giovedì 26 febbraio 2009

Persino il tuo dolore

Si profila un pomeriggio intenso e pertanto mi metto a scrivere per fare un pieno di energie in grado di darmi la forza di non capitolare. Torno da scuola alle tre del pomeriggio, pranzo e cerco di mettere a tacere un nuovo mal di testa, non so se causato da un'indisposizione tutta femminile o dal vortice di pensieri che mi ubriacano da mesi. Ho già disseminato le mie carte e i miei libri sul tavolo di cucina, come promemoria al tanto lavoro da fare, come pungolo alla mia pigrizia, come rimprovero alla svogliatezza degli ultimi giorni. Devo riprendere le fila dei miei tanti lavori per i ragazzi, iniziati e ancora non portati a termine, interrotti da un'indolenza che davvero non so spiegare, da un mio essere concentrata su altro, tutta presa come sono a battagliare inutilmente con un esercito troppo bene armato di inquietudini e preoccupazioni.
Ho viaggiato in macchina oggi anziché prendere il treno, per concedermi un'ora e mezza di sonno in più, per essere libera dalle attese snervanti in stazione, per potere arrivare a casa ad un'ora abbastanza decente. Viaggio di pensieri e di ricordi. Avrei voluto fermarmi a salutare le infermiere dell'Hospice che ci hanno accompagnato in quel mese terribile, sono giorni che mi piacerebbe farlo, ma ogni volta che mi avvicino allo svincolo della superstrada, a quel “Grosseto centro” che indica il percorso verso l'ospedale, il piede automaticamente spinge sull'acceleratore e mi impedisce di virare a destra. Così vedo allontanarsi dal mio sguardo quel grande palazzone che ospita le sofferenze di molti e che ha accolto la mia mamma con un amore immenso, coccolandoci fino all'ultimo giorno, e sento che non sono ancora pronta di varcare quella porta e ritornare anche con il corpo in un luogo che non ho ancora abbandonato con il pensiero. Perchè in fondo anche se sempre in giro tra un estremo e l'altro di questa costa meravigliosa, io sono sempre in quella stanzina e ne ripercorro gli spazi, ne sento ancora il profumo, e continuo a vederla in quel lettino, sempre serena, sempre sorridente, convinta che presto sarebbe tornata a casa, incapace di credere che lei stessa si stesse abbandonando per andare chissà dove, felice di vivere questa vita meravigliosa nonostante il dolore, la sofferenza, le gambe immobili che non le permettevano di fare nemmeno un passo. Allora mentre guidavo verso casa, con il suo sorriso stampato nella mente, pensavo davvero che questo è il regalo più bello che mia madre possa avermi fatto: il suo sorridere sempre, in ogni occasione, il suo alzare gli occhi al cielo e gioire di una giornata di sole, il suo amore smisurato per tutto. Così i miei pensieri solitari, spontaneamente materializzatisi nel mio viso finalmente disteso, sono volati ad un anno fa, ad un dicembre assolato di ritorno da un altro ospedale e l'ho vista, appena uscita da una sala operatoria, passare davanti al cimitero e prendersene gioco per poi volare in centro a comprare il vestito per una festa dietro l'angolo, in attesa di brindare ad un nuovo anno, forse l'ultimo.
Non ho consolazione alla morte, ho chiuso le porte alla trascendenza, il mio ateismo mi lascia silenziosa di fronte alla sua scomparsa e non faccio abitare a mia madre nessun paradiso, nessun iperuranio, se non quello della mia anima, adesso così colonizzata dalla sua presenza. E l'ho vista oggi, l'ho sentita, più che mai. E l'ho sentita chiedermi di non appesantire questo difficile cammino inauguratosi dalla sua perdita con sofferenze ulteriori, tanto aggressive quanto superflue. L'ho sentita chiedermi di scrollarmi di dosso questi dolori, queste ansie e godere di ogni momento, senza paralizzarmi in una irragionevole e immeritata attesa, senza immobilizzarmi in una accesa immaginazione che mi fa partorire cose che non ci sono e che mi fa dipingere le persone che mi accompagnano con colori che non sono i loro, costruendole a mia immagine e somiglianza, per poi scoprire che tutto questo non è che il frutto guasto della mia fantasia. Guido e la penso, la sento, continuo a parlarle, a rivolgerle rumorose domande nell'attesa di scavare nella mia coscienza la sua risposta scritta per me. E oggi lei mi invita finalmente a sorridere, a non soffrire per queste sciocchezze, a non piangere per chi semplicemente si rivela se stesso, a non arrabbiarmi per essere caduta, ancora una volta, nei tranelli dei miei desideri. Vedo la mia città che si avvicina, sono talmente immersa nei pensieri che guido oltre la solita uscita (non è che, per caso, la oltrepasso per non leggerne il nome????) e mi godo la vista del mare, l'isola d'Elba, la Corsica in lontananza e mi lascio a un sospiro che mi conforta, che mi rinfranca. Penso a quanto lei mi abbia insegnato a non lasciarmi intrappolare da falsi problemi, rifletto sulla forza con cui lei abbia riso in faccia alla malattia e sbeffeggiato il dolore e canticchio fin sotto casa:
meraviglioso, ma come non ti accorgi di come il mondo sia meraviglioso
persino il tuo dolore potrà guarire poi
meraviglioso
ma guarda intorno a te
che doni ti hanno fatto
ti hanno inventato il mare
Tu dici non ho niente
ti sembra niente il sole
la vita, l'amore....”

