sabato 30 maggio 2009

Pari opportunità modello Carfagna



Oggi a Napoli giornata di gaypride. Il solito movimento festoso e colorato degli omosessuali di questo paese, in piazza per non nascondersi, per esporsi, per chiedere diritti e riconoscimento. Ripenso al mio gaypride 2008, a Roma, mano nella mano con Riccardo. Pur essendo eterosessuale quando posso mi unisco al gruppo, per far percepire loro il mio senso di vicinanza e per far capire a questo paese che non mi riconosco nella sua violenza, nella sua abituale prepotenza, nel suo voler indicare un modello esistenziale a cui tutti debbano, nolens volens, adattarsi. La loro legge diventa la mia legge, la loro morale diventa la mia morale, le loro scelte diventano le mie scelte. Alcuni anni fa noi poveri elettori di centro-sinistra ci eravamo illusi che anche per noi fosse arrivato il momento di goderci uno Zapatero nostrano. Grandi speranze, grandi illusioni, grande fiducia, la convinzione che presto avremmo vissuto un tempo inedito di “felicità pubblica”, in grado di dare forza e orgoglio a questo paese e di tradurre in pratica programmi di trasformazione capaci di incidere, in modo profondo e magari duraturo, sulla struttura di questo paese. Programmi di trasformazione che avrebbero condizionato non solo il nostro fare politica, ma anche il nostro modo di vivere e di pensare, platonicamente convinti che la trasformazione degli spazi della polis sia impossibile se non supportata da un cambiamento di weltanschaung e di prospettiva culturale. Penso al percorso parlamentare della legge sulle unioni di fatto, su cui tanto si è parlato (e sparlato) negli anni precedenti. Approvare quella legge sarebbe stato un segnale chiaro e inequivocabile di una netta virata, di un cambiamento di rotta. Niente, non ce l’abbiamo fatta. Per responsabilità di molti, per vigliaccheria di tanti. Ma il peggio deve ancora venire, al peggio non c’è mai fine. Il peggio è la sostituzione, con la caduta del governo Prodi e la vittoria di Berlusconi, della ministra Pollastrini con la sua collega Carfagna, che non ha mai fatto mistero di non considerare la questioni dei diritti delle coppie omosessuali una priorità della sua linea ministeriale. Non ho ancora deciso per chi voterò alle prossime elezioni europee. Quindi non parlo per convincere nessuno, ma solo per registrare, ancora una volta, l'ennesima virata a destra che conferma la mia convinzione della profonda distanza tra questo paese e molti che come me, pur abitandolo con immenso amore, iniziano a percepire una sempre maggiore estraneità alla sua sub-cultura, ormai interiorizzata da molti. Spesso mi vergogno di essere italiana, spesso vorrei vivere altrove, spesso rifiuto la mia appartenenza ad un paese senza memoria, senza storia, che ha fatto dell’arroganza, della supponenza e dell’apparenza le cifre del suo essere. Spesso vorrei cambiare mestiere, perché sono stanca di sentirmi una povera Penelope al lavoro di una tessitura pregiata, quella dei valori che cerco di trasmettere ai miei ragazzi, cui periodicamente disfanno la tela in questa sagra della massificazione che spersonalizza i miei ragazzi, sfibrando le loro intelligenze e paralizzando le loro energie. Così apprendo che il 14 maggio il ministero delle Pari opportunità ha presentato la sua nuova pagina web. Bene, direte voi, dov’è la notizia? La notizia è che, rispetto alla versione precedente, è stato cancellato ogni riferimento all’omofobia. Mara Carfagna ha anche deciso di eliminare una commissione per le persone GLBT (gay, lesbiche, bisessuali e transgender) istituita dal suo predecessore. “Non è ritenuta una priorità”: questa la giustificazione del ministero. Sì, non è una priorità. Cosa vuole questo esercito di froci? Così, in questo paese, quando si affronta il delicato e centrale tema della discriminazione, nessuna parola è spesa per i gay. Nessuna parola per chi, quotidianamente, cerca di costruire la propria vita affettiva contro gli stereotipi e i pregiudizi, talmente esasperati in questo povero paese da giungere al limite della violenza. Nessuna parola per chi cerca di difendere la sua personalità, la sua intima sessualità dalla presunzione di verità e dall’insolenza di molti, presunzione ed insolenza che nascondono solo una sedimentata e profonda ignoranza. Se non fosse stata Napoli la città del gay pride, sarei scesa per le strade a fischiare. Ma sono a casa e scrivo…e riprendo fra le mani i libri tanto amati di David Leavitt. Forse ne metto qualcuno in un pacco e li spedisco alla “bella Mara”…che non saprà nemmeno chi sia questo “culattone” americano che, tra l’altro, ha scritto anche un libro sulla mia terra, la mia adorata Maremma di cui prometto che parlerò nel prossimo post.

