lunedì 23 giugno 2008

Girando tra i banchi

La scuola mi offre piacevoli regressioni, anche in questi giorni di maturità. Nell'estate del 1993 la terza prova non c'era, si veniva interrogati solo su due materie scelte (ma vi ricordate il terrore che si provava al pensiero “mi cambieranno la materia?”) e forse l'esame in sé era più facile rispetto a questo, ma identica era la paura, l'ansia di non riuscire al meglio, la paura di non essere valutati per quello che effettivamente avevamo dato negli anni. Quell'estate del 1993, nonostante il peso dell'emicrania iniziata a farsi insopportabile, c'era la leggerezza di una nuova avventura che mi avrebbe atteso, una Pisa all'orizzonte che avrebbe accolto la mia crescita umana e intellettuale, c'erano un padre e una madre pronti ad appoggiare le mie scelte apparentemente insensate, in anni in cui iscriversi a filosofia richiedeva, come oggi, un grande coraggio, anni in cui Nieztsche e Marx sembravano aprirti solo una strada senza sfondo e chiudere ogni possibilità di successo e realizzazione. Quell'estate del 1993 mi presentai agli orali con un vestito lungo a fiori rosa e i capelli castamente raccolti sul capo, come vedo ancora oggi, in quella foto che mamma scattò a me e Molino, interrogati la stessa mattina, mentre ripassavamo le ultime cose prima di uscire, con il documento in mano, attenti a controllare ogni cosa. Che esami ragazzi, che sorpresa. Quel 56 finale che mi sembrò il premio più bello per un'estate di libertà, proemio agli spazi aperti dell'autonomia, anticamera di una nuova avventura tutta da vivere. Che emozione ripensarci adesso, mentre vedo i miei ragazzi ripetere le mie stesse movenze, fumare nervosamente ammucchiati sulle scale a leggere gli ultimi appunti, tremare alla vista di una disposizione dei banchi niente affatto comoda per eventuali e necessari sguardi tra i compiti dei compagni. E che angoscia vederli titubanti su quelle domande, io che ero convinta di aver dato loro una prova davvero fattibile...ma cavolo però, quante volte abbiamo parlato di Eduard Bernstein e del dibattito all'interno della socialdemocrazia tedesca? Nell'attesa che consegnassero, stamani mentre giravo tra i banchi, mi sono riletta la lezione sulla leggerezza di Italo Calvino. Mi sono venute in mente molte cose, magari ne scriverò. Bella giornata, nonostante il mal di testa.
Ah dimenticavo, stasera un pensiero affettuoso va a due compagni di scuola che ho perso di vista lungo il cammino, ma a cui devo un po' quel successo, in quell'estate del 1993: senza Massimiliano e Mariella chi l'avrebbe risolto quel maledetto studio di funzione?
Canzone di oggi, ascoltata a ripetizione: “Disamistade”, Fabrizio de Andrè.
Buoni esami a tutti.

lunedì 16 giugno 2008

Scene di fine anno

Mi sono chiesta, in questi giorni, se io abbia o meno scelto questo lavoro perché mi concede una periodica regressione all’adolescenza, perché mi permette di mantenere vitali i ricordi che mi legano a quei giorni. E mi guardo/ricerco in loro. Certo non è così facile, vista la distanza che separa i nostri anni dai loro. Ma alla fine, al di là di una spessa coltre di travestimenti, le loro paure sono state le nostre, i loro sogni hanno albergato anche nei nostri viaggi ad occhi aperti e le loro ansie hanno reso tormentate le nostre notti.

Prima scena – Non so perché ma le bimbe di prima classico arrivano a scuola prestissimo, intorno alle 7.40. Mi sono chiesta, per tutto l’anno, perché stiano ad aspettare il suono della campanella per un tempo così dilatato. Strano, loro che considerano i minuti di sonno sacri ed intoccabili. Così ripenso alle mie attese davanti al cancello in attesa che il mitico Pampaloni aprisse la porta, per sgattaiolare dentro e sperare nella puntualità di Cristina e anche nella sua umanità nel passarmi la versione di latino o gli studi di funzione. E con la mente a quasi venti anni fa, mi chiedo che cosa ci facciano sulle scale così presto, loro che si passano tutto “via messenger” o via e-mail, con quegli indirizzi poetici o inquietanti…Li guardo ciondolare sulla scalinata davanti alla porta, ricercare in quella sigaretta penzolante dalle labbra una adultità negata dall’anagrafe e ricercata nei gesti simbolici dei grandi, con quei pantaloni che scendono sulla vita e lasciano in mostra le mutandine colorate, con quelle pance scoperte anche nei giorni rigidi dell’inverno, con quei pacchetti di Marlboro che spuntano dalla tasca dei jeans e quelle dita che scorrono velocissime sulle tastiere dei cellulari. Li guardo con quelle cuffiette sempre incastonate nelle orecchie, con quegli I-pod sempre più tecnologici, sempre più potenti, sempre più colorati. Li ascolto mentre modulano il loro dialetto ostentato, mentre inventano lemmi di un nuovo vocabolario intimo e clandestino, mentre si nascondono ai nostri sguardi da adulti. E allora mi chiedo: ma non è, il mio, il lavoro più bello del mondo?