domenica 22 febbraio 2009

Riconciliazioni



Passeggio da sola per il lungomare dove sfilano i carri. E' una domenica di sole, con le nuvole grigie sul punto di piovere che si ammassano all'orizzonte e preoccupano gli organizzatori del carnevale e i padroni dei banchetti dei dolciumi e della porchetta. Decido di camminare sola e di godermi un po' il lungomare della mia città, di assaporarne i profumi, di vivisezionarne gli spazi.
Finalmente oggi sembra esserci un po' di tepore nell'aria, un vento mite che riscalda le mie amarezze e scioglie le mie paure, talmente identiche a se stesse e immobili da sembrare di ghiaccio.
Cammino con leggerezza, muovo gli sguardi tutto attorno, pietrificando e immortalando i bambini mascherati che si aggrediscono a colpi di coriandoli, in una guerra in cui sono coinvolti tutti, piccoli e grandi. Sulla spiaggia un “Re Carnevale” di cartapesta sta aspettando di essere bruciato sul rogo e di evaporare nell'aria, dando al profumo di iodio e di salmastro quella venatura di bruciatura tipica dell'ultima domenica di carnevale. Allora ripenso a con quale sacralità noi bambini aspettavamo questo per noi solenne rito di addio alle domeniche in maschera e con quale tristezza riponevamo negli armadi i vestiti sapientemente costruiti da mani materne. Ripenso all'attesa della festa, alla scelta dell'abito, ai suoi pomeriggi alla macchina da cucire ed all'aiuto affettuoso di quella zia lontana che vedo ancora immortalata nella sua bellezza. Rivivo le nostre corse affannose, la nostra teatralità nel recitare le gesta delle nostre maschere, le urla di madri esauste per richiamarci alla calma, per mettere un punto ad una giornata che avremmo voluto non finisse mai.
Mi rendo conto che questo girovagare senza meta oggi non è altro che la celebrazione del mio ricongiungimento con questa città, per anni così estranea ai miei tempi e così lontana dai miei desideri, il recupero di una confidenza dopo una lunga assenza. Questo puntare i miei occhi sulle bambine in maschera e sulle loro madri è il tentativo di una momentanea riconciliazione tra i lembi della mia anima, così lacerati dopo la sua morte. E finalmente sorrido ai ricordi, faccio tacere per un attimo i rumorosi conflitti che mi agitano, affinando con cura le spigolature del mio essere, sempre perennemente in battaglia con se stesso. Adesso, a casa, con il silenzio che si rapprende, mi rallegro di questa domenica, tanto semplice quanto intensa, che sembra avermi un po' restituito a me stessa.

