mercoledì 26 luglio 2006

Molino

Mi sto godendo il tuo abbraccio virtuale, nell’attesa di prendere sonno, come sempre.
Le linee di fuga di cui ho scritto in questi accordi di pensieri servono ad allontanarmi anche da te. Adesso, nell’insolita afa londinese, sono bloccata a questo tavolo cercando un’aderente traduzione per i miei sussurri. Mi sono portata con me un bagaglio di ricordi, che spesso non riesco a trasportare, a causa della loro pesantezza. I ricordi mi bersagliano e io non riesco a sfuggirli, rimanendone spesso schiacciata. Ma sono, nonostante tutto, piacevoli compagni di viaggio. Ci sono tante cose di cui non riesco a liberarmi: la forma ossuta delle tue mani che sembrano ancora accarezzarmi le guance, la tua voce la cui eco continua a risuonare, i tratti delle tue matite, l’entusiasmo che abbiamo condiviso per un bel pezzo di strada, il tentativo, credo riuscito, di crescere in parallelo. In alcuni momenti, avrei davvero desiderato che tu fossi diverso, compiendo il grave errore di volerti a mia immagine e somiglianza, nel tentativo di rendere tutto più semplice e familiare. Ma gli anni non scivolano sulle nostre vite lasciandoci intatti e il fenomeno carsico che ognuno di noi sperimenta con il passare del tempo ha colpito anche noi, modificando le nostre forme e rendendoci irriconoscibili.
Lo so la scrittura traduce tradendo, perché spesso non è così aderente al vissuto, di cui adesso vorrei tanto parlarti. Cosa avrei potuto fare che non ho fatto? Davanti a quale percorso mi sono interrotta, quale parola non ho mormorato e a quale bisbiglio non ho prestato attenzione? Non so dove ti stia portando il tuo procedere, se oggi si sia fatto più svelto o si sia arrestato di fronte ad ulteriori ostacoli. Sappi che lo accompagno con affetto, cercando di evitare di indicarti il mio come l’unico in grado di portare alla meta.
Ascolta i sussurri, fai vibrare le emozioni, dai voce all’inascoltato, dissotterra il rimosso. La mineralogia del pensiero a cui mi sono sottoposta e per cui tu mi hai spesso apertamente rimproverato e velatamente deriso, mi ha regalato tesori. In risposta al tuo “pragmatismo” ti invito ad alzarti in volo, perché a volte il mondo è più bello visto dall’alto (anche quando soffri di vertigini).


Diciamolo per dire ma davvero, si ride per non piangere perché
se penso a quel che eri a quel che ero
che compassione che ho per me e per te.
Eppure a volte non mi spiacerebbe
essere quelli di quei giorni là
sarà per aver quindici anni in meno
o avere tutto per possibilità…
Perché a vent’anni è tutto ancora intero
perché a vent’anni è tutto chi lo sa
a vent’anni si è stupidi davvero
quante balle si ha in testa a quell’età…
Oppure allora si era solo noi
non c’entra o meno quella gioventù
di discussioni, caroselli, eroi, quel che è rimasto dimmelo un po’ tu […]
E io che ho sempre un eskimo addosso
uguale a quello che ricorderai
io, come sempre, faccio quel che posso, domani poi ci penserò…se mai

