lunedì 28 settembre 2009

Un'altra me - I will survive

Nel tentativo di rimanere fedele ai miei buoni propositi e ai miei inviti ad una seppur timida serenità, assaporo questo fine settimana casalingo. Seduta sul letto in questa nuova casa a pochi chilometri dalla laguna, in questo sperduto paesino di provincia nella più amara Maremma, cerco di registrare le mie sensazioni così come si sono susseguite, oggi, sullo spartito della mia anima. Con una inconsueta tenerezza regalata dalla vecchiaia, la gatta, muovendosi come un’ombra del mio stesso corpo, si rannicchia sul letto e mi guarda, in attesa di un’affettuosa carezza; nelle orecchie le note dolci di Ludovico Einaudi, intorno il solito caos ordinato inevitabile in uno spazio così ridotto. Inizio la giornata di sabato leggendo le ultime righe che ho steso su questo blog: leggo e rileggo, mi stanco, mi annoio, mi arrabbio con me stessa. Sale dal profondo un moto di rabbia e di stizza verso una Barbara che mi infastidisce fino alle lacrime, fino a farmi gridare contro me stessa parole dure e violente, tutt’altro che consolatorie. Capisco che non ho bisogno di conforto e rassicurazione, ma di una vigorosa scossa capace di scrollarmi di dosso questa luttuosa malinconia e questa lagnosa inquietudine. Cazzo, penso: ci vorrebbe mia madre con quei suoi rimproveri tanto duri quanto affettuosi, che riuscivano davvero a svegliarmi da questo dormiveglia dei lamenti e stanavano un’energia sotterranea creduta esaurita. E la parte di me stessa che le ho lasciato assoggettare dopo la sua morte si è svegliata in questo sabato pomeriggio e ha fatto il suo dovere.
Mia madre non c’è più e sembra a volte che io mi sia sotterrata con lei, sono sola in questa laguna sperduta e sono dolorosamente in attesa di un amore che mi travolga, mi trascini, mi sconvolga, fino a regalarmi un figlio. “E che palle” mi viene da urlare, “ma che vuoi” mi viene da chiedermi. Sono stanca di misurare sempre uno iato smisurato fra i miei propositi e le mie azioni, sono stufa di leggere imprecise traduzioni delle mie intenzioni e sono anche stanca di questo spazio virtuale che si è traformato in un lago di lacrime e in un rifugio di lamenti. E basta pure con questa musica splendida ma, se ascoltata in questo momento, capace solo di ipnotizzarmi di fronte alle mie paure. Mi dispiace per Einaudi, ma questo sabato mi sento pronta per Gloria Gaynor. E mi dispiace anche per i nuovi vicini, abituati ad una melodia ovattata e non a questa musica urlata, ma qua si deve traghettare, si deve oltrepassare un fiume in piena, che trasporta con sé i residui di cinque anni faticosi e tormentati. Qua ci vuole “I will survive” a tutto volume. Bice si alza dal letto e si decide per un sopralluogo in cucina, allibita di fronte a tale metamorfosi pomeridiana. Sono le tre e mezzo, tra un’ora c’è “Baaria” al cinema. Sì, lo so, sono sola, ma non è proprio una tragedia, anzi è un qualcosa che mi rasserena e tranquillizza, visto che tutti coloro che ho portato con me al cinema mi hanno coperto di insulti e accusato di essere la solita che vuole giocare all’intellettuale e si scatena con pellicole iraniane sottotitolate in serbo. E anche “tu” non ripetere che la serenità toglie spessore e consistenza alla mia scrittura e che le mie pagine migliori sono quelle che trasudano lutto e disperazione. Comunque “Baaria” era tutt’altro che noioso e soporifero, ma un autentico gioiello, tipico di Tornatore. Esco dal cinema e, finalmente, nel corso affollato di gente alle sette di un sabato sera ancora tiepido, non percepisco il mio essere sola come una colpa, soprattutto grazie ad un’alunna che mi vede da lontano e si precipita per un saluto. “Che fa sola prof. di sabato sera?” Silenzio irreale. Ci penso, so che vorrei dire fra le lacrime: “E’ il primo giorno senza emicrania e, visto che il fidanzato non esiste, un marmocchio neppure e che le amiche sono tutte sparse in ogni angolo meno che qui, me ne vado sola e disperata al cinema, immaginandomi di stringere una mano amata nella penombra della sala….sigh…sigh…”. Ma la parte di me risvegliata dai rimproveri di mia madre a da Gloria Gaynor, scalcia infastidita: “Sono stata al cinema a vedere un film splendido. Dovremmo parlarne a scuola, magari tornarci insieme un pomeriggio”. Mi sento in mezzo al fiume con la mia zattera alla ricerca di raggiungere la riva. La vedo lontana e irraggiungibile, ma gioisco alla decisione di intraprendere la traversata. Mentre remo mi passano davanti la carcasse di tutte le mie amarezze e i rifiuti dei miei tormenti. E’ un fiume denso e melmoso come questa laguna e si avanza a rilento. Mi sento già le braccia a pezzi, ma sono riuscita ad avanzare, seppure il tratto percorso in avanti sembra quasi impercettibile, in questo sabato sera orbetellano.
Arrivo alla macchina e giudo fino a casa. Mi viene in mente il film di Mike Leigh che ho visto giovedì sera e le strade di Londra immortalate con abile maestria. Penso che invece che essere a Finsbury sono ad Albinia ma il paragone, così irreale e assurdo, anziché rattristrarmi mi strappa un sorriso. Non ci sono più a Londra, sono qua. E devo imparare a viverci, non a sopravviverci. Domani è domenica e posso dormire fino a tardi, spero di studiare con impegno e profitto come non faccio da tempo e spero di trovare un’altra Gloria Gaynor che riesca a riesumare quell’altra me che oggi mi ha così piacevolmente sorpreso. E che mi dia l’energia di risalire su quella barchetta all’apperenza fragile e consumata, in realtà integra e resistente. Almeno credo, speriamo di non imbarcare acqua.

