domenica 11 dicembre 2011

E domani è lunedì...di nuovo scuola

Mercoledì scorso i ragazzi di prima erano alle prese con il compito di filosofia, da Eraclito ai fisici pluralisti. Un bel pezzo di filosofia antica, con quel macigno di Parmenide che, se non ridotto a frasi imparate a memoria e mai dimenticate (ma anche mai capite!!!), non è proprio un filosofo di facile digestione. Cerco sempre di controllare i miei ragazzi: niente cellulari sul banco, niente fotocopie o libri sotto, solo il foglio protocollo e quello della verifica che ho appena lasciato. Io utilizzo l’ora del compito per studiare e, sempre, ad ogni occasione, girello tra i banchi con un libro in mano, inframezzando la mia lettura con occhiate furtive per evitare passaggi, chiacchiere, copiature. Sono molto attenta, ma sicuramente più di una volta sono riusciti e fregarmi. E’ scritto nel normale ordine delle cose: gli studenti copiano, o provano a copiare, i professori controllano, o si sforzano di controllare. Alla loro età elaboravo ogni strategia: fogli, foglietti, fogliettini, romanzi scritti sul banco, appunti sui vocabolari, occhi come telescopi in grado di carpire una formula di matematica dal compito del compagno più bravo (a cui tutti volevamo stare accanto il giorno del compito e il più lontano possibile i restanti giorni dell’anno!!), orecchie puntate al più fioco mormorio. Mercoledì vedo S. che cerca furtiva di leggere qualcosa dentro lo zaino, la richiamo ma la lascio continuare. Poi mi alzo, mi metto a leggere, cerco di dare l’idea che non sono interessata ai suoi maneggi, che guardo tutt’altro. Poi mi volto di scatto e la sorprendo con un biglietto che lei cerca di nascondere stringendo il pugno. Ora non posso più fare finta di niente: le chiedo che cosa stesse facendo, lei fa finta di non capire, le chiedo di farmi vedere che cosa tiene in mano, lei in un primo momento rifiuta, poi cede e apre il suo tesoro. Un minuscolo foglietto, scritto al computer con un carattere minuscolo dove aveva trascritto la definizione di materialismo e meccanicismo (e brava la mia bimba, aveva capito quanto importanti erano per me queste definizioni!). Me lo porge, muta e rossa in viso e dice: “prof. Ma non l’ho guardato!! Lo giuro!!”. Sì, viva la fantasia…allora lo teneva lì, fra le dita, per scacciare l’ansia, al posto del mangiarsi le unghie. “Non importa. Non rispondere alle domande sulle definizioni, perché non te lo posso valutare”. Chiuso. Non voglio fare scenate, non voglio che si senta umiliata di fronte alla classe, non voglio che si senta tutti gli occhi addosso. S. è dolcissima, ha un viso pulito, fresco, i capelli sempre raccolti sul capo. E’ figlia di una famiglia di tunisini che si è trasferita sulla laguna molti anni fa, quei tunisini integrati (che Carlo Mazzacurati mi ha fatto così amare nel suo gioiello “La giusta distanza”) che però per noi sono ancora stranieri. Anche per Antonio, il collega in pensione, simbolo della sinistra solidale e tollerante, che si ostina a salutarla in arabo, senza rendersi conto di quanto la offenda, perché lei l’arabo lo sa a malapena e il suo saluto è un semplice “ciao”, come per i suoi amici e i suoi compagni di classe. Mi piace tanto S. e anche io piaccio tanto a lei. Una volta mi ha detto: “prof. come è bella la filosofia spiegata da lei!” dando al mio Narciso una spinta incontrollabile. Ci piacciamo, ce lo diciamo con i gesti e gli sguardi. Ed è stato bello il giorno dopo il compito, aprire la posta e trovare una sua veloce e concisa e-mail: “prof, sono S..... mi dispiace per quello che è successo ieri durante il compito... le chiedo veramente scusa e spero veramente che lei non si sia arrabbiata... le prometto che non succederà mai più. Baci”. Il mio è proprio il lavoro più bello del mondo.

giovedì 8 dicembre 2011

In/sofferenza

Erano anni che non rileggevo il mio blog, quasi tutto d’un fiato. In questo pomeriggio solitario sulla laguna, con un sole stupendo che mi ha stanato e spinto a correre, mi sono concessa un’inversione di marcia e ho cercato, tra le mie pagine, il senso di tanto cercare. So che dicembre non è il mese migliore per le radiografie all’anima: è un mese che trabocca ricordi e che vorrei poter traghettare senza tutta questa paura, per arrivare a fine gennaio quasi senza percepirne l’esistenza. Un salto nel tempo capace di cancellare questo mese dal calendario e caricarsi con sé i suoi plurali significati. Eppure è sempre stato un periodo così atteso, durante tutto l’anno. Che comincia con il mio onomastico, il quattro, per poi attraversare veloce la giornata di addobbo dell’albero, l’otto, per poi passare al mio compleanno, il dieci, e poi arrivare a Natale. Lei lo aspettava con l’ansia e l’emozione dei bambini, per abbellire la casa e scegliere il colore che, più di altri, rispecchiava il suo sentire. Per anni, da bambina, ho lamentato la sua ostinazione all’originalità, che mi obbligava ad avere un rachitico beniamino decorato con le cose più strane, al posto del classico abete profumato che, solo, poteva dare l’aria del Natale. Adesso guardo questo 25 dicembre che arriva con un dolore che mi si è attaccato addosso come la resina e mi chiedo come possa lavare via da me tutto questo malessere denso come il fumo che fa presa sui vestiti. Ci vuole solo una bella lavatrice, è inutile lasciarli prendere aria perché quell’odore resta avvinghiato alle maglie dei tessuti e ritorna, dopo giorni, a far sentire il suo profumo.

Eppure, dopo questa immersione in questi anni di parole, stasera sento una profonda insofferenza verso me stessa, la stessa che sentiva mia madre. Questo mio eterno cercare, questo continuo ruminare, questo interminabile girovagare alla ricerca di un posto per me. Quel fuggire da qualcosa senza sapere dove (torna il mio amatissimo Kafka), quel mio essere un grumo di contraddizioni, una mescolanza di contrari (per niente armonica, peccato per il mio Eraclito!). Io sono un tutto compresso qui dentro, un tutto e un niente, un infinito numero di antinomie, di opposizioni, di guerre. Un voler essere una studiosa che ha cominciato ad annoiarsi a non fare altro nella vita che studiare, una figlia che ama un padre terribilmente ma che vorrebbe dimenticarlo, una donna che vorrebbe un giorno essere una madre e una donna che allontana l’idea di un figlio come la peggiore iattura a tutta la sua indipendenza. Una che ama la sua casa ma vorrebbe venderla, che vorrebbe andarsene e restare. Una che, alla fine, a forza di stare su questa altalena è terribilmente infelice. E lei me lo diceva sempre. Mi sto arrabbiando, perché vivo come su una nuvola senza mai appoggiare i piedi per terra, perché ricerco sempre un domani perdendo l’oggi, perché assaporo sempre il profumo di un qualcosa che non c’è è dimentico il concreto che possiedo. Non mi sopporto, in questi giorni non mi sopporto. E pensa come deve essere difficile per gli altri. Domani Firenze, un ritorno tanto atteso e temuto, ma non più procrastinabile. E un compleanno fiorentino con due amiche carissime. Speriamo mi sopportino almeno loro.