lunedì 25 dicembre 2006

Divertimento, un vino di Toscana

Venerdì sono stata a Siena per festeggiare il compleanno di Cristina. Al ristorante mi sono un po' stordita con un ottimo vino toscano. Ne riporto, fedele, l'etichetta...che parla molto della mia terra di Toscana.

"Essere contadino a Dievole non vuol dire soltanto saper vangare, zappare, arare, seminare, potare, mietere, vendemmiare, vuol dire soprattutto avere mani per mescolare le zolle alle nuvole, per far tutt'una cosa del cielo e della terra.
Divertimento è di quei vini che piacciono ai chiacchieroni, che riempie la bocca di parole spicciole, sdrucciolevoli, facili e dolci, rotondette e rimbalzanti, che scivolano fuor della bocca, tanto sono umide di saliva, senza consumare le labbra - ribodoli, stornelli, cicalate, arguzie facili.
Divertimento salva l'antica e nobile tradizione di una Toscana popolare sfrontata e sboccata, allegra e insolente. Divertimento è prepotente nel frutto e arguto nel temperamento, manesco e insieme amante delle parole".

Buon vino a tutti e a tutte.

venerdì 22 dicembre 2006

La lingua dell'abbandono

Il silenzio parla. Mi parla. Mi parla una lingua che non riuscirò mai a decifrare, quella sterile dell’abbandono. Io che spesso mi sento una giocoliera di parole, non riesco a comprendere coloro che non le modulano. Ma cosa mi dicono i silenzi? Mi parlano forse di una fuga, di una rescissione, di un rifiuto di condivisione? Non sopporto il muto abbandono e ne preferisco uno amaro, ma gridato e sincero. Vi prego dissotterrate le parole, date loro respiro, fatele decantare ed assaporatene il gusto, per quanto aspro. Vi prego pesatele quando le pronunciate, dando corposità ad ogni singola parola e valore ad ogni singola sillaba, accordando ogni suono con quelli del mio io più profondo, se ne avete sentore. Abbandonatevi alla circolarità del sentire, dello spartire e patire le cose con gli altri, tutto per restituire forza ai legami, anche se recisi.

"Venite, parliamo tra noi
chi parla non è morto,
già tanto lingueggiano fiamme
intorno alla nostra miseria.
Venite, diciamo: gli azzurri,
venite, diciamo: il rosso,
si ascolta, si tende l'orecchio, si guarda,
chi parla non è morto.
Solo nel tuo deserto,
nel tuo raccapriccio di sirti,
tu il più solo, non petto,
non dialogo, non donna
e già così presso gli scogli
sai la tua fragile barca.
Venite, disserrate le labbra
chi parla non è morto"
Gottfried Benn

giovedì 21 dicembre 2006

Emily Dickinson

Oggi questa poesia di Emily Dickinson parla di me, la trascrivo:

Mai che io senta la parola 'fuga'
senza che mi tremino i polsi
senza che subito mi prenda un senso d'attesa,
senza che mi senta pronta ad andare!

Mai che io senta di grandiose prigioni
da soldati abbattute, senza che invano
mi metta a scuotere le sbarre, come un bambino
condannato ancora una volta a non farcela!

(1859)

Di nuovo i sensi di colpa....

Giornata grigia, umida. Mentre al di là della finestra scende una pioggia dissetante, in casa c’è la lotta degli odori, oltre a quella dei contrari. Mi chiedo chi sono oggi, cercando di attraversare i contrari che mi contraddistinguono, in una perenne lacerazione. E’ polemos, oggi, è una stancante altalena di andare e stare, di piangere e sorridere, di trattenersi e perdersi.
Dovrei mettere la pentola sul fuoco e preparare la cena, accorta a non cedere alle tentazioni, come oggi a pranzo, attenta nel ricordare i passi pesanti che mi schiacciano la testa e che sono immancabili, dopo qualche innocuo piacere. Impavida una ragnatela dondola dal soffitto…quando mi deciderò a pulire?
La lotta degli odori. E’ l’odore dei broccoli appena lessati che adesso sembra avere avuto la meglio su quello del fumo, che oggi sembra voler uscire da un indisciplinato camino. Il pensiero oggi sembra l’unica solida certezza, nonostante anch’esso vacilli, oscillando tra i poli del mio essere, di nuovo in battaglia. Così oggi, finalmente, mi concentro su quei pensieri, troppo a lungo fuggiti, ostinatamente rimossi, a ricerca di protezione, tutela. Oggi la vedo e la sento, invadente, capace di scompaginare ogni attimo di calma, di terremotare ogni solida fiducia e certezza, di risvegliare ogni riposo di noi e fra noi. Tornare in me, tornare a te, madre.

