciopero è solo una perdita di tempo. Quelli che chi sciopera crea disagio solo ai colleghi. Quelli che fate come volete basta che non mi fate tornare di pomeriggio un’altra volta. Quelli che per quello che ci danno. Quelli che io, con questi studenti qua, posso concedere al massimo un cinque. Quelli che io do tutti sei, mica voglio tornare a fare il recupero. Quelli che ma queste sono bestie, cosa gli vuoi dare? Quelli che la scuola sarebbe così bella se solo non ci fossero i ragazzi. Quelli che noi, che facciamo i professori, lo facciamo per una vocazione. Quelli che nessuno lo capisce. Quelli che è così bello stare in mezzo ai giovani. Quelle che, ehi, sbrighiamoci, a me alle cinque se ne va via la baby-sitter. Quelli che senta, Preside, lei deve prendere provvedimenti con questa classe qui. Quelli che, con questi giovani, che si presentano con il cappellino in tesa, e il chewingum in bocca. Quelli che io fra dieci giorni sarò in settimana bianca. Quelli che a me mi mancano solo due anni per la pensione. Quelli che a me ne mancavano tre, ma mi hanno fregato. Quelli che lasciano la macchina alla stazione, sennò lo stipendio se ne va via per la benzina. Quelli che io sono un professore serio, i miei voti vanno dal due al cinque. Quelli che ma com’è, com’è che le colleghe so’ diventate tutte racchie? Quelli che in questa cazzo di scuola non c’è manco una saponetta. Quelli che ma dopo, c’è qualcuno che mi dà un passaggio? Quelli che ma in gita chi ci va quest’anno? Quelli che abbiamo studiato tanto e guarda come ci ritroviamo. Quelli che tanto puoi insegnargli quello che ti pare, questi quando escono da qui cosa credi che gli resta? Quelli che l’hai vista la supplente di ginnastica quanto è bona? Quelli che ma quando ci danno la maturità? Quelli che basta, basta fare gli psicologi, qui chi non fa non merita. Quelli che tanto lo so, vi lamentate a poi a fine anno promuovete tutti. Quelli che io non ero così. Quelli che invece no, questo ragazzo è proprio educato, buono, non disturba mai, sta zitto zitto: sette! Quelli che è tutta fatica sprecata. Quelle che ma dove l’hai comprato ‘sto cappottino? Quelle che se rinasco voglio fa’ la bidella. Quelli che queste giovani generazioni, senza valori, senza più padri. Quelli che a noi ci dovrebbero dare l’indennità per i rischi che ci accolliamo. Quelli che la loro materia la sanno così, non c’è mica bisogno di studiare. Quelli che ma tu non sei un po’ troppo largo di maniche? Quelli che io oggi il verbale non lo scrivo. Quelli che i genitori sono peggio dei figli. Quelli che, per questi qui, quello che so basta e avanza. Quelli che guardano quelli che e pensano: questi, beati loro, questi non hanno ancora capito".

Sandro Onofri, Registro di classe.

Bilanci

Sforzo a registrare le emozioni di queste ultime settimane, nonostante sia difficile menzionarle tutte e dare loro voce . E' finito il primo, vero, intenso anno di scuola. Ho salutato i ragazzi sciogliendo, come al mio solido, il nodo di pianto che mi bloccava il respiro, lasciando cadere qualche lacrima, non prima però di un coinvolgimento in una lotta bambinesca con le pistole ad acqua.
E’ arrivato, inevitabile, il momento dei bilanci che, ogni volta, perfezionista ed esigente come sono verso me stessa, mi trovano sempre perdente. Gli errori non si contano. Sciocchi, irragionevoli e a volte inspiegabili, dettati da una acerba esperienza ma anche da una endemica approssimazione che dovrò imparare, nolens volens, a superare.
Eppure, nonostante i rimproveri, so che non solo non potrei essere diversa da come sono, ma che, in fondo, non lo desidero neppure. Adesso non indosso più quella penosa maschera che tanto mi soffocava all’università e posso tornare ad essere quella che sono. Niente più farse, niente più finzioni. Adesso ho ripreso il potere di essere me stessa. In questi giorni pensavo che se non avessi provato quella rabbia e quel disgusto trasformatisi in coraggio, adesso sarei inchiodata ad una scrivania, a dipendere, quotidianamente, da una volontà altrui, arrogante ed arbitraria. Ed invece sono ancora in mezzo ai miei ragazzi, anche se non so per quanto. Le graduatorie, in fondo, non hanno rappresentato una brutta sorpresa, e sono anzi un buon inizio, nell’attesa che la snervante estate del precario finisca. Che inizia domani, ad esami finiti.