mercoledì 18 febbraio 2009

Landslide

Mi concedo una piccola tregua da un pomeriggio pesante, ancora una volta mi avvolgo nelle calde note di Einaudi e cerco di trovare un po' di refrigerio da questa pesante emicrania che mi accompagna da stamani, forse per colpa di questo sonno da mesi intermittente. Mi guardo allo specchio e vedo un viso non mio, stanco, gli occhi appesantiti e inquieti, come a voler fuggire una serie di pensieri che mi accerchiano e rincorrono. Chiama Sonia e mi chiede di uscire la prossima settimana per una pizza...rispondo con entusiasmo di sì e abbasso la cornetta. A valanga arrivano i ricordi di Piazza Gavinana e di quella casa tanto amata e davvero aspetto con ansia di vederla, ancora una volta per ricucire uno strappo e per osservare la tessitura del suo tempo, adesso un po' distante dal mio. Prendo tra le mani il libro di Amos Oz che sto leggendo, lo trovo ancora una volta quasi illeggibile, decido di riporlo nella libreria, tra i tanti libri non finiti, ma decido che si tratta di una battaglia fra me e lui e lo appoggio sul comodino, in attesa di un ennesimo round. Provo a studiare ma ancora una volta le mie energie sono tutte concentrate su me stessa e mi sento un'estranea fra le righe di quei libri, vorrei correre ma fuori tira un vento pazzesco e la fatica sarebbe troppa da sopportare. Vorrei mia madre oggi, anche solo per prenderle quell'esile visino tra le mani e coprilo di baci, rimandando a domani le tante domande. Cerco sollievo a questo accerchiamento emotivo nella pratica quasi quotidiana della scrittura, scopro come le parole siano conforto e trappola, porto sicuro dopo un violento naufragio e tranello giocato alle mie emozioni, costrette in una frase, forzate nell'immobilità dello scritto, obbligate in una porzione di vocabolario che vorrei infinita. Resta così tanto non-detto fuori dalla porta, un ammasso indecifrabile di pensieri ammucchiati, difficili da strigare, impossibili da tradurre nella lucidità di un testo.
Rifletto sul tempo oggi, sul mio tempo. Stamani guardavo i miei alunni e cercavo di farmi strada tra le immagini nebulose di un ieri tremendamente presente, cercavo di scomporre, in minuscole e concluse unità, gli eventi dei miei anni, provavo a ripercorrere i binari della mia esistenza, tentando invano, di sfuggire agli assalti dei miei continui “ma se...”. Mi viene in mente Bergson adesso, la sua illuminante distinzione tra tempo cronologico e tempo interiore e capisco che questo atomizzare i miei trentaquattro anni è proprio una perdita di tempo e di energie. Infatti intuisco che non si tratta di istanti che si succedono l'uno all'altro come le perle di una collana, bensì di una continua e infinita congiunzione, di un intreccio ininterrotto. Scovo le sue parole in un libro ormai impolverato sul più alto scaffale della libreria: “E', se si vuole, lo svolgersi di un rotolo, perchè non c'è essere vivente che non si senta arrivare, a poco a poco, al termine della parte che deve recitare; e vivere consiste nell'invecchiare. Ma è anche, altrettanto, un arrotolarsi continuo, come quello di un filo su un gomitolo, perchè il nostro passato ci segue, e si ingrossa senza sosta del presente che raccoglie sul suo cammino”. Insomma, il mio tempo è una valanga, che non lascia dietro niente di sé e si accresce nel suo scendere a valle. Peccato che oggi mi ci senta come schiacciata.