Ho sempre pensato che fosse debole nel corpo, lei, così forte nell’anima; ho sempre pensato che sarebbe crollata sotto i colpi di tanti pensieri, pensieri sempre rivolti all’altrui alla ricerca di una totale fusione, nella rinuncia allo scarto. Ho sempre pensato che avesse bisogno di un po’ più di calore e che io avrei dovuto prestare più attenzione. Attenzione? Non avremmo dovuto, forse, consumare questa relazione nell’ascolto, tendere l’orecchio attento alla ricerca di sottili richieste, ricoprire di maggiori attenzioni colei che di così tante accortezze ci ha sempre omaggiato negli anni? Non avremmo dovuto osservare con più cura e prudenza i segnali costanti che il suo muto corpo ci inviava, forse gridandoli, ad intervalli quasi costanti? Non avremmo dovuto rispondere con entusiastici “sì” a certe sue apparentemente futili richieste?
Non avrei dovuto, io, così edipicamente attaccata alla sua maestosa corazza, nutrirmi e proteggermi maggiormente in lei, sena divorarne la forza? Non avrei dovuto, almeno io e prima di adesso, capire il suo faticoso abitare il mondo da donna ed offrire anche le mie spalle per reggerne il peso?
E lei ancora continua a cercare in me un appoggio, a chiedere una conferma. Anche “in un giorno felice”, come dice lei, ha dovuto dubitare che io esultassi alla notizia di una spesa tanto sconsiderata, quanto per me attesa. Adesso, invece che tutto il mio amore, vorrei gridarle di smettere di sottomettere scioccamente il sé all’altro, come ha sempre fatto, e di imparare dagli errori e dalle sviste del passato, resi possibili dal nostro differire in un tempo non infinito ma incerto un nostro brusco congedo.

martedì 5 dicembre 2006

Percorsi di memoria

Qualche giorno fa ho lavorato solo le prime due ore, impegnandomi insieme ai ragazzi di terza in una lezione su “Il mondo come volontà e rappresentazione”. Le altre classi si sono aggiunte al “gregge” degli scioperanti, come protesta contro il mancato funzionamento dei riscaldamenti. La scuola non è cambiata molto, almeno in questo, rispetto a quindici anni fa, quando Molino infiammava gli studenti in quel vialetto davanti all’ingresso e ci regalava quasi una settimana di sciopero per la guerra in Iraq del 1991. E anche se c’erano molti gesti che rivedo ancora oggi, quindici anni fa l’intelligenza di alcuni di noi generava le scarne pagine di Satyagraha, esperienza di grande significato che marcava la mia precoce iniziazione alla politica, nonché un senso di lontananza dal centro confuso e l’ostentato orgoglio di abitare la periferia. Cerco qualcosa di me nei ragazzi di oggi e, nonostante la mia estraneità a certe loro movenze, risento una vicinanza a quell’età informe dell’adolescenza, lunga anche per me, abbandonata non da molto per il territorio, non meno sicuro, dell’adultità. Niente o pochissimo, di alcuni di questi ragazzi, mi parla di quello che Barbara era quasi vent’anni fa: i loro visi abbronzati, quella spasmodica ricerca del vestito all’ultima moda, quegli occhiali da sole perennemente indossati che ti vietano anche un fugace incrocio di sguardi, quella arroganza ostentata, quel pretendere sempre tutto, ad ogni costo, senza nessun prezzo. Mi sto sforzando, nonostante la pesante e a volte intollerabile estraneità, di tirare fuori il meglio di loro e capitolo, esausta, di fronte ad ogni nuova delusione, come se il successo di questo rapporto pedagogico dipendesse tutto da me. Preferivo la gioventù semplice e fresca di qualche anno fa a cui forse l’aria di montagna dava il senso delle vette da arrampicare a questa gioventù melmosa e paludosa della laguna.
La vicinanza ad alcuni di loro, tuttavia, mi ha permesso, in questi giorni, di ricostruire la Barbara di un tempo, a cui mi sento ancora così aderente, di recuperare memorie e sensazioni attraverso la lettura di vecchie pagine buttate giù con mano infantile, ma già così chiaramente in cerca di quella mineralogia del pensiero che solo la pratica quasi quotidiana della scrittura ti regala. Leggendo e rileggendo quelle pagine ho cercato di ridisegnare i paesaggi che ho abitato, di rintracciare i sentieri che ho percorso, di fronte a quali porte mi sia paurosamente arrestata. E così nei giorni scorsi mi sono quasi commossa a dissotterrare momenti apparentemente nascosti, a riempire le lacune della mia biografia, a recuperare foto dimenticate, a tessere i fili della memoria. Con fatica ho cercato di “rinfrescare” idee e ricordi, le cui deboli tracce rischiano spesso di svanire come immagini inconsistenti di sogno. Chissà che cosa uscirà da questo tentativo di dipanare la matassa del tempo passato e se mai riuscirò ad affrontare con fiducia e entusiasmo la tessitura di una trama futura.