Francesco Guccini, Eskimo

martedì 25 luglio 2006

Le voci del mio luogo

Sono quasi le due e trenta del mattino ed ancora non sono riuscita a prendere sonno, neppure a percepire una leggera pesantezza sugli occhi che, ancora spalancati sul mondo, aspettano l’abbraccio di Morfeo. Sono ancora in attesa che il figlio del Sonno e della Notte mi conceda un po’ di tregua magari sfiorandomi le palpebre con i suoi papaveri rossi e regalandomi piacevoli visioni. L’insonnia di questa estate londinese sta diventando davvero insopportabile perché lascia una scia di spossatezza sulle restanti ore del giorno, anche quando riesco a rimandare il suono della sveglia di qualche ora (privilegio unico del mio lavoro!!!).
La difficoltà a prendere sonno dissotterra radici, rintraccia appartenenze, rivela eterne congiunzioni. Lei non è mai riuscita a concedersi un appagante riposo e forse, proprio in questo momento, è ancora adagiata sul divano in attesa della quiete notturna, approfittando di una brezza leggera che entra dalle finestre, ancora spalancate per rinfrescare quelle stanze sempre battute dal sole. Ha sicuramente addosso una camicia da notte perché il pigiama non le piace, a differenza di me che non riesco a dormire se non mi sento avvolta e protetta da un paio di pantaloni. E’ come se questa mia incapacità di dormire mi costringesse a riconoscere che, dovunque mi condurranno queste linee di fuga, ho un luogo a cui apparterrò, fino alla fine. In questi giorni ho scoperto sul mio corpo i segni di un’eredità, l’armonia di un accordo, la rivelazione di una incancellabile comunanza. Oggi ho scoperto, distesa nuda nella vasca da bagno, che le mie gambe un tempo intatte adesso parlano un gergo antico. In queste odiose ragnatele violacee vedo l’oscuro alfabeto dell’appartenenza, un abbraccio materno che si fa specchio, origine, archetipo. Nonostante tu sia con me non solo nei miei pensieri ma anche nella materialità del corpo che ogni giorno mi interpella con i tuoi nomi, adesso ho bisogno di rinascere in tua assenza. E questo, forse, marcherà una più sentita vicinanza. Che sento, quotidianamente, anche nelle tue parole inaspettate di sostegno.

“Riparami madre
dalle tue braccia […]
Devi trovarmi
devi inventarmi,
il tuo spavento d’esistere
è pure
il mio”
Margherita Ruini

lunedì 24 luglio 2006

Cencio

Sono alla ricerca di parole nuove per dare voce al presente. L’esercizio lenitivo della scrittura non fa altro che dare voce alla catartica fatica di ricostruire, di ripensarsi, ripercorrendo a ritroso i sentieri della memoria, riattraversando gli intrecci che hanno tenuto insieme la mia vita fino ad oggi. Quegli intrecci che si sono intessuti per permettere alla trama della mia esistenza di assomigliare il più possibile ai miei sogni di adolescente. Nonostante tutto, nonostante il disagio, la paura, l’insicurezza, lo scollamento sempre più marcato tra l’onirico e il reale, mi sono sempre sottomessa all’inganno di percorrere le strade di sempre, per evitare l’inaspettato, per sfuggire all’ignoto.
Venerdì ho tracciato il volto di un piccolo equilibrista che cerca di farsi strada senza cadere. Riflettendo sulle mie ultime parole la mia mente e la mia immaginazione, che ruminano senza sosta regalandomi spesso terribili emicranie, hanno pensato al circo e, quindi, a Cencio. A quel “circo personale”, a quei “giganti” e a quei “nani”, a quei piani scompaginati dall’imprevisto, a quel tentativo di evitare il dolore, la pena e l’inquietudine. L’equilibrista di qualche giorno fa sembra più stabile, oggi. Sembra guardare avanti meno dubbioso e più sicuro, ormai certo che tornare indietro sia impossibile e spostare lo sguardo imprudente. Camminare per le strade di Londra alla ricerca di una nuova casa mi ha senza dubbio comunicato la sensazione che la linea di fuga sia stata tracciata e che sia arrivato il momento di cercare la luce, anzichè tastare il confuso.
Se penso a quella foto che macchia “di ricordi l’Associazione Bocciofila Modenese” mi chiedo se io sia un gigante o un nano e quanto stia rischiando di farmi davvero male…..