mercoledì 6 giugno 2007

Il dolce sapore di una sorellanza

Ho scritto questi appunti qualche settimana fa, mentre viaggiavo in treno verso Roma. Sono rimasti sulla mia agendina senza che dessi loro respiro. Li trascrivo adesso, dal momento che sono, per me, parole estremamente preziose.

"Qualche giorno fa, pensando alla morte, in primo luogo alla mia e poi a quella degli altri, mi sono chiesta chi delle due accompagnerà l’altra, dove non so. Non mi sono chiesta se, ma come saremo vicine anche negli ultimi istanti, dando per scontato che la tua sarà una delle ultime mani da cui attrarre il calore. E poi mi sono chiesta se mai riuscirò a partorire una figlia un giorno, una Marta incantevole, per dare a questo simbolico gineceo una nuova presenza, di donna. Sento che non sarei quella che sono, oggi, senza la tua vigile e costante vicinanza. Una vicinanza che ha seguito ogni mio passo, ha soccorso ogni caduta, ha sorvegliato ogni svolta pericolosa o incerta.
Ricordo quel sabato, quel prosciutto offerto in segno di accoglienza e benvenuto (cos’altro potevi aspettarti da un gruppo di gaudenti?), penso a tutti quei momenti di condivisione, alle giornate pisane, ai concerti, alle risate, alle urla a perdifiato, ai pianti a dirotto, penso all’apparente aderenza delle nostre vite che così spesso si sono assomigliate nei loro tortuosi percorsi. Dio mio Gio quante cose, Dio mio quanto è inestimabile questa sorellanza. Chissà cosa ci aspetta nei prossimi anni, spero che anche tu, come me, adesso non ne sia più impaurita. Sono convinta che ci aspetta un gran futuro, ad entrambe...per adesso goditi questa dichiarazione…senza montarti troppo la testa però…

Rinascite

Non scrivo da più di un mese, per varie ragioni. Certo la tecnologia non è venuta in mio aiuto, con una connessione internet alquanto balorda, un computer che, nonostante sia indispensabile in questi ultimi giorni di scuola, si guasta con una capacità sorprendente, quasi a volermi punire di un suo uso eccessivo. Anche lui si è preso il suo periodo di risposo, strappandomelo con la forza, come fa spesso il mio corpo quando lo sottopongo a fatiche eccessive e si ferma, costringendomi all’immobilismo della mia emicrania. Ma non ho scritto anche per altre ragioni, forse perché è venuto meno il pungolo continuo della ruminazione mentale e soprattutto perché ho davvero staccato la spina, tutta presa come sono stata a godermi a pieno questa salutare rinascita. Che bello, rinascere, ancora una volta. Quante sono state in questi anni? Se penso alle mie rinascite la prima che mi viene in mente è quella che mi ha restituito a mia madre. Una rinascita che non ha coinciso affatto con il cancro che l’ha colpita, ma che risale a molto tempo prima, come questo blog itinerante le ha ben manifestato, nelle sue plurali manifestazioni d’amore. Anche Carla Lonzi parlava di una "seconda nascita" riferendosi all’incontro con il movimento delle donne e io non posso che appropriarmi di queste sue parole. Una "seconda nascita" sì, soprattutto rispetto al suo essere donna e madre. Poi penso alla rinascita scaturita da quella fuga: non tanto l’incontro con il caos assordante di Londra, ma quella lettera prudentemente impostata in quell’appartamento fiorentino che ha segnato il definitivo abbandono di una maschera diventata asfissiante.
Ed adesso assaporo questa nuova rinascita, questo mio ritornare a vivere con entusiasmo, imponendo a me stessa di essere attenta a godermi ogni attimo, ogni emozione, ogni sottile sensazione. Tutto questo mi parla con una pluralità di linguaggi, che si sovrappongono, producendo una melodia dolcissima e finalmente orecchiabile. Non ho nemmeno voglia di chiedermi quanto durerà tutto questo, se riusciremo a sopravvivere, se supereremo le mie paure, le mie insicurezze, se non mi lascerò strozzare da questa nostalgia per un passato che parla una lingua adesso davvero quasi incomprensibile. Lui invece parla un linguaggio che intreccia il passato al futuro, in una continuità quasi sorprendente: richiama in me accordi antichi, mai dimenticati, stratificati nelle mie memorie di bambina e, allo stesso tempo, mi proietta in un futuro tanto incerto quanto piacevolmente immaginato. Finalmente si pensa di nuovo al futuro, si pensa di nuovo al domani e si immagina solare, pieno di sorprese, di regali inaspettati. Che bello essere di nuovo viziata da un pensiero costante, che bello essere di nuovo accompagnata da una presenza diventata già tremendamente necessaria. Presenza che scalda, che protegge, che avvolge.
Ma oltre a rinascere in queste ultime settimane sono stata impegnata, come al mio solito, ad infilarmi nei soliti impicci e così, presa non so da cosa, da una passione antica, da una voglia di radici, mi sono fatta coinvolgere nella costituente del Pd. E meno male che il mio ultimo post era proprio un grido di terrore di fronte a questa prospettiva. Che però, nonostante io stessa continui a scalciare in segno di rifiuto, sarà davvero l’unica alternativa a questo marasma. Sono anche in mezzo a un trasloco, ma di questo parlerò più avanti.
Dimenticavo….in tutto questo c’è anche una canina….che non ho ancora visto…"porco canaccio".