“Le idee della nostra giovinezza spesso muoiono prima di noi. In ciò il nostro spirito somiglia a quelle tombe alle quali ci avviciniamo: si vedono il bronzo e il marmo, ma il tempo ha cancellato le iscrizioni, e le immagini cadono in polvere. Le immagini tracciate nel nostro spirito sono dipinte con colori che svaniscono: se qualche volta non le rinfreschiamo passano e scompaiono interamente” J. Locke, Saggio sull’intelletto umano.

lunedì 4 dicembre 2006

...quando l'ora del lupo guaisce.....

Ecco l’ora del lupo. Sono a letto e non riesco a prendere sonno, nonostante sappia che la sveglia, anche domani, mi attende prima dell’alba. Scrivo pensieri sparsi su un foglio di carta in attesa di una forma più compiuta e di una trascrizione più precisa che ci sarà, magari domani, una volta decantato il tutto. Mulinelli e vortici di sensazioni mi scompaginano i mille pensieri. Pensieri che stanotte si rincorrono in una corsa stentata, in una interminabile staffetta in cui ogni riflessione lascia il testimone ad un’altra rendendo impossibile, per ognuna di loro, arrivare al traguardo. Queste corse interrotte mi impediscono di mettere a fuoco: nessuno di questi pensieri notturni si rende pienamente leggibile, traducibile ai miei linguaggi, inseribili in uno schizzo decifrabile.
I miei pensieri non sono altro che pezzi sparsi di me che oggi ho così difficilmente ricercato dopo aver percepito, nei giorni scorsi, nuovi ed inattesi cedimenti, nonostante una sicurezza di fondo che mi ha permesso di affrontarli ogni volta. Adesso capisco che, nonostante questa apparente padronanza di me stessa, lo strato su cui cammino è ancora tremendamente sottile. Così in queste ore insonni mi sto chiedendo quando profonda e melmosa possa essere la palude che si apre sotto i miei piedi. Ieri notte ho sognato proprio questo, i miei piedi tremendamente pesanti ed un pavimento fragilissimo, incapace a reggerne il peso. Sento ancora la mollezza delle mattonelle che si sbriciolano sotto i miei passi e io che riesco a guardare da una fessura apertasi sotto i miei piedi il baratro che si apre sotto di me. Le mie notti sono di nuovo abitate dai sogni che mi angosciavano prima della mia fuga dall’Università, prima della rottura della mia relazione, prima della mia fuga a Londra. Ancora sogno viaggi in macchina alla ricerca di una meta incerta, ancora sogno un buio fittissimo e io che cerco di farmi luce, cercando aiuto in chi so essere eternamente presente. Mi chiedo se un giorno, al di là di tutto questo, riuscirò mai a scovare dentro di me una parola inedita, inconsueta, spudorata che sappia illuminare tutto questo e allontanare questa nebbia, capace di stanare la vita nei suoi luoghi più silenziosi e darmi un po’ di luce.