mercoledì 27 maggio 2009

Cagliari, maggio 2009

L’ultima volta che sono stata a Piombino è quando i genitori di Riccardo sono tornati dall’isola d’Elba. C’era anche mia madre con noi in quell’occasione, sempre sorridente nonostante la malattia e la nera signora alle porte. Durante il viaggio, come mille altre volte, parlo a Riccardo di quella città, del suo significato nella mia vita, del suo ruolo di simbolo per la mia e per la nostra storia. La storia di una famiglia, come tante altre. La storia di una famiglia operaia che ha costruito il futuro di una figlia sulle spalle e le mani di un padre che scendeva, ogni santo giorno, in quel cono d’ombra infuocato, polveroso, nauseante, convinto che il suo sforzo avrebbe generato un progresso e un riscatto. Gli operai non ci tengono che i loro figli replichino il loro destino e forse anche quei giovani operai mentre si calavano a pulire quei serbatoi pensavano che i loro sforzi sarebbero serviti a regalare un altro destino ai propri figli. Quando guardo le mani di mio padre mi concentro sulla loro forza e ruvidezza. Sono mani belle, tarlate dal lavoro, forti, spesse. Poi guardo le mie: le unghie ben curate, una callosità che segna un eccessivo uso della penna, la pelle morbida, liscia, addolcita dalla crema. Osservo le mie dita che hanno evitato di portare su di sé la pesantezza di un lavoro manuale e che si sono allenate solo a digitare su questa tastiera, per scrivere la mia tesi, per pubblicare il mio libro, per preparare le lezioni ai miei ragazzi, per esprimere le mie emozioni. Le mie mani hanno avuto la fortuna di essere state addolcite solo dalle carezze e di non essere state invecchiate dallo sforzo. Ma stasera, mentre le osservo, è come se le vedessi trasformare nelle sue. E’ come se il mio sguardo allucinatorio ingrandisse le dita, allargasse il palmo, raggrinzisse il dorso. Perché la loro delicatezza nasconde la ruvidezza di quelle paterne e la stanchezza del suo mestiere. Perché oggi il sentirmi una privilegiata nell’usare la testa invece che le mani per guadagnarmi da vivere, non mi impedisce di sentirmi figlia di quella storia, di volere appiccicati addosso i vestiti di fabbrica di mio padre, di vedere le sue mani nelle mie. E di sentire la mia anima squarciarsi ancora una volta di fronte a quelle morti, accatastate l’una sull’altra nel tentativo di strappare un compagno ad una fine sicura. Stasera i miei pensieri sono per Pierluigi, Bruno, Daniele e le loro famiglie, le mie emozioni sono accordate sul loro dolore e sul loro lutto, sulla fierezza di venire da lì e di sentirmici attaccata nonostante io non abbia nessun segno visibile di questa storia.

“Hai conservato a lungo un corpo teso, veloce. E’ frutto del lavoro manuale, anche se il termine non è esatto, non è nelle mani la fatica. Preferisco chiamarlo lavoro dorsale, è lì che si accumula lo sforzo. Alla sera nel letto risento sulle costole i quintali che mi sono passati addosso. Le mani non penano a lavoro, ma una schiena che è rimasta china o sotto carico tutto il giorno è solo un fascio di nervi indolenziti. Perciò li chiamo lavori dorsali. Con gli anni la cadenza della fatica è entrata nel sangue, la vena batte i colpi necessari, il corpo si conforma allo sforzo regolare. In quelle ore riesco ad accogliere pensieri, c’è un tempo per loro sotto il respiro corto, sotto il sudore. Passano parole in viaggio, appunti che trattengo a mente e mi fanno compagnia. D’improvviso sul cantiere un operaio sotto un lavoro intenso attacca un canto, un’allegria impossibile. E’ lo sfiato di un pensiero uscito dai colpi regolari, mentre spala macerie o attacca calce con il colpo rapido del polso….”
Erri De Luca, Aceto, arcobaleno

sabato 23 maggio 2009

Macaroni.....io vi distruggo.....