Crozza a Ballarò, in questo momento:
"Mai mi sarei aspettato di vedere Berlusconi che difende così tanto la guardia di finanza".

mercoledì 18 aprile 2007

Moriremo tutti democristiani?

Ho affrontato tante metamorfosi, plurali cambiamenti. Anche in politica, che mi sta appiccicata addosso come una seconda pelle da quando sono adolescente, da quando mio padre, mia madre e mio nonno materno mi hanno offerto quella prematura iniziazione alla cura della pòlis che non ho mai abbandonato, nonostante tutto. Riflettevo sulle mie radici, negli ultimi giorni. Questa è una delle più forti, delle più profonde, affondata nel patrimonio della sinistra italiana. Tuttavia, come si suol dire, “a vent’anni siamo tutti incendiari e a quaranta siamo tutti pompieri”. E così, passata l’ebbrezza politica adolescenziale, ho piano piano abbandonato un territorio familiare, disgustata spesso da un ideologismo eccessivo, una faziosità esasperata, una palese volontà di modificare la lettura della realtà a proprio interesse e vantaggio. Devo al mio amore per la politica mille cose: l’incontro con Bafisia, una crescita precoce, una volontà di abitare il margine, un atteggiamento altezzoso, spocchioso, tremendamente antipatico, ma anche terribilmente necessario. Ho abitato le stanze di una sezione di partito fin da adolescente, ho letto mille giornali, ho seguito noiosissimi dibattiti e, forse, non sarei quella che sono, adesso, se non avessi intrapreso quel percorso. E sono soprattutto certa che non avrei lasciato l’Università e una carriera a portata di mano se tutto questo non avesse avuto odore di mafia, e quindi non avesse rappresentato tutto ciò che mi disgusta di questa amata/odiata Italia.
Vivo l’odio che satura questo paese, un odio e un disprezzo marchiati a fuoco come una cicatrice su quest’Italia bigotta, violenta, arrogante che, ancora oggi, accusa, giudica, sentenzia. Ho maturato uno sviscerato ed incallito ribrezzo per un paese così martoriato, fiaccato da un’ipocrisia e da un fariseismo che violentano le libertà personali, torturano le coscienze, violano i più elementari diritti, bloccando lo sviluppo del mio paese e facendo perdere a molti la luce del buon senso, in nome di chissà quali supremi valori.
E allora ripenso al referendum sulla legge 40, a Piergiorgio Welby, alla battaglia sui diritti dei conviventi, all’atteggiamento vergognoso verso l’omosessualità, a questo ritorno del peggio del peggio del cattolicesimo all’italiana…e, mentre penso a tutto questo, da un lato mi avvio a seguire il congresso dei DS, dall’altro raccolgo la delusione per la fine della Rosa nel Pugno, che aveva rappresentato, per me, una quanto mai salutare novità. E allora, che faremo poi? A quale santo dobbiamo votarci?
Per adesso mi metto in attesa di sviluppi, magari meno inquietanti, e mi guardo Gad Lerner, dove si parlerà e sparlerà sull’idea di famiglia. Mi immagino la sagra delle cazzate. Speriamo non ci sia la Binetti, altrimenti mi sentirò male.
Alla fine voterò lo Sdi…lo sentirai Sergino…..