mercoledì 15 novembre 2006

Tempo di raccolta: olive e ricordi


Settimana di raccolta, quella appena passata. Questa volta mio padre ha dovuto contare quasi soltanto sulle sue forze e su quelle sempre meno energiche di Adelmo. Io e Molino siamo stati poco presenti, oberati sempre di più lui di lavoro e io di studio. Così sabato mattina mi sono ritrovata a modellare movenze antiche che hanno segnato lo scorrere impercettibile degli anni e che danno di nuovo voce ad un’infanzia e un’adolescenza, ancora così presenti oggi. Nel muovere le mie mani su quei rami da cui facevo cadere perle preziose, poco o nulla sembra cambiato da quegli anni, come se lo scorrere delle stagioni fosse passato impercettibile sulle nostre vite, come se nessuno dovesse crescere, invecchiare, soffrire, temere un distacco. Anche l’apparente immobilismo della natura sembra registrare un cambiamento, regalandoci quest’anno un novembre ancora più mite che ci permette di lavorare con maglie leggere e non ci costringe più, come anni fa, ad indossare strati di lana per proteggerci contro il gelo pungente.
Domenica, mentre il lavoro continuava, io e mamma ci siamo regalate alcune ore di coccole avvolgenti e abbiamo cercato di estrarre dai nostri ricordi, cercando di tenerli vivi e in qualche modo consolati, la storia di questo luogo che adesso sto abitando con tanto affetto. Accanto ai piccoli disagi, accanto alla sua presenza che a momenti me lo rende inabitabile, questo spazio parla delle mie radici e mi regala un rapporto diverso con la mia adolescenza da cui mi congedo con tanta lentezza. Così mentre mio padre si dedicava alla raccolta delle olive, per regalarci un olio profumato e corposo, io e mamma abbiamo radunato i segni di questa casa, recuperando le voci e i volti di chi l’ha abitata, ricostruendone una genealogia e dissotterrando le memorie più lontane. E così, in un gioco di rimandi continui, i nostri ricordi si richiamavano l’un l’altro, e alle mie immagini di estati giocose e di lucciole facevano eco i profumi dei dolci appena sfornati, insieme a quello delle lenzuola stese ad asciugare sul grano già falciato.
Forse è per questo che da domenica la immagino piccola, nuda, in piedi sul lavandino di cucina, dispettosa come tutti i bambini, a far cadere come un domino quei piccoli bicchieri di vetro messi in fila su quella mensola che ora non c’è più ma che la mia mente adesso ha disegnato al posto di quello scaffale. Ed insieme a lei la mia mente, aiutata dalle scarne immagini impresse sulla carta, partorisce il viso di una bisnonna immaginaria, di cui porto, nascosti, i segni nei miei nomi, e che avrei voluto resuscitare nominando una figlia che non c’è.

“L’affetto è un rifugio e una difesa. L’amore è un esporsi e un rivelarsi. La solitudine è la prova della verità: senza intermediari. Se non si sopporta la solitudine non si sopporta se stessi. Mi amo e mi detesto, mi desidero e mi faccio paura”
Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista.

domenica 12 novembre 2006

Confini

Mi sono svegliata presto, con l'ennesima emicrania e la solita inquietudine. Prima di pranzo ho sfogliato, per l’ennesima volta, alcuni libri di Lea Melandri, tendando di recuperare i preziosi ingrendienti della sua densa scrittura. Tento di mettere ordine nei miei pensieri notturni e di incanalare gli altri in sentieri meno ripidi, cercando quasi la pace di una anestesia emotiva. Sto percependo un insostenibile senso di accerchiamento: angoscia antica, sensazione già vissuta, che apre la strada alla solita domanda: e la via di uscita? Dove individuarla, adesso? Anche la riposta si ripete: stare presso di sé, dare corpo ai pensieri nelle parole scritte.
Devo comprendere con attenzione dove passa il confine tra quello che devo a lei e quello che devo riservare a me stessa, nel tentativo di restituirle l’amore e le attenzioni senza però smarrirmi. Mesi fa ho pianto alla rivelazione che per salvarmi avrei dovuto costruire solidi confini, che avrei dovuto staccarmi dal tepore delle abitudini e delle convenzioni, che avrei dovuto urlare a me stessa, a squarcia gola, "io". Oggi questi confini si sono di nuovo fatti estremanente incerti, labili, fluttuanti e non riesco più ad individuarli, sentendomi perduta in un territorio immenso che non si lascia trattenere dallo sguardo. I miei confini incerti sono quelli tra me e loro, tra me e Molino, tra me e i miei ragazzi. La fatica di oggi è quella di rintracciarli, è l'abbozzare trincee che mi garantiscano una rassicurante separazione, solo per salvarmi.