Ma il tempo più ottuso di noi incalza per tutti sia per i giganti che i nani
chi immaginava allora che ognuno sarebbe finito in un proprio circo personale
vincenti o perdenti non importa ma quasi mai secondo i propri piani
con la faccia tinta, sul trapezio, tra i leoni, solo attenti a non farsi troppo male.
Francesco Guccini, Cencio

sabato 22 luglio 2006

Equilibrio - stasi

Giornata davvero stancante, quella di oggi, con il caldo afoso che ti impedisce di respirare e il turbinio di pensieri che, sempre più vorticoso, non ti consente il riposo. Così anche stasera, nonostante le scarse ore di sonno della notte appena trascorsa, faccio fatica ad addormentarmi, nonostante un'aria fresca che entra dalla finestra. Oggi, in tarda serata, appena rientrata per cena, ho dovuto constatare un leggero cedimento, uno spostamento all’indietro, una perdita dell’equilibrio. Oggi, per la prima volta, ho riflettuto sulla perdita, su cosa mi lascio indietro, su cosa diventa ormai impossibile recuperare. Oggi il mio piccolo equilibrista ha barcollato per un attimo e la corda sotto i miei piedi, che sembrava forte e robusta, mi è sembrata un po’ più sottile e forse incapace a reggere il peso. Per la prima volta ho avuto l’acuto sentore che sotto i miei piedi potrebbe aprirsi un baratro e che potrei, presto o tardi, precipitarvi.
Per rimanere in equilibrio è necessario avanzare a piccoli passi, senza lasciarsi conquistare dalla curiosità di vedere al di sotto di noi, con lo sguardo fisso in avanti ed il corpo ben fermo, sfamato a silenzi e dissetato a visioni. Ma forse questa sensazione di paura è solo dovuta ad un errore prospettico, al fatto che spesso l’equilibrio si confonde con la stasi. A volte, dopo anni di immobilismo il più impercettibile movimento ti fa intravedere un terremoto, a volte la luce abbagliante ti ferisce gli occhi non avvezzi al suo sfolgorio (e allora penso a Platone: “Somigliano a noi, risposi: credi che tale persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate sul fuoco sulla parte della caverna che sta loro di fronte?”). Stasera mi chiedo se questo percorso assomigli più ad una corda tesa su cui poggiare i miei passi incerti, o ad una scalata senza corde e imbracature. Vorrei avere qui i libri di Erri de Luca che mi hanno sempre accompagnato nelle mie simboliche arrampicate per leggere nei suoi racconti di montagne, di salite e discese, un simbolo del mio procedere. Che, in fondo, è quello di tutti.

Ti fa meno male l’oblio
Che questo cerchio di velo.
E se diventi farfalla
Nessuno pensa più a ciò che è stato
Quando strisciavi per terra e non volevi le ali

Alda Merini, Anima mia che metti le ali

venerdì 21 luglio 2006

Parole - Punti di sutura

Stasera sono talmente stanca che non riesco ad addormentarmi. Spesso mi capita, il corpo sia fa restio al riposo e la mente rifiuta un armistizio al suo quotidiano combattere. Di solito, in questi momenti, scrivo e cerco la tregua in quel terreno più solido che la scrittura mi regala ed a cui non riesco a non abbandonarmi. Quando riesco ad afferrarla le parole mi offrono quella terra conclusa verso cui indirizzarmi e da cui guardare indietro, quello strumento insuperato per rendermi ancora più aderente alla vita o per distaccarmene. Quando non scrivo non è mai un buon segno: nei momenti più difficili che ho attraversato ho rifiutato le parole e scelto il silenzio, momento di difesa da uno sguardo indagatore che vivifica i sussurri ed agisce come falda sotterranea scatenando il terremoto. La mia scrittura di oggi viene in soccorso a sanare i non detti, a superare l’immediatezza dell’esperienza, a recuperare il cuore vivente delle mie radici, a raggiungere territori inesplorati. Le parole che oggi uso non sono altro che punti di sutura per ferite ancora fresche ma che cominciano ad essere sempre meno fastidiose e con cui comincio a convivere, pur cercando di distogliere lo sguardo. Punti di sutura che indicano una ricomposizione di due lembi di esistenza, la ricongiunzione di pezzi sparsi, nonché un ponte verso nuovi territori. Le mie parole, adesso, mi fanno intravedere il passaggio, mi disegnano un ponte che non posso non attraversare. Oggi, sotto il sole cocente di Londra, ho capito che vale la pena tentare. Ho capito che devo trovare il coraggio, ho capito che devo intraprendere il cammino verso l’uscita. In questo mese e mezzo di Londra non ho più sognato il vuoto, non ho più sognato il viaggio, segno che il percorso è stato compiuto ed il vuoto riempito. E non ho avuto quasi mai l’emicrania…ma questa è un’altra storia.