lunedì 16 aprile 2007

Ripensando all'estate dei Negramaro

Se penso a quando sono stata davvero felice l'ultima volta, mi viene alla mente l'estate in cui Giovanna e Anna sono state da noi. Era l'estate dei Negramaro, del primo pancione da guardare e accarezzare, delle spiagge castiglionesi...un'estate in cui tutto sembrava scritto, fissato, impassibile alla trasformazione, al cambiamento, al definitivo tracollo. E allora mi chiedo quanto abbia ancora voglia di fissare lo sguardo su quello spartito di ricordi, sfogliandone le pagine sempre a ritroso, come se quelle a venire fossero incollate le une alle altre ed io impaurita a leggerne la partitura. Ma dove sta scritto che la melodia che mi attende debba essere meno armonica di quella appena ascoltata? Meno orecchiabile certo, come ogni pezzo al nostro primo e distratto ascolto, ma capace di diventare una piacevolissima aria.
Mi chiedo anche chi voglia far partecipare alla mia orchestra, quali ruoli assegnare a ciascuno, quale posto affidare ad ogni singolo musicista, a chi lasciare gli assoli e chi relegare ad un impercettibile accompagnamento. Purchè si suoni, il silenzio mi stordisce.

mercoledì 21 marzo 2007

La lingua per Auschwitz


Mi chiedo come mettere in parole quel dolore vivido che ti pietrifica, che ti attraversa da parte a parte, che ti inchioda a quel percorso di morte. Si respira la morte, ma non si possiede una lingua che possa tradurla, trasmetterla, narrarla. “I limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo”, scriveva Wittgenstein. Forse è per questo che faccio molta fatica a trovare un segno per quelle sensazioni, che oltrepassano l’umana comprensione, il comune sentire, il razionale tentativo di comprenderle. Popolare quelle gelide stanze, resuscitare quei binari morti, immaginare dei corpi per quegli oggetti fossilizzati a nostra memoria. Confrontarsi con un passato che ti squadra da ogni lato, calpestandoti ad ogni tuo passo, scoprire una ferita perenne, una piaga purulenta nel cuore dell’Europa, nel corpo di un’umanità offesa. Sono contenta di aver portato i miei ragazzi in questo luogo dimenticato da Dio e sono anche fiera del loro modo sincero di esprimere insopprimibili emozioni. Le mie sono ancora molto trattenute, irrigidite ed incapaci di proiettarsi in uno scritto; ma forse è un limite della scrittura e del linguaggio, non del cuore.

Il sacro a Jasna Gora

Mi chiedo nuovamente come possa non sentire mai, in me, il richiamo del sacro. Preclusa ogni via alla trascendenza, chiuso ogni passaggio verso una dimensione altra, verso un sacro iperuranio, mi sento ancora di più ancorata al terreno, al concreto, al corpo. Nessun contatto con il divino, ma solo preghiere che restano strozzate in gola, prive come sono di qualsiasi destinatario. E così oggi, nonostante in questo luogo sacro abbia provato compassione, nel senso originario di un con-sentire, con coloro che rivolgevano all’Eterno le loro suppliche, non ho saputo dedicare a mia madre neppure una preghiera. Anzi, ho cercato di allontanare dalla mia mente il pensiero di lei, per non alzare al cielo, anziché preghiere, irrisolvibili domande e rancorose maledizioni.
Mi sento un animale senza Dio, con le braccia conserte, a contemplare il nulla.