venerdì 10 novembre 2006

I feudi di Via del Parione

Alcune settimane fa sono tornata, dopo cinque mesi, a Firenze. Volevo scrivere qualche riga per lasciarne traccia, ma questa volta è stata l’euforia e un inedito senso di onnipotenza a tenermi alla larga dalla scrittura. Ho rivisto persone a me molto care ed ho dormito in quelle “piccole stanze” che mi hanno protetta e coccolata nella fase più difficile, ma nello stesso tempo più importante, della mia vita.
Prima di andare a cena ho manifestato il desiderio (irrazionale forse?) di percorrere dall’inizio alla fine Via del Parione, certa che a quell’ora tarda sarebbe stato quasi impossibile imbattermi in uno spiacevole incontro. Ho così percorso con lo sguardo luoghi a me familiari ed ho gioito al pensiero che tutto questo appartenesse al passato, un passato di cui non sono ancora pienamente libera, che inquina i miei sogni e che mi interpella ancora con scoccianti domande. Ogni passo compiuto su quel lastricato era accompagnato da una frase: sono libera, adesso lo sono davvero, sono di nuovo libera e sono di nuovo mia.
Esattamente tre mesi fa ho inviato a tutti la lettera di licenziamento, scritta in una Londra che mi ha dato la forza e la tenacia di scoprirmi e di eliminare quel velo di ipocrisia che avevo tessuto sopra il mio essere più autentico. Da due mesi sono di nuovo un’insegnante di Liceo. Percorro chilometri ogni mattina alzandomi all’alba, per raggiungere la scuola e mi convinco, ogni giorno, nonostante le difficoltà e i piccoli insuccessi, che non potrei fare altro se non questo. Ogni giorno, al ritorno a casa, penso a cosa staranno facendo i miei ex colleghi fiorentini e mi chiedo se avranno avuto il permesso di pranzare o se, ancora una volta, si saranno dovuti piegare alle sue uniche ed insormontabili esigenze. E allora penso a quel Dipartimento, ripenso all’inferno. E allora mi viene voglia di scriverne, anche perché questo blog, nella mia mente pre-Londra, avrebbe dovuto intitolarsi “I 57 passi” e contenere il racconto di quei cinque anni assurdi e incomprensibili.
In Dipartimento entravo alle dieci dopo circa mezz’ora di scooter o quaranta minuti di autobus.
Vi si accede con un piccolo ascensore, se ne possiedi le chiavi, altrimenti inerpicandoti su una scala barocca bella quanto il palazzo che lo ospita da moltissimi anni. La scala è un po’ ripida e ti lascia spesso senza fiato percorrerla tutta; non è una grande idea arrivare lì dentro già con il fiatone, visto che ogni volta sai di quante energie hai bisogno per superare l’intera giornata. Superato l’ingresso, fatto capolino negli uffici dei colleghi più cari per un buongiorno celere, controllata la cassetta della posta (che ora ti spetta, perché sei entrata a pieno diritto nel grande mondo degli “incardinati”), entri finalmente in quella stanza e, per prima cosa, ti affacci alla finestra. Così vedi la bellissima corte del palazzo che si affaccia sull’omonimo Lungarno, vedi il fiume, Ponte Vecchio e riesci anche a scorgere Palazzo Pitti e, in lontananza, San Miniato e il Forte Belvedere. Poi pensi che alle dieci, mentre tu stai per accendere il computer e metterti a lavoro, i tuoi colleghi stanno già affollando la Biblioteca Nazionale in attesa di cominciare la loro giornata di studio e di ricerca, stanno aspettando i libri, stanno sfogliando un manoscritto, stanno bestemmiando perché anche di questo volume non si può fotocopiare neppure una pagina.