"Io supero le cose soltanto scrivendole! - davvero se lo è rimproverato? Forse che questo segreto autorimprovero spiega lo stato in cui ha lasciato le cose? Diari, schizzi, osservazioni, racconti, liste di titoli, abbozzi, progetti, lettere. Tanta trascuratezza non la si può più mimetizzare da disordine o da superficialità. Da essa traspare la qualità della debolezza con la quale intendeva opporsi alla sopraffazione delle cose: scrivendo. E, malgrado tutto, le superava"
C. Wolf, Riflessioni su Christa T.

mercoledì 19 luglio 2006

Traiettorie di odori

L’odore di Londra è inconfondibile e ti raggiunge ad ogni angolo: lo senti spuntare da ogni ristorante, da ogni bottega di Fish and Chips, da ogni fast food. Quel profumo di frittura dolciastra che non esiterei a definire schifoso, se l’amore per questa città non mi impedisse, almeno fino ad adesso, di intercettarne i difetti.
Se rifletto sugli odori e mi lascio cullare dai ricordi, il primo che mi viene in mente è il profumo della pizza appena sfornata che nonna ogni tanto amava regalarci per cena. Quella pizza fatta in casa, non troppo sottile, con il pomodoro fresco e la mozzarella più buona che trovi in città. Noi portavamo le birre, perché la pizza senza birra è come un’estate senza granita e un inverno senza bomboloni. Adesso quelle pizze non ci sono più, ma resta comunque la scia che emanavano nelle diverse case che ha abitato, le cui pareti, forse, ne hanno trattenuto un po’ il sentore.
Il secondo è il profumo della mimosa della mia casa in campagna, insieme a quello della vendemmia e della cantina, con mio padre che coccola l’uva per farci avere del buon vino a Natale. La casa in campagna significa anche odore di terra bagnata e profumo di erba appena tagliata, falciata per permettere a quel giardino di diventare sempre più verde, così come avrebbe dovuto diventarlo il progetto che esso stesso rappresentava.
Il profumo del mare entrava dalle finestre della mia camera, così poco distante dalla spiaggia, insieme alla salsedine che seccava le piante e ingialliva il legno delle finestre. Basta affacciarsi in una giornata di vento per sentire il viso completamente avvolto dal profumo di iodio.
Poi penso all’odore di Roma, quello che ti raggiunge appena entri in stazione e che, se per i romani puzza di smog e cenere, per me non è altro che il ricordo della città a cui appartengo per metà, a cui mi sento legata con il filo sottile della genealogia materna. Sento l’odore dell’acciaio e dei binari, l’odore pungente di benzina e di calore che sale dall’asfalto, sento l’odore del fiume, delle strade e dei suoi formicai umani, così lontani dalle mie abitudini di bambina ed adolescente. L’odore di Roma è l’odore delle rosette appena sfornate e zuppate nel latte e caffè in quella casa così poco calpestata, ma non per questo meno amata e meno presente nei miei ricordi di oggi, è l’odore antico di naftalina dell’armadio sempre troppo ordinato di mia nonna. Odori che a volte mi avvolgono ancora, insieme alla nostalgia delle cose che erano. Chissà com’era l’odore di Roma quando “le voci del mio luogo” l’hanno abitata.
Non so perché oggi il profumo di Londra mi abbia fatto tornare alla mente queste sensazioni lontane, un pensiero affettuoso adesso va a chi ha pensato al profumo di “zonzelle” e a quello di “cerase”.