Sono mesi in cui sono tornata a respirare dopo emicranie soffocanti. Quasi vent'anni di convivenza con questa malattia, perchè di questo si tratta, ha certo reso le mie acute crisi di mal di testa familiari, ma non certo sopportabili. Dopo infiniti tentativi di terapia preventiva secondo i classici canali dei vari "centri cefalee" sparsi in giro, decido, quasi dieci anni fa, di sperimentare terapie alternative e mi affido ad una dottoressa tedesca-fiorentina di cui hanno lodato capacità e bravura (con quello che chiede....). Dopo pochi mesi abbandono la mia iniziale titubanza verso omeopatia, ayurvedica e compagnia bella: sto bene, sto benissimo, non ho mai mal di testa. Lei sostiene che la dieta è il primo passo per la mia salute, lei mi invita a cambiare completamente le mie abitudini alimentari e mi "condanna" ad un regime alimentare rigidissimo, ma provvidenziale. Dopo un processo di un’ora teso a stabilire la gravità delle mie colpe al tavolino, arriva una sentenza spietata ed implacabile: niente caffè, niente vino, niente latticini, niente carne di maiale (addio prosciutto, mortadella, pancetta, finocchiona, salame toscano!!!!!!), niente carne rossa, niente olio cotto, niente pasta e pane bianco. Che resta, chiederete voi? La dieta Kousmine, il nome della mia condanna. Mattina colazione complicatissima: una crema Budwig (cereali integrali macinati crudi con semi oleosi, frutta a piacere, olio di semi di lino, yogurt - di soia, ovviamente) che mi costringe ad alzarmi all’alba per permettermi di prendere il treno alle sette; cereali integrali almeno ad un pasto, pesce, legumi, tofu, tanta tanta verdura, pane di segale, farro, grano integrale…Aggiustata con qualche sano principio di macrobiotica, la mia dieta è pronta. Ogni volta mi illudo che il problema non sia quello e ricomincio a mangiare: a godermi qualche caffè appena arrivata a scuola, a concedermi qualche vizio. Il mal di testa non arriva e quindi faccio di uno strappo alla regola la normalità. Non riesco a controllarmi. Una settimana, dieci giorni e ritorna il mal di testa, inchiodandomi a letto per mesi. Così adesso, dopo un terribile mese di aprile, decido di agire con responsabilità e sono di nuovo a dieta strettissima. Emicrania scomparsa, salute di ferro. Riprendo a studiare, ricomincio a correre. Respiro. Vivo. Cerco di resistere, proseguo la mia astinenza da ex caffeinomane e mi lascio andare solo a qualche sporadico stravizio, una fetta di dolce, un gelato il sabato sera. Ma stamani mi sono svegliata con una gran voglia di spaghetti alla carbonara, con tutti i pezzettini di pancetta cotti nell’olio più fritto che c’è e mi è venuta in mente questa scena. Ma sono certa che se a Bice dessi la crema Budwig, o il tofu, come consiglia Albertone (“questo o damo ar gatto”), ci sarebbe un ammutinamento. Lei che è abituata ai soli croccantini…..

mercoledì 13 maggio 2009

Cicatrici

Riesco a riemergere dopo un mese di lungo e inaspettato silenzio. Scrivo solo adesso, dopo aver seguito con amorevoli cure la cicatrizzazione di una ferita tanto profonda, quanto inaspettata. Evidentemente dovevo aggiungere anche questo dolore al lutto immenso e devastante per la morte di mia madre. "La vendetta è un piatto che va servito freddo", mi dicevi più di dieci anni fa. A me invece è scesa nelle viscere come un fuoco bollente e ancora mi brucia lo stomaco. Chissà se leggi ancora queste pagine. A volte mi viene in mente che adesso potrebbe essere il mio turno, nel gioco assassino delle continue ritorsioni. Ma sono pensieri che mi sfiorano appena, solo per addolcire la rabbia che ha stritolato i miei giorni.
Giorni intensi, quelli passati. Giorni di grande stanchezza, per un pendolarismo quotidiano che ha cominciato ad essere insopportabile dopo un anno trascorso ad accumulare chilometri, giorni inchiodata alla scrivania per la stesura di un capitolo per un manuale di filosofia che mi impegnerà fino alla fine del mese. Giorni di sole, finalmente. Un sole caldo, avvolgente, che scalda la mia anima dopo un inverno umido come i miei giorni. Prometto che tornerò a scrivere, prometto che tornerò a leggervi (eppena finito Heidegger e compagni...), prometto che tornerò a respirare di nuovo futuro, prometto ai miei ragazzi che li accompagnerò con tutte le mie energie verso questo esame di maturità che tanto li terrorizza e prometto (a te) che mai chiederò "vendette", perchè mai riuscirei a farti del male. E so che lo sai, purtroppo.