E’ arrivato il momento di accendere il computer. Se lei arriva pretende che tutti i suoi messaggi di posta siano stati non solo stampati, ma anche letti e selezionati in ordine di importanza. Il feudatario deve arrivare al castello e sapere come organizzare la sua giornata, come disporre le sue truppe sul campo di battaglia, come organizzare le sue alleanze. Anche perché il signore del castello che confina con il nostro sta facendo esattamente lo stesso e, purtroppo, ha anche delle truppe più folte e più fedeli delle sue. Quindi non si può perdere tempo a studiare o in fesserie di tal tipo, bisogna schierarsi. La giornata di lavoro comincia sempre nello stesso modo, con la posta intasata da mille messaggi: ci sono studenti che cercano informazioni sui prossimi esami, che chiedono un programma di studi, le associazioni culturali fiorentine che inviano informazioni sul prossimo evento in programma nonchè i feudatari di tutta la penisola che indagano sugli equilibri della zona, richiedono alleanze, denigrano un rivale.
Dopo un po’ di tempo di vita di Dipartimento, scopri che la cosa più bella che la vita ti possa offrire è quella di trasformarti da cavaliere semplice in cavaliere “incardinato”. Sì, sempre cavaliere sei, pronto a combattere una battaglia senza fine per il tuo feudatario che ricompenserà al meglio la tua fedeltà e la tua fierezza. Ah, finalmente tutto mi è chiaro, illuminato dalla luce della sapienza che l’Università irradia tra i suoi giovani ricercatori. Questa pillola di saggezza mi aiuterà nel cammino difficile della mia carriera…
Quindi, se ho capito bene, la cosa più importante che devo fare è individuare le migliori strategie che mi consentano l’“incardinatura”, che, già dalla parola, sembra una sorta di crocefissione a cui però si va incontro con gioia e giubilo. Finalmente, se sei incardinato, sei parte del feudo a tutti gli effetti e puoi partecipare ai banchetti ed alle assemblee, purchè seduto in ultima fila, rispettando ben bene la gerarchia. E devi chiedere sempre: il permesso per uscire ad un’ora decente, che cosa dire, per chi votare, chi lodare, a chi regalare il tuo ultimo libro oltre a quale vestito sia più adatto per quel convegno. Chiedere sempre, scrutare in continuazione, copiare se ci riesci e, soprattutto, elogiare, anche se questo ti risulta la cosa più difficile da fare, perché vorresti che dalle tue labbra uscissero parole sincere e cristalline di disprezzo anziché di elogio. Infatti, alla fine mi sono arrestata di fronte all’impensabile, di fronte a quello che Virginia Woolf diceva essere il compito più arduo per ogni essere umano: il continuo e perenne nascondimento del disprezzo con la più falsa delle adulazioni. E questa capitolazione, mi ha restituito alla vita.