"Nessuno sa dove si nutrono le gemme,
nessuno sa se mai la corolla fiorisca -
durare, aspettare, concedersi,
oscurarsi, apreslude"
Gottfried Benn, Apreslude.

domenica 16 luglio 2006

Paure

Ho sempre tremato al pensiero della morte. Solo la certezza che condivido questa sorte con il resto degli esseri umani mi rende la paura più sopportabile. Ma continuo ancora a chiedermi quando e come sarà, se ne avrò sentore, se riuscirò a guardarla in faccia, magari a metterla alla porta, anche se non per sempre.
Ho sempre tremato al pensiero dell’abbandono. La mia abitudine alla simbiosi mi ha reso incapace, per anni, di pensarmi sola, di scegliere il mio cammino libera dal giudizio e dal pensiero degli altri, siano questi i genitori, i colleghi, gli amici.
Ho sempre tremato al pensiero di non essere all’altezza.
Ho sempre tremato di fronte alle sfide, convinta che non ce l’avrei fatta.
Ho sempre tremato di fronte all’idea di avere un figlio, o meglio una figlia, convinta che non sarei riuscita a dire quel “per sempre” che dici solo a colui, o colei, che metti al mondo.
Ho sempre tremato di fronte al pensiero di non restituire quello che ti viene dato.
Adesso sto tremando di fronte alla vita, indecisa se afferrarla, se accettarne l’imprevedibilità, se incamminarmi per le sue salite e riprendere fiato nelle discese. Adesso ho capito che ho sempre preferito la sicurezza alla libertà, il certo all’incerto, la morte alla vita.
Oggi al parco di Finsbury ho cercato di respirare a pieni polmoni ed ho capito che adesso non posso più avere PAURA.

Questa è la pagina di oggi:
"Mir zainen do (Noi siamo qui): è un canto yiddish dei partigiani del ghetto di Vilna, in Lituania.
Noi siamo qui: ci sono momenti in cui le fibre sfilacciate di un popolo si rianimano e nasce nella resistenza all'oppressione una nuova consistenza. Essa comincia sempre con una specie di 'eccomi'. [...] Eccomi è voce dei momenti di verità, quando si è chiamati a rispondere di sì. E' il passo avanti, lo scatto che fa uscire dai ranghi e porta a uno sbaraglio. E' la parola più bella che si possa pronunciare in quei momenti, un dichiararsi pronti, anche se non lo si è affatto. Prima di usarla bisognerebbe allenarsi a pensarla più spesso.
Buona fortuna a chi dovrà pronunciare oggi il suo difficile 'eccomi'"
Erri De Luca, Alzaia