sabato 26 settembre 2009

Soliloquio

Finalmente trovo una foto che parla di me. Paolo ha bloccato la mia immagine mentre ero accovacciata su una porzione di scoglio a Cesme, nella penisola di fronte a Izmir. E’ una delle poche foto che ritengo autentiche, nella quale mi rispecchio e mi riconosco. Mi piace, mi piace quell’immortalare quei segni intorno agli occhi su una pelle resa imperfetta dall’acne dell’adolescenza, questo mio essere, anche nel volto, un miscuglio imprefetto di adultità e giovinezza, questo sentirmi un ibrido che, nonostante porti i segni della maturità, stenta a percepirsi un intero. Mi piace guardarmi così, vivisezionarmi in un’immagine che mi rappresenta. E questa, davvero, rispecchia proprio la Barbara che sono: il naso a patata, quei geroglifici sulle guance che hanno scritto sul mio viso la lingua perduta della fanciullezza, quel leggero sovrapporsi dei miei denti in un sorriso che sembra quello di mia madre. Appena l’ho vista mi sono persa a contare le mie rughe, quasi a volermi convincere che , in fondo, questo è il mio tempo, quello dei primi bilanci, delle prime somme, delle prime, dolorose e angoscianti perdite. Con lo sguardo perso nei miei stessi occhi, mi concentro sulla mia solitudine, percepita in modo più chiaro e diretto in questo bilocale sulla laguna e mi chiedo come sia possibile che non riesca a interrompere questo apparente maleficio. Mi chiedo dove sia quella Barbara a lungo immaginata e sognata, mi chiedo dove sia quella figlia tanto desiderata, mi interrogo sui tanti propositi e i mille programmi che avevo ideato rispetto al mio domani. Un domani che è diventato un altro oggi. E mi chiedo come possa riconciliarmi con me stessa, come possa pacificare questa lotta tra i tempi del mio essere, che ho violentemente separato e reso incomunicabili. Stasera mi abbandono a questo ininterrotto soliloquio, mi interrogo affannosa alla ricerca di risposte che vadano a stanare quella porzione di coraggio che so essere sepolta sotto questa malinconia, cerco respiro in questa claustrofobia e capisco che devo imparare ad amare questa mia solitudine, a viverla senza sentirmi perennemente mutilata e recisa. Ne cerco la ricchezza nei miei viaggi, ne scovo la forza tra i miei ragazzi, ne rintraccio le infinite risorse negli obliqui rispecchiamenti con gli altri, ma questo non mi aiuta a sminuirne la durezza. E’ stato bello immaginarmi diversa, abbozzare l’immagine dei miei anni da adulta, vedermi e sentirmi madre, immaginarmi con la mia in una genealogia al femminile che tanto ho desiderato. Devo imparare ad amputare questo brandello di antica immaginazione ormai fossilizzatasi nella mia mente. E’ l’unico modo per salvarmi. E per amarmi un po’.

sabato 12 settembre 2009

In attesa del vino novello

Eccomi di nuovo a queste pagine, dopo un lungo ed inatteso silenzio. Forse l’atrofia estiva della mia scrittura è stata solo la traccia di due mesi di calda serenità, in cui ho lasciato che i miei pensieri non si rattrappissero in una pietrosa malinconia, ma si lasciassero trasportare dal caldo e allegro vento follonichese. Mesi di sincere amicizie, di piacevoli scoperte, mesi di inedita complicità con me stessa e con le mie emozioni. Oggi invece è piovuto e sembra che la mia anima abbia già sobbalzato a questo cambio di clima. Mi sento diversa, in questo giorni di metà settembre, percepisco la mia malinconia salire lentamente ad offuscare i miei giorni, a renderli polverosi, difficili da respirare. E torno a scrivere. Ho ancora sulle mie mani i segni della vendemmia di oggi, quelle macchie scure di acini strizzati che dovrò decidermi a cancellare con un po’ di candeggina. E vorrei poterci lavare anche la mia mente, nella speranza che si porti via tutti i pensieri di oggi, così affastellati l’uno sull’altro da non potersi neppure districare e, quindi, decifrare. Ho pensato a tutte le mie vendemmie, in quella terra così calpestata dai miei piedi di bambina e dai miei passi di adulta, ho respirato l’odore del mosto, ti ho ricordato aiutare mio padre in cantina, lamentarti della troppa stanchezza difficile da sopportare nella partita successiva. E ho visto mia madre apparecchiare per tutti gli amici che davano in prestito le loro schiene ricurve e le loro mani stanche e ne ho sentita, ancora più forte, ancora più violenta, la mancanza assoluta. Anche se è sabato decido di restare a casa, sento che non sarei di compagnia così appesantita da questa giornata. Ma prometto che domani affronterò la mia partenza per la laguna con entusiasmo e che aspetterò con il sorriso il vino novello.