Io e loro, loro e me

Dopo la difficile mattinata di lunedì scorso, in cui ho dovuto affrontare un ennesimo, incomprensibile ed imperdonabile attacco di F., sto cercando di godermi i miei ragazzi. Bafisia dice che la differenza tra noi e loro è solo sociale e culturale e che ci sono ancora mille parallelismi da rintracciare tra le generazioni.
Cerco di cogliere il senso delle cose, cerco di afferrare il loro senso delle cose, sforzandomi di andare al di là di questa adolescenza apparentemente sfibrata, svogliatamente monadica, orgogliosamente distratta. Penso a questi quindici anni che ci dividono e cerco di risalire il corso inesorabile del tempo per scorgere somiglianze e appartenenze. A volte riesco, con loro, a suonare piacevoli accordi, altre volte produco una melodia stonata, che stride all’ascolto. Alcune volte annego nel fossato che mi separa da loro, altre volte rintraccio stupefacenti comunanze. Come ieri, con Dauson che mi chiedeva di vendergli i miei dischi dei Litfiba, quelli che hanno accompagnato alcuni anni della mia piccola rivoluzione adolescenziale, o come adesso, mentre li sento parlare tra loro in libertà. Qui in Polonia le parole finiscono in “osky” e ancora oggi si modella un linguaggio immaginario, come facevamo noi, in quella gita a Parigi dove il mio amore sembrava forte e indistruttibile, mia madre immortale, io impermeabile al dolore.

martedì 20 marzo 2007

Clarice Lispector

In fondo, anche le attese senza fine nelle sale di aspetto degli aeroporti hanno in serbo sorprese. Come il tempo vuoto da riempire con la lettura, facendoti largo tra le inevitabili distrazioni, tra i ragazzi che mi chiamano, tra il telefono che squilla, i passeggeri che si lamentano e i pianti insopportabili dei piccoli viaggiatori. Il libro è bello, intenso, anche se un po' pesante. Le pagine non scorrono veloci, ma hanno bisogno di essere assorbite con lentezza e concentrazione. Ecco una pagina che ho particolarmente apprezzato.


“Se lanciassi un grido – penso ormai senza lucidità – la mia voce riceverebbe l’eco uguale e indifferente delle pareti della terra. Se non vivo le cose, allora, non troverò la vita? Ma anche così, nella solitudine bianca e limitata in cui ricado, sono ancora prigioniera fra montagne chiuse. Prigioniera, prigioniera. Dov’è l’immaginazione? Cammino su binari invisibili. Prigione, libertà. Sono le parole che mi vengono in mente. Ma non sono quelle vere, uniche e insostituibili, lo sento. Libertà è poco. Quello che desidero non ha ancora nome…Cercare tranquillamente di ammettere che forse lo troverò solo se andrò a cercarlo alle fonti piccole. Oppure morirò di sete. Forse non sono fatta per le acque pure e vaste, ma per quelle piccole e di facile accesso. E forse il mio desiderio di un’altra fonte, quell’ansia che conferisce al mio viso l’aria di chi va a caccia per sfamarsi, forse quell’ansia è un’idea – e null’altro”.

Clarice Lispector, Vicino al cuore selvaggio

In volo per Varsavia

Ritornare a quel luogo, dissotterrare emozioni, recuperare ricordi mai sbiaditi, vivide sensazioni di fuga. Che emozione alzarmi di nuovo in volo ed indietreggiare a dieci mesi fa, quando il viaggio era simbolo di quell’Ausgang su cui tanto ho riflettuto negli anni universitari. Eccolo l’atterraggio che richiama una antica melodia del cuore, rievoca sussulti, riecheggia un coraggio fino ad allora mai sperimentato. Mi chiedevo in quell’attesa snervante, in quell’aeroporto che aveva appena registrato le solite movenze che anticipano una partenza, cosa mi fosse rimasto di quella partenza, la sola, la mia. Interrogando la trama delle mie emozioni mi sono trovata a domandarmi chi sarei adesso se avessi provato a restare. Cosa sarebbe cambiato? Avrei potuto, nonostante tutto, accompagnarla ugualmente. Ecco, di nuovo, i sensi di colpa, nonostante non abbia niente di cui accusarmi, se non i pensieri sconnessi che mi tengono legata ad un sentiero interrotto. Rimugino, ricordo, rivedo: questa Londra eternamente presente lo è ancora di più adesso, in questa Varsavia appena intravista dalle nuvole. A volte sono io che mi sento una nuvola, sul punto di piovere.