sabato 15 luglio 2006

I 57 passi

Li ho contati per anni pensando che, prima o poi, avrei trovato il coraggio di farli per l'ultima volta.
Sono 57 i passi che separano la porta dello studio da quella dell'ascensore, a cui si accede con una piccola chiave sempre pronta a piegarsi e a diventare difettosa. Per scendere però basta premere il pulsante ed allora ti ritrovi all'aria aperta e respiri a pieni polmoni cercando di non pensare alla giornata appena trascorsa, di non soffermarti troppo a capire perchè sei ancora lì. Se la giornata è soleggiata devi solo attraversare il Ponte alla Carraia e mangiarti uno dei gelati più buoni di tutta Firenze, oppure farti solo una piccola passeggiata ed arrivare a Ponte Vecchio, alla Galleria degli Uffizi, a Piazza della Signoria. Nonostante abbia vissuto a Firenze per cinque anni non c'è stato un giorno che abbia attraversato le sue piazze senza ammirarne lo splendore, cosa che spesso ti capita, quando vai di fretta e cerchi di raggiungere casa il prima possibile. Il prima possibile, perchè sai che ti aspetta una lunga notte di studio e di lavoro, perchè sei consapevole che la mattina seguente devi incontrare degli studenti e delle studentesse e offrire loro quello che meritano, perchè non puoi solo fregiarti di un "titolo" senza dimostrare quotidianamente che lo meriti. Il prima possibile per godere di quelle poche ore che ti separano da un sonno sempre improvviso e che vorresti non arrivare mai, ma a cui cedi nonostante la più ferrea volontà. Restano poche ore a disposizione prima di addormentarsi e sai che non ne hai altre. Il giorno, e tutta l'energia che avevi appena scesa dal letto, è ormai trascorso e anche oggi non sei riuscita a capire il senso di quello che hai fatto, di quello che ti è stato chiesto e non sai dare una spiegazione razionale al perchè non reagisci alla sua violenza, alla sua ostentata arroganza. Lei è sempre lì, convinta che la vita si esaurisca lì dentro, decisa a spremerti anche quando non ce ne sarebbe bisogno, incapace di vedere lo spreco di quelle ore di completa inattività, sempre alla ricerca di un pezzetto di "potere" che la faccia sentire in pace con se stessa. E io incollata su quella sedia a cercare di convincermi che questa sia stata la scelta più giusta, più razionale, più ovvia. Certo non posso abbandonare tutto proprio adesso, devo resistere, devo dimostrare agli altri, e soprattutto a loro, che mi aspetta un futuro radioso, una invidiabile carriera universitaria, una sequenza di soddisfazioni e riconoscimenti. Ma che cosa sei diventata mia cara ed amatissima Università? Possibile che il luogo per eccellenza della cultura e della libertà possa trasformarsi in una prigione e che coloro che dovrebbero essere dei mentori in sadici carcerieri?
Sono 57 i passi che mi hanno ricondotto alla vita, che mi hanno restituito a me stessa, che mi hanno regalato la gioa e l'entusiasmo di essere libera. Sono 57 i passi che mi hanno permesso di non mascherare il disgusto e il disprezzo con la più falsa adulazione, con le bugie più vigliacche, dette in primo luogo a me stessa. Sono 57 i passi che mi hanno permesso di capire che non si può costruire il proprio percorso alla ricerca di un falso prestigio che non dice nulla di te, del tuo modo di essere più autentico e genuino e che ti chiede solo di apparire per quella che non sei.
Adesso sono libera, libera di pensare e di agire, di decidere le mie giornate, di fare risuonare le mie corde nascoste, di scegliere le persone con cui condividere un pezzo di strada. Adesso sono Barbara alla ricerca del mio io più autentico. E sono qui a contemplare lo spazio immenso che la vita mi ha restituito fuori da quelle grigie e soffocanti stanze, sono qui ad assaporare un inedito quanto inebriante senso di libertà, a cercare di afferrare ogni sottile sensazione e ogni impercettibile cedimento. Sono qui, in una città già amata ed abitata, che offre sorpese anche agli sguardi più pigri, che ti accoglie con un calore unico, che ti abbraccia così stretta da non lasciarti più andare.

"Dove va il signore, con il suo cavallo?"
"Non lo so", dissi io, "purchè via di qua, solo via di qua. Via di qua senza sosta, soltanto così potrò raggiungere la mia meta".
"Dunque conosci la tua meta", osservò lui.
"Sì", replicai, "l'ho detto no? Via-di-qua...ecco la mia meta"
F. Kafka, La partenza.

cercaunamagliarottanellarete

Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l'ho pregato, ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine...

Eugenio Montale, In Limine

La maglia rotta nella rete è simbolo, simbolo di fuga, di uscita, di nuove visioni.
Individuarla non è mai immediato e, una volta che la si è riconsociuta tra le altre, non è così semplice decidere di attraversarla. Una volta deciso, lasciarsi il resto alle spalle richiede una grande dose di coraggio, necessario per condurci all'uscita.
E quando a farti intraverdere il passaggio, sebbene non il percorso che questo ti apre, è una città, capisci che non la puoi più lasciare e il ritorno si fa impossibile. Tutto diventa diverso, tutto si colora di nuova luce, tutto assume inediti profumi. La luce non è così accecante come quella che si respira a casa, i profumi non sono così familiari e i suoni spesso sono indecifrabili. Quando tutto questo diventa per te essenziale, è arrivato il momento del congedo. Congedo....tanto doloroso, quanto necessario...

Andando e stando....