sabato 11 luglio 2009

La morbidezza dei tuoi seni

Stasera sono preda del nomadismo delle idee. Fa caldo, fa tremendamente caldo. Il mio corpo affonda nel materasso e sembra ancora più pesante. Le immagini si affastellano nella mia mente l’una sull’altra, si ammucchiano, per poi spezzarsi, polverizzarsi. Non ho controllo alcuno sui miei pensieri, sono vittima di una battaglia sfiancante ed ho caldo, sono coperta di sudore. Ho bisogno di una doccia, di togliermi di dosso questo senso di umido soffocamento. Ho bisogno di qualcosa che concentri le mie energie e solo l’attenzione al corpo può allontanarmi dalla prepotenza della mente. Devo riprendere la mia zavorra di carne e sangue, ascoltarla con più attenzione. Forse la sto davvero usando solo come una tuta in cui ci sto dentro e che non mi appartiene. Devo ritornare al corpo, per salvarmi. Entro in bagno e accendo la luce. Mi spoglio e lascio che i vestiti scivolino via, ammucchiandosi sul pavimento. Mentre l’acqua scorre nella doccia e diventa tiepida, mi guardo. Guardo il mio viso, le mie mani che passano tra i capelli arruffati, la mia pelle finalmente ambrata dopo un po’ di mare. Un volto si sovrappone al mio, in maniera automatica, quasi istantanea (e istintiva). Sembra che mi sia dimenticata quello scroscio d’acqua che viene giù e che mi aspetta per dissetarmi e volo, come sempre, nello spazio vivo ed abitato di un ieri ormai lontano. Era bello quando si usciva la sera. Era bella quella mezz’ora nel bagno nelle sere d’estate in attesa di uscire. Era bello passarci la crema sulle spalle, sfiorando la nostra pelle con le dita e la nostra anima con le parole. Babbo si chiedeva sempre come due donne potessero prolungare così tanto il tempo, dilatando i minuti e rendendo insopportabile la sua attesa. Era bello truccarsi per esaltare la nostra bellezza, era bello scegliere l’ornamento più semplice per i nostri visi ed accorgersi, proiettate nello specchio di fronte, di come il passare del tempo rendesse le nostre fattezze sempre più affini. Era bello scoprire una sempre più marcata corrispondenza, nei lineamenti dei volti, nei tratti dei corpi, nella forma dei sorrisi. Solo il seno non mi hai regalato, tu così prosperosa e materna, io così esile e mascolina nelle forme del femminile. Quando ero adolescente e vivevo la mia magrezza come una menomazione, in quella giostra della vanità naturale a quell’età, prendevo il mio minuscolo seno tra le mani e sognavo che prendesse forma, crescendo al solo contatto e prendendo il profilo del tuo. Tu calmavi la mia insicurezza di fanciulla dicendomi che sarebbe cresciuto, che presto sarei fiorita nelle fattezze dell’adultità, che avrei assunto un aspetto materno e sensuale. E pensare che invece di vedere il mio crescere, ho visto il tuo asciugarsi di giorno in giorno, perdere la sua floridezza e richiamarmi, nel calore degli abbracci, a quella sentenza assassina che ti ha condannato. Chissà cosa hai sentito quando, per la prima volta, mi sono attaccata ai tuoi capezzoli e ho tirato forte. Chissà cosa hai provato quando mi hai accolto, quando sono affondata nella morbidezza dei tuoi seni, quando mi sono aggrappata a te come un cucciolo spaurito. Chissà se mi hai sentito quando ti ho restituito, ribaltando la generazione, i gesti materni con mani e baci di figlia. Chissà se in quell’abbraccio ti ho contraccambiato l’amore di questi anni. Mi guardo di nuovo, riflessa nello specchio, e ti vedo affiorare fra le rughe del mio viso. E’ bene che mi scaraventi sotto l’acqua della doccia e che raffreddi il mio corpo e i miei pensieri.

domenica 5 luglio 2009

Sulle note di Gabriel Yared

Si rompe l’avvolgibile della persiana e la tapparella viene scaraventata giù murandomi nella mia camera da letto, senza lasciare neppure uno spiraglio di aria notturna che rinfreschi la mia notte. Non resisto in quella stanza con quell’aria densa e soffocante. Mi sposto in sala, non so, forse stasera dormirò sul divano, per permettermi almeno di respirare. Nonostante siano quasi le due mi sembra ancora presto per dire addio a questa intensa giornata. Scrivo, torno a scrivere. Prima su un foglietto ingiallito che trovo sulla scrivania, poi dietro uno scontrino del fornaio, adesso qui, in questa pagina immaginaria. Accendo il computer e mi avvolgo nell’intensa melodia della musica di Gabriel Yared. Assaporo le emozioni di queste due piacevoli serate, in una Follonica così amata in questo periodo dell’anno. Penso ai miei piedi liberi dai sandali affondati nella sabbia fresca, ad una birra sorseggiata lentamente fra parole sbiascicate in compagnia, a quel mare piatto illuminato dalla luce notturna, a quel piccolo bar sul lungomare che sembra avermi riportato un po’ a me stessa. Stasera mi chiedo perchè io continui ad impormi delle camaleontiche metamorfosi che non so sopportare, stasera capisco il segno profondo di disagio ed estraneità che percepisco ad indossare certe maschere, a ricercare certe movenze che parlano di una Barbara che non sono io. Mi sento stasera, mi percepisco, mi appartengo. Stasera davvero non cambierei una virgola del mio viso, del mio corpo, del mio seno, delle mie mani, non indosserei altri abiti se non questi, non trasformerei le mie parole, il tono della mia voce, il mio modo di muovermi, di stare in mezzo agli altri. Ieri, spostandomi da Massa Marittima verso Grosseto, ho guidato lungo quella strada in mezzo alla campagna che accompagna le forme di un piccolo lago e che attraversa tortuosa i vigneti e i prati di questa Maremma per me ancora amara e tremendamente paludosa. Ho pensato che erano quasi vent’anni che non passavo di là. Mi appartengo nel riuscire a tratteggiare una linea immaginaria che lega la Barbara di oggi a quella di quegli anni. Mi appartengo perché non trasformerei una nota della mia melodia, da quelle più intense a quelle più stonate. Mi appartengo perché nell’immergermi nell’atmosfera ansiogena e magica degli esami di maturità ritorno con la mente a quel luglio del 1993 e scopro che ho disegnato un percorso lineare, uniforme e coerente pur nel suo essere intimamente contorto e attorcigliato su se stesso. Stasera assaporo il piacere del riconoscimento, il piacere del mio stesso rispecchiamento. Stasera sembra che percepisca l’esaurirsi di una fase convulsa che mi allontanava da me stessa e mi sento felice. E vedo mia madre, con l’espressione di enorme preoccupazione con cui l’ho percepita nell’ultimo sogno, in cui mi chiedeva ripetutamente di non piangere. Non ce la faccio a dormire sul divano. Ma forse non ce la faccio a dormire.