Britney Spears

“Riflettere, riflettere su di lei. Sul tentativo di essere se stessi”, scrive Christa Wolf. La riflessione su di me, mai conclusa, mai appagante, oggi passa necessariamente attraverso il sentire di lei, un sentire-guardare che passa attraverso il contatto, attraverso le maglie del corpo, attraverso il calore e il profumo della pelle. Prima della mia partenza sono stata a casa dei miei e ho trovato il contatto godendomi una carezza affettuosa e leggera sulla ruvidezza della sua cute. Libera di muoversi e di essere se stessa tra le pareti di quella casa, la mia, la sua, la nostra, si è sfilata senza pudore quella seconda pelle di lana che noi quasi le imponiamo per proteggerci dalle nostre incoffessabili paure. E finalmente ho visto un bagliore di nuova vita su quel corpo così martoriato e assalito da una chimica tanto disumana quanto provvidenziale e ho visto un sorriso sul quel viso che è ancora tremendamente il suo. Ha una leggera peluria sul capo adesso, di un colore ancora indecifrabile, una peluria timida ma coraggiosa, che si fa decisa e sfrontata, quasi a voler sbeffeggiare l’alieno. E lei è ancora più audace, ancora più sfrontata, ancora più irriverente. E così ride, in mezzo alla sala, davanti a noi, davanti alla bestiaccia, e abbozza un ballo, sorridendoci e dicendoci che non è malata, è solo Britney Spears…
Lo so che si sta vendicando dell'alieno, con tutto questo coraggio. Vendetta, che segna già una piccola vittoria.

mercoledì 7 marzo 2007

Divertissement

Non scrivo da più di un mese. Silenzio, silenzi, respiri ed ascolti. Ho deciso di bloccare il flusso dei pensieri, almeno quelli che amavano scivolare sulla carta e rimanervi incastrati. Una volta lì, partoriti dopo lunga gestazione, erano un richiamo continuo, un assillo interminabile, una presenza pesante. Ho scelto il divertissement, di pascaliana memoria. Ho cercato di non pensare, di fuggire la concentrazione, di pensare la morte, di soffrire la solitudine. Nonostante tutto ho recuperato una dimensione del vivere, più umana forse ed ho imparato a leggere di sfuggita le partiture dei miei pensieri, senza soffermarmi troppo su ogni stonatura.
Questo trasferimento ad Orbetello ha senza dubbio rappresentato un salutare cambiamento, anche se non ha certo il significato profondo di quella maglia rotta nella rete che, ancora oggi, solo la mia amata Londra sembra sapermi regalare. Sono, tuttavia, più calma, più rilassata, meno stanca, meno abbrutita da tutti quei chilometri e quelle sveglie che suonavano prima dell’alba. Domenica mi sono anche concessa una bella passeggiata in Feniglia, godendo di un sole primaverile e bagnandomi i piedi con la fredda acqua del mare, assaporando un’estate che non tarderà. Sto bene qui. Sono almeno protetta da queste mura che non grondano ricordi come quelli della mia casa in campagna. Qui, almeno, respiro. A casa mi sentivo bloccata tra quelle pareti, incastrata da pesanti memorie, intrappolata in uno spazio abitato da mille presenze, reali ed immaginarie. La presenza reale dei miei, incapaci di comprendere la fisiologica necessità di tracciare confini, quella inconsistente di un uomo che ha amato ed abitato quella casa tanto quanto me, per poi cadere, esausto, di fronte ad una stanchezza non più gestibile. Adesso mi sento più libera, almeno da tutti questi pensieri. Basta pensieri, basta pressare nella mia testa innumerevoli congetture, senza mai arrivare ad una conclusione, ad un punto fermo in grado di regalarmi un po’ di tregua, anche solo come provvisorio armistizio. Da anni mi dedico ad una ruminazione mentale che mi la vita sopra e dentro di me, impedendomi di godere l’attimo, alla ricerca di un domani che mai si trasforma in oggi.
Devo dare al passato e al futuro il loro giusto posto, senza permettere loro di rendermi impossibile il qui ed ora.
Stasera sono stanca, non ho voglia di leggere né studiare. Mi concedo un po’ d’ozio e ceno a latte e biscotti. Un ozio accompagnato dall’Infedele di Gad Lerner, per non perdere il gusto alla politica.