Seconda scena – Mi macchio del peggior difetto per un insegnante: la parzialità. Decido, dopo essermi arrovellata per giorni, di fare un regalino alle mie due “Alunne”, quelle con la A maiuscola. Mi sono sempre impegnata nell'essere obiettiva e, di fronte, ad una particolare simpatia e ad uno affetto marcato ho sempre peccato per difetto e mai per eccesso, magari ho tolto, più che regalato qualcosa. Ma l'affetto non può essere imparziale e i ragazzi non ti danno, né ti chiedono, allo stesso modo. Ho regalato libri, ovviamente, libri diversi, come diverse (direi opposte) sono le destinatarie. Mi chiedo ancora se abbia fatto bene oppure no, se un insegnante può smascherare le sue emozioni. Poi mi dico, “cazzarola Barbara” ma se tu facessi un po' le tue scelte senza macerarti dietro errori presunti, senza scandagliare le tue azioni alla ricerca del passo falso, senza ruminare continuamente sui tuoi pensieri? Comunque A. ha già scritto e dice che trova il libro “incantevole”.

Terza scena – I ragazzi di terza si abbracciano e piangono. E' chiaro, per loro, che questo ultimo giorno di scuola significa la fine di un capitolo. E sono più spaventati che entusiasti a questo cambio di scena. Io li guardo e penso come si farà a far sì che questa classe sgangherata non abbia un tracollo alla prova di greco e riesca a non affondare all'orale. Che classe, che agglomerato di “casi particolari”, come amano definirsi loro. Li guardo e mi chiedo quando cominceranno ad uscire da questo stato indefinito e torno con la mente alla mia indeterminatezza dei loro anni. Cerco di immaginarli fra vent'anni, invento le loro vite in un prossimo futuro, mi nascondo in una trama di ricordi e vado via da quelle aule, da quel continuo brulicare e canticchio una canzone della mia adolescenza:
“Compagno di scuola, compagno di niente, ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu...”

venerdì 6 giugno 2008

Controvento

Ho scelto il silenzio per più di un mese. La colpa non è stata certa del Berlusca, come qualcuno potrebbe intuire dall'ultimo post. Chi, come me, ha avuto una precoce iniziazione alla politica ed è cresciuta in una famiglia di fedeli iscritti al PCI (e suoi derivati) è abituata a perdere. Babbo sopporta le sue ferite post-elettorali con l'abitudine e la perenne convivenza con la sconfitta. La vitale e necessaria "abitudine" di cui parlava quel David Hume che avrei dovuto spiegare ieri, invece di portare i ragazzi a mangiare il gelato. Anche io avrei dovuto abituarmi in tutti questi anni. Anche io avrei dovuto sviluppare naturali e forti anticorpi al dolore, dopo sedici anni di emicrania. Invece non ci riesco proprio a convivere con questo mal di testa, che mi ha lasciato per più di un mese inerme, incapace di non fare nient'altro che imbottirmi di farmaci e scivolare dal letto la mattina, entrare a scuola e cercare di dare comunque il massimo e ributtarmi sprofondata sul divano per tutto il pomeriggio. Di nuovo un mese infernale, difficile da sopportare, che mi ha costretta a questo silenzio prolungato.
Adesso sembra andare meglio, sembra, perchè, come già so, si tratta di una tregua.
Così ieri, mentre correvo sul lungolago di Orbetello e soffrivo la fatica per un insopportabile vento contrario, ho capito che a volte la mia vita è proprio aderente al mio procedere, una faticaccia, in cui cerco di fare il meglio, ma in cui corro sempre controvento. Spero che la tempesta di emicrania mi lasci in pace per un po' e mi faccia "correre" senza arrivare esausta ad ogni traguardo. Un caro saluto a tutti.