“...lui si metterebbe qui, in ginocchio in cambio di una carezza, come disse l'innamorato senza gambe alla sua bella senza braccia” (Amos Oz, Non dire notte).

domenica 15 febbraio 2009

Mastella riscuote



Babbo scova in un vecchio cassetto un paio di calzettoni rossi con la falce e martello in bella vista, che un compagno di scarpinate in mountain-bike gli aveva regalato per gioco. Forse per ricordagli, come dice lui, “come era bello quando s'era comunisti”. Per farmi sentire in colpa di essere diventata una elettrice del PD e per richiamare alla memoria le mie profonde radici dentro quella storia, umana e politica, babbo decide di riciclare i calzini e me li consegna, con un sorriso stampato sulle labbra, contentissimo della sua educativa provocazione.
Io, ormai convertita alla socialdemocrazia, decido di riciclarli a mia volta e i poveri calzini “alla Peppone” finiscono nello zaino di Gaia, la mia studentessa fan di Turigliatto che mi bersaglia sempre polemicamente e mi accusa di essere una “cerchiobottista reazionaria”. Capisco che ho fatto bene: Gaia con i suoi sedici anni si esalta orgogliosa del mio regalo (ho confessato, lo giuro, il riciclaggio) e decide addirittura di metterseli per andare a fare pilates....”tanto per essere sempre in guerra e mostrare di che pasta siamo fatti”, dice.
“Come si cambia...per non morire”, canticchiava una canzone anni Ottanta. Siamo cambiati, un po' tutti. In una parabola di cambiamenti abbiamo trasformato tutto: linguaggi, movenze, alleanze, obiettivi, strategie, tattiche. Così ci troviamo di fronte al desolante spettacolo lasciato da un lento ma inesorabile fenomeno carsico che ha corroso le nostre identità e fatichiamo a trovare la strada, stentiamo a trovare qualcosa che, non dico ci rispecchi e assomigli, ma ci rappresenti almeno imperfettamente. Poi mi accorgo che qualcuno è riuscito a non essere fagocitato nei vortici di trasformazioni di questi ultimi anni, rimanendo sempre identico a se stesso, mantenendo gli stessi innumerevoli vizi e le poche virtù, dandomi l'idea che in fondo questa nostra Italia non è poi così cambiata rispetto a vent'anni fa. Il buon vecchio democristiano, per quanto adornatosi di novità, non riesce a non essere democristiano e, alla fine, nonostante sforzi titanici di travestimento, viene fuori, torna allo scoperto, nella freddezza dei suoi calcoli elettorali, nelle sue modalità di contrattazione politica, nel suo camaleontico adattarsi a tutte le occasioni. Eccolo il nostro Mastella, dopo aver colpito a morte il governo Prodi, passare alla cassa a riscuotere il suo credito. Eccolo il nostro Mastella, che noi siamo stati anche capaci di fare ministro, cercare di giustificare la sua nuova alleanza, di motivare la sua corsa da Ceppaloni a Strasburgo. Ma che cosa è diventato questo nostro paese? Niente, credo, se non quello che sempre è stato.

sabato 14 febbraio 2009

Una città nel buio


Eccomi di nuovo a casa, dopo una serata molto piacevole, nonché alquanto “alcolica”. Mi cullo lentamente nelle emozioni stravolte dalle troppe bevute e costruisco una melodia su questa tastiera al ritmo delle note tanto amate di Ludovico Einaudi, come se stessi suonando il suo pianoforte.....io che so solo strimpellare una chitarra scordata. Tante sono le cose che mi chiedo stasera, domande dilatate dalla sincerità del vino, da una ritrovata autenticità, da una Barbara ripescata negli angoli bui e nascosti dell'adolescenza, da una regione della mia anima sottratta all'onirico e all'immaginario.

Mi chiedo quali tortuosi cammini io abbia intrapreso, per quali ripide salite io abbia deciso di incamminarmi. Stupita mi chiedo se stia intraprendendo un cammino verso il futuro o stia percorrendo un percorso a ritroso nel tentativo, forse vano, di portare a termine un sentiero interrotto. “Sentieri interrotti”....trovo Heidegger stasera a darmi un aiuto a nominare queste sensazioni, queste ambigue impressioni, questo ricercare un non so cosa, questo tentare di tradurre nella lingua dell'adultità un patrimonio di emozioni che, sonnambule, hanno inquinato i sonni degli ultimi anni.
Incredula mi chiedo come abbiano potuto queste corde della mia anima suonare così in sordina, nell'astrattezza dell'immaginario; attonita mi interrogo su come il veloce scorrere degli anni lasci sullo sfondo delle nostre vite detriti impossibili da filtrare.
Assisto incredula alla battaglia senza fine tra le mie emozioni, parteggio per quelle che parlano la lingua della ragionevolezza e della prudenza, ma sbalordita mi trovo a registrare ogni volta una nuova sconfitta. Brindo così alla vittoria della mia impulsività, al definitivo trionfo della mia pazzia e sventatezza, a questo mio insano tentativo di riprendere uno spartito troncato nell'attesa di sentire quale melodia suonerà da questa inattesa ma necessaria composizione.
Con questi pensieri sconnessi, sprofondo nelle poesie di Mark Strand.