sabato 13 gennaio 2007

Qualcosa che non c'è

Molino, consapevole del mio amore per la musica, mi ha regalato “Soundtrack ’96-‘06” di Elisa, insieme alla raccolta di De Andrè “In direzione ostinata e contraria”. Le solite raccolte che casualmente si ammassano sul mercato discografico nei giorni di Natale. In questi giorni ho consumato soprattutto il cd di Elisa. Fra tutte le canzoni, una parla proprio di me, della Barbara che si tormenta di pensieri sconnessi e che cerca avidamente una via di uscita ad un malessere che ormai sembra cronico. La trascrivo, anche solo per lasciare traccia dell’amarezza degli ultimi giorni.

Qualcosa che non c'è
Tutto questo tempo
a chiedermi cos’è che non mi lascia in pace
Tutti questi anni a chiedermi se vado veramente bene
così come sono così
Così un giorno ho scritto sul quaderno
io farò sognare il mondo con la musica
non molto tempo dopo non mi bastava fare un salto per
raggiungere la felicità
Ho aspettato a lungo qualcosa che non c’è
invece di guardare il sole sorgere
questo è sempre stato il modo per fermare il tempo e la velocità
Passi svelti della gente
la disattenzione, le parole dette senza l’umiltà
senza cuore, così
solo per far rumore
Ho aspettato a lungo qualcosa che non c’è
invece di guardare il sole sorgere
E miracolosamente non ho smesso di sognare
e miracolosamente non riesco a non sperare
E se c’è un segreto è fare tutto come se
vedessi solo il sole
Un segreto è fare tutto come se
vedessi solo il sole
vedessi solo il sole
vedessi solo il sole

domenica 7 gennaio 2007

Il contrario di uno

Scrivendo così, senza trucchi né finzioni, senza nemmeno curarmi di me stessa, spesso partorisco pagine che sfuggono alla mia stessa comprensione, non solo a quella di chi legge. Ma la scrittura è così, ognuno ne raccoglie i frutti che ritiene più saporiti, ognuno ne assapora una parte, scegliendo, dal grumo dei termini versati, a volte confusamente, ciò che è solo in sintonia con se stesso. Questo mi hanno insegnato le ipnotiche poesie di Nalpas, a giocare un po’ a tombola con parole, a pescare nel mucchio, magari casualmente. Stasera scrivo così, pensieri sparsi, sconnessi, facendoli venire piano piano a galla da un me ancora in tempesta, che rischia di schiantarsi sugli scogli. Chiedo scusa a chi perderà del tempo nel leggerli, ma sono le quattro del mattino ed ho perso un po’ di lucidità nel cercare inutilmente di prendere sonno. E’ una notte difficile, che si spinge fino alle luci dell’alba. Galleggiando in un mare di emozioni da sentirmene quasi affogata, cerco di interrogarmi su molte cose, ancora oscure, ancora non attentamente filtrate. Sto negoziando la mia identità, ancora una volta, ancora una volta nel gioco infinito delle relazioni. Mi chiedo che cosa rappresentino oggi per me, quali siano gli altri significativi a cui aggrapparmi, quali gli altri con cui dialogare, a chi dare spazio, a chi aprire la porta, a chi, invece, rendere difficile il varco. Sarà bene che decida quali carte scartare dal mazzo, quali siano o meno necessarie a farmi portare avanti la partita, senza subire rovinose sconfitte.
Ho studiato un po’ Charles Taylor nei giorni scorsi, soffermandomi sulle dense pagine a commento della Fenomenologia. Torna, di nuovo, nelle riflessioni quotidiane, il tema caro del rispecchiamento. Io mi cerco/vedo in te, io mi rispecchio nel tentativo di dare spessore ad un essere, il mio, che non sarebbe tale se non grazie alle mie relazioni dialogiche. Si pensa alla filosofia alle quattro e mezzo di mattina in questa casa, in mancanza di qualcosa di meglio. Ma non si riflette su un argomento causale, si ricostruiscono i nessi di una riflessione su un tema così centrale alla Barbara di oggi, quello nodale del riconoscimento, della dualità, in primo luogo materna. Mi chiedo cosa cerchi nell’altro e mi soffermo ad analizzare le delusioni che si rapprendono sulla mia anima, fino a soffocarla. Penso a quel passaggio segreto che si crea nell’intersezione delle parole e degli sguardi, passaggio segreto ma privilegiato attraverso cui si aprono un varco i non detti, le emozioni trattenute, la paure taciute, le speranze faticosamente ordite. Pesa questa solitudine, come mai prima d’ora. E pesa questa mancanza di coraggio che mi rende ancora schiava delle solite dinamiche, per me tremendamente assassine.

