Sono di nuovo a Londra da mercoledì sera. Quando ho iniziato
a vedere la città, al buio, la sera del mio arrivo, mi sono sentita come
accolta di nuovo nel ventre materno, custodita, riparata in una amniotica
protezione. Ed è stata una sensazione tanto marcata e palpabile quando inattesa
e paradossale, visto che è proprio per prendermi cura di quel ventre che l’ho
lasciata, strappata con la più feroce delle violenze, quella della terribile
malattia di mia madre. Ed è come se lei
mi accompagnasse in questo ritorno, breve, fugace, ma non per questo meno
intenso, è come se la sua voce mi rincorresse a ricordarmi il suo sostegno in
quei giorni in cui avevo deciso di restare, in cui avevo scelto di tentare. Di
fronte a un padre arcigno e severo, ignara che
l’alieno la stesse corrodendo con una pazienza assassina, ha dimostrato
quanto le donne siano più forti e consapevoli di fronte ai distacchi e siano
più addestrate a una materna empatia. La mattina il telefono squillava sempre
verso le undici in quell’appartamento a Finsbury ed ogni giorno era un ascolto
attento e meticoloso: non le sfuggivano mai le mie ansie e i miei sospiri,
captava ogni atto di coraggio, riconosceva ogni passo incerto, intercettava
ogni entusiasmo e ogni moto di terrore. Registrava tutto, anche le sensazioni
più intime e impercettibili. Mi fisso allo specchio di questa camera d’albergo
e vedo le mie fattezze trasformarsi nelle sue, è come se fosse qui, a dirmi
che, qualunque sia la mia scelta in futuro, lei ci sarà. Penso che a casa ho un
lavoro che amo molto, ho i miei ragazzi, ho il mio nuovo inizio grossetano, ho
mio padre, Giovanna, Molino. Non è certo poca cosa tutta questa ricchezza. Ma
vorrei anche che laggiù, in quel lembo di Maremma, ci fossi anche io, senza
dover cercare la metà di quella Barbara che è ancora attaccata a quella città
in una sorta di crocifissione infinita. Vorrei risorgere, non dico dopo tre
giorni (l’alta considerazione che ho di me non arriva certo fino a simili
accostamenti!), ma almeno dopo sette anni. Dopo sette anni mi sembrerebbe di
meritarmelo, anche solo come premio a tutti i miei sforzi. E invece no,
ritorno. E più che con il corpo, ritorno con la mente, da mesi ormai braccata
da questa ossessione. Ogni volta spero di trovare qualcosa che mi faccia
desistere da questi folli propositi e invece Londra è sempre uguale e io mi
sento sempre più a casa. Avvolta, protetta, finalmente al riparo.
Dopo anni riprendo confidenza con la musicalità della
lingua, l’ascolto, ritorno di nuovo a comprenderla, mi dispiace averla persa
per non averla coltivata in tutti questi anni, la sento di nuovo mia. Sento che
ce la posso fare a sconfiggere quel mutismo che mi sono imposta per fuggire al
dolore del distacco.
Stasera, nel racconto del mito di Aristofane, ho capito che
quella ad essere tagliata a metà sono io stessa: una parte è stata scaraventata
oltre Manica, l’altra è rimasta a casa. Parlano due lingue diverse, hanno sogni
inconciliabili, si immaginano diverse fra dieci anni. Il petto, purtroppo, come
nel racconto platonico, Zeus lo ha spianato con ineguagliata maestria. Si
rincorrono queste due metà, si cercano, si bramano. E allora, visto che quella
stronza se ne sta radicata sulla collina di Hampstead e non ha nessuna voglia
di venirsi a fare un bagno al mare, la prof. fa la valigia e viene a godere,
anche solo per quattro giorni, del piacere impareggiabile dell’autenticità e
della completezza. Forse la più importante, quella con il sé.
Ritorno a Crouch End dopo sette anni. E’ bello scoprire come
il tempo passi sulle nostre vite e dia loro forme diverse. E’ bello
riconoscere, al di là dell’erodere carsico degli anni sui nostri ricordi e sui
nostri sogni, come alcune cose siano rimaste identiche. Il pensare che sette
anni fa non ti saresti immaginata mai questa nuova immersione e tutti i
cambiamenti che ci hanno portato fin qui mi fa davvero comprendere quante siano
le cose che sfuggono al nostro controllo, alla nostra capacità di previsione,
alla nostra mania di fare progetti. C’è sempre qualcosa che scompagina le
carte, ci sono sempre bivi inaspettati. E mi fa capire di come sia davvero
tempo sprecato il tormentarmi con quei rosari infiniti di “se avessi fatto” che
io continuo a sgranare negli anni. Devo smetterla di battere i piedi contro il
destino, devo finirla di tormentarmi. Ma devo anche smetterla di sentirmi
perennemente in esilio.
Domani è domenica e spero che ci sia un po’ di sole. Non
chiedo una temperatura mite, va bene anche questo freddo gelido che screpola la
pelle del viso, ma è sufficiente che non piova. Ancora un giorno e lunedì sono
di nuovo in Toscana, a godermi il sole e questa primavera che ha tardato ad
arrivare. Per la giornata di oggi ringrazio Crouch End e quel vino cileno che
mi ha fatto venire tanta voglia di scrivere. E mia madre.