“Diceva che sarebbe sempre stato quello che sarebbe potuto essere
una città sul punto di avverarsi, una città mai compiuta,
una città scomparsa senza quasi lasciar traccia, dentro
o sotto la città esteriore, rendendo la città esteriore -
quella in cui trascorriamo le ore di veglia -
insulsa e tediosa. Sarebbe sempre stata
una città nel buio, una città tanto timida da restare in attesa,
con il terrore del momento che non sarebbe mai stato”
Mark Strand, Conversazione.

sabato 7 febbraio 2009

Nel nome del padre

L'ultima parola è stata semplicemente “amore”, un flebile saluto a fior di labbra, in risposta ad un bacio leggero e tenerissimo che le ho appoggiato sulla fronte rovente di febbre. Era il giorno dopo l'Epifania, un mercoledì assolato, un giorno in cui, gli anni precedenti, ci dedicavamo a ricomporre l'albero di Natale che aveva preparato con cura per illuminare i giorni di festa, riponendolo nelle scatole e dandogli appuntamento all'anno successivo. Poi, dopo quel saluto affettuoso, il sonno, il niente, il buio. Nessun gesto, nessuna movenza, nessuna parola, per altri sei interminabili giorni.
Finita la scuola salivo le scale di quell'ospedale sapendo che là avrei trovato solo il corpo di mia madre, scarno, sofferente, teso in un respiro affannoso ed adagiato su di un materasso appena sostituito per evitare il decubito. Mia povera creatura ferita, continuo a rivivere il contatto con le tue mani ormai senza vita, incapaci di rispondere alle mie continue e concitate carezze. Così, quel mercoledì pomeriggio, mia madre mi ha salutata per l'ultima volta e si è spenta, morendo, nonostante il certificato riportasse, nella freddezza del linguaggio burocratico, una data diversa, quella in cui il suo cuore si è fermato nel nostro ultimo abbraccio.
In quei giorni di intensa sofferenza e di dolorosa pietà, impegnati con ogni possibile sforzo ad evitarle il dolore, ho pensato più volte a come possa un uomo accompagnare quotidianamente una figlia ormai spenta per diciassette lunghissimi anni. Lo chiedevo anche al mio di padre e insieme abbiamo nutrito una profonda vicinanza ad un dramma così intimo, ma ormai così condiviso.
Così mi sento offesa da quelle parole, indignata da tale delirio di onnipotenza, mi sento umiliata da tale insuperabile arroganza, dilaniata da tale oscenità. Così quel padre non ha avuto gravami, non ha dovuto sobbarcarsi alcun peso in questi interminabili diciassette anni; non lui ma alcune generose suore hanno curato Eliana permettendole di vivere, mentre suo padre, indegno, ingrato, lotta per farla morire. Credo sia arrivato il momento di reagire. E queste parole buttate così di getto in questo spazio pubblico, nonostante siano tremendamente intime, sono la mia risposta a questo infinito scempio, sono il mio piccolo regalo ad Eluana ed al suo papà, la mia dimostrazione di infinita pietà.
Nel nome del Padre, quello a cui rivolgete le vostre preghiere, smettetela di tormentarci con le vostre false prediche, smettetela di offendere quotidianamente questo paese, nel nome del Padre, abbiate il coraggio di rispettare quel corpo divenuto di donna, nell'attesa della fine.