“Due non è il doppio ma il contrario di uno.
Due è alleanza, filo doppio che non è spezzato”
Erri De Luca, Il contrario di uno

mercoledì 3 gennaio 2007

Stroud Green Road


E’ tornata nei miei pensieri, ha percorso i miei nervi e ha attraversato la mia mente, squassandola e lasciandola esausta, come assetata, ma incapace di dissetarsi. Oggi pomeriggio ho finalmente inviato a Niahm i soldi residui per il pagamento delle bollette. Sono stata alla posta per effettuare il vaglia e scorrendo con gli occhi gli agenti autorizzati per il Money Gram di Londra, lo sguardo si è posato su un per me anonimo negozio in Stroud Green Road. La mia strada, la mia Stroud Green Road. Chissà qual è il negozio autorizzato. Forse il bar vicino alla stazione della metro, gestito dal signore eritreo che mi accoglieva con il suo imperfetto italiano, o forse è quel malconcio negozietto della famiglia turca. Chi l’avrebbe mai detto che, oltre all’aglio, alla cipolla e alle verdure mezze ammuffite aveva l’autorizzazione per la riscossione dei vaglia internazionali?
O magari è solo uno di quei tanti alimentari di cui avrei dovuto fotografare almeno una vetrina, con quelle banane annerite perennemente ammassate e mai vendute. Ma non c’è nessuno a Londra che mangi la marmellata di banane?
Era una strada che amavo percorrere, in tutta la sua lunghezza, su entrambi i lati. Mi piaceva il brusio che usciva dai negozi, il chiasso dei passanti, mi piaceva il senzatetto davanti al Tesco con la sua copia del TheBigIssue ad elemosinare qualche pennies, mi piaceva sbirciare dentro quell’agenzia alla ricerca di un volto caro.
Non so, stasera, se accogliere questi pensieri con un saluto di benvenuto o scacciarli come i peggiori nemici, arrivati a minacciare la pace. Mi manca, la mia Stroud Green Road. Mi manca tutto di quella città e mi manca la Barbara che vi ho sepolto, chissà dove, chissà perché.

martedì 2 gennaio 2007

Ancora una volta...illeggibile

Datemi un nuovo dizionario, insegnatemi un nuovo alfabeto per decifrarmi, suggeritemi le strategie di una traduzione, indicatemi le tappe di uno svelamento, mostratemi la soluzione di un enigma. Che orrore ritrovarsi, ancora una volta, illeggibile. Forse ho solo sovrapposto linguaggi diversi, ho tracciato note opposte sullo stesso spartito, così che la lettura diventa impossibile e la melodia dissonante. Ogni Barbara lascia segno con i propri caratteri sovrapponendoli, tracciando le linee di una molteplicità, di una divisione, di una perenne lacerazione e rendendo poi difficile, quasi impossibile, una se pur ipotetica decodificazione. I miei plurali linguaggi sono quelli della dimensione reale e onirica che tracciano una ragnatela di significati tra i quali, anziché farmi strada, rischio di rimanere avviluppata, come in una morsa assassina. Rimanere attaccata alla terra, ancorata al concreto; abbandonare questo zingaresco fuggire, da un luogo all’altro, come alla ricerca di un po’ di pace, nonchè evitare di sgranare un rosario di sogni, una catena luttuosa di desideri sacrificati.