venerdì 6 febbraio 2009

Sabbie mobili

Piove da giorni e sembra non voler smettere. Invece di questa pioggia umida avrei bisogno di un sole caldo e avvolgente che dia un po' di tepore, oltre che a queste giornate, anche alla mia anima. Aspetto questo weekend per concedermi una tregua, un po' di riposo, un recupero da questi giorni di grande stanchezza e di forti emicranie. Avrei anche un acuto desiderio di ricominciare a correre, di riprendere quel simbolo del mio procedere, di sentire la stanchezza, il respiro affannato, i battiti del mio cuore salire a ritmo accelerato e quel senso di sollievo ristoratore al rientro a casa. Peccato che le mie doloranti ginocchia mi tolgano anche questo piacere. Ci riproverò, magari solo per dimostrare a me stessa che sono una che non si arrende mai. Non mi arrendo, se non di fronte alle sorprese, se non di fronte a questa mia incapacità di leggere i miei pensieri sconnessi e le mie altalenanti sensazioni. Mi chiedo, ancora una volta, che cosa stia nascondendo a me stessa, quali siano le emozioni che restano strizzate, contratte, incapaci di prendere respiro e rendersi percepibili e decifrabili. Mi sento un ammasso informe di paure, che riesco a intuire ma che restano pesanti sul fondo, senza galleggiare in superficie, senza prendere corpo, senza acquisire voce, magari attraverso l'esercizio costante e lenitivo della scrittura. Temo questo nascondimento di me a me stessa, questo mio essere perennemente amorfa, questa mia incapacità a riconoscere un io nel quale specchiarmi e riconoscermi. Vedo solo uno stagno nero e melmoso, con le acque appesantite da mille pensieri e un vortice di correnti che si avvitano su se stesse rendendo il fondo inavvicinabile. A volte, più che uno stagno mi sembra di assomigliare alle sabbie mobili e mi ci sento quasi incastrata.

martedì 3 febbraio 2009

Capitolo secondo

Decido di rompere il silenzio dopo mesi di assoluto mutismo. Non so perchè lo stia facendo, non so perchè abbia deciso di riprendere a scrivere su questo blog, che è stato per anni lo spazio reale e simbolico del mio interrogarmi. Ho scritto, in questi mesi, ma ero giunta ad abissi di intimità eccessivi per una pagina come questa, costringendomi all'oramai per me inusuali pallore della carta e colore dell'inchiostro. Ho scritto dappertutto, su fogli sparsi, dietro gli scontrini della spesa, sui quaderni della scuola, per poi decidere di tornare qui, forse per riprendere il filo di un discorso non ancora concluso, quello della volontà di fare luce su questa matassa di paure, indecisioni, dolori, in un discorso iniziato in una Londra adesso lontana, anche dal mio arruffato immaginario.
Decido di riprendere il cammino in quello che da giorni ho battezzato il “secondo capitolo” della mia vita, quello inaugurato dalla scomparsa di mia madre, attesa da anni, ma non per questo meno dolorosa.
Osservo le lacerazioni della mia anima dopo la sua morte, cerco di rintracciare le giuste modalità per affrontare questa tragedia ed elaborare questo lutto, ma mi sembra di uscire sempre sconfitta da questo ruminare, da questo cercare un po' di sollievo. Finalmente però, sono riuscita a versare le lacrime che avevo pietrificato dentro di me. Io che ho sempre lasciato che le mie emozioni trovassero il canale di espressione privilegiato nelle maglie del corpo, ho congelato le lacrime in un mutismo a tratti incomprensibile e in un tentativo di scacciare da me il pensiero di lei. Da giorni lascio finalmente le mie lacrime salire su e bagnare le mie guance immobili e mi sembra di sentirmi meglio, quanto meno leggermente sollevata e cerco di sovrapporre il suo dolce volto di qualche anno fa a quello segnato dalla malattia, pur affrontata con tanto coraggio.
E' iniziato davvero questo “secondo capitolo”, marcato dalla sua assenza e dalla sua assoluta mancanza. So che devo iniziare a scrivere, prendendo la forza necessaria da quell'ultimo abbraccio e da un esempio di tenacia che spero, un giorno, di trasmettere a una figlia. Per non restare sempre così sola, per non sentirmi più così imbottita di “mai più”.