“Lei converrà che una battaglia che obbliga a indossare la maschera della venerazione per coprire il disprezzo infligge allo spirito umano ferite che nessuna chirurgia potrà guarire”.
Virginia Woolf, Le tre ghinee.

lunedì 30 ottobre 2006

Me la sto cavando, nonostante tutto

Dovevo immaginarlo che tutto questo sarebbe stato terribilmente duro. Ma, nonostante tutto, posso dire che me la sto cavando alla grande, facendomi strada con coraggio e ostinazione in questo sempre più intricato labirinto. Ogni via di uscita, poi, si rivela una dolorosissima illusione, di fronte alla quale il mio essere così vulnerabile sembra capitolare.
Non ho cercato conforto nelle righe scritte nelle ultime settimane; la consolazione di un inchiostro virtuale su una pagina altrettanto immaginaria non sarebbe stata sufficiente a contenere il turbinio di pensieri degli ultimi giorni. Ho avuto il terrore di non poter scrivere, di non esserne in grado, di non riuscire a tradurre in parole ciò che trabocca dal mio essere più profondo (ma dove sarà questo essere più profondo, sarà forse quella che molti chiamano “anima”?). Avevo anche pensato di scrivere in terza persona, di parlare di una “lei” anziché di un “me”, nel tentativo di pormi vicino a me stessa, ma in disparte, cercando di osservarmi nello stesso modo in cui osservo gli altri. Poi, di fronte a questa totale paralisi della scrittura, ho preferito il silenzio. In queste settimane di assenza ho vissuto un nuovo spostamento, quello dall’abitazione dei miei alla mia casa in campagna, di nuovo solamente mia. Così mi sono dedicata anima e corpo a rendere questo nuovo spazio da abitare non troppo soffocante e invadente, a far diventare queste pareti meno traboccanti di ricordi. Ho spostato la mia libreria dallo studio alla sala da pranzo/cucina e mi sono spolverata tutti i miei libri, come a volerli accarezzare dopo una lunga lontananza. Ne ho sfogliato avidamente le pagine, nel tentativo di trovare, come sempre cerco in un libro, qualcosa di scritto per me, che illumini le domande di questi giorni e che dia una risposta a questa cronica insicurezza, difficile da dissipare più di qualsiasi altra sensazione. Ho ricominciato anche a godere delle coccole quotidiane della mia gatta che sembra non avermi dimenticato, nonostante il lungo distacco. Sto cercando di liberare questo luogo dai ricordi più recenti e sto tentando di recuperarne quelli arcaici, legati alla mia infanzia, così sapientemente evocata in questi ultimi giorni. Londra è ancora prepotentemente presente. Avevo prenotato un volo per venerdì scorso, nella previsione di trasformare questo lungo ponte in un soggiorno londinese, ma ho deciso di rimandare, avrei resuscitato sensazioni che sto cercando di lasciare silenti e sono certa che non avrei retto a troppi pensieri.
Di lei, volutamente, non parlo e neppure della violenza con cui la paura di perderla mi abbia assalito in questi ultimi giorni, di fronte ad una sofferenza sempre più marcata e palpabile. Ne parlerò più avanti, quando avrò capito come tutto questo stia trasformando alla radice il mio essere figlia ed il mio trasformarmi da figlia in madre affettuosa.
Qua fa ancora un caldo tremendo e io comincio ad esserne un po’ stufa. Ho voglia di accendere il camino, ho voglia di piumino e di stivali, nonché di un po’ di pioggia che porti con sé odore di autunno, per assaporare al meglio vino e castagne.

giovedì 5 ottobre 2006

Emicranie e partenze

Sono giorni che sto combattendo con la mia solita terribile emicrania che sembrava avermi lasciato tranquilla, quanto meno nei mesi londinesi. E’ ancora tremendamente violenta ed impetuosa, con il suo colpirmi per giorni interi, facendosi pesante sulle mie povere tempie ed arcigna, resistente a qualsiasi farmaco. Così anche oggi, appena tornata da scuola, mi sono appoggiata sul divano nel tentativo di placarne l’arroganza, subito dopo aver lasciato a mamma l’onore di punzecchiarmi con una iniezione e sentirsi così un po’ meno malata, non essendo lei, almeno per una volta, l’oggetto dei queste piccole torture. Dovrei studiare per i miei ragazzi e riguardare le lezioni di domani, ma non ce la faccio proprio e non solo per questo dolorosissimo mal di testa. La situazione adesso è davvero pesante, a volte apparentemente ingestibile. La mia attuale vulnerabilità deve oggi confrontarsi, non solo con la malattia di mia madre, ma anche con una serie di dolorose partenze. Ogni persona a me cara che lascia Londra e se ne torna in Italia non fa che richiamarmi alla mente la sofferenza per quel distacco. Risento viva la violenza di quella separazione, con le mie radici che reagiscono allo strappo, come a non voler abbandonare il terreno, così coraggiosamente conquistato. Ma è un’altra partenza che oggi appesantisce i miei giorni, che mi lascerà sola a vivere uno spazio che ero abituata a pensare al plurale e che adesso dovrò abituarmi ad abitare da sola. Spero che quelle pareti riusciranno a contenere il mio malessere e ad alleggerirlo un po’, senza appesantirmi ancora di più.
Mentre sto scrivendo e mentre una leggera brezza invernale entra finalmente dalle finestre, cerco di godermi mia madre che sembra stare leggermente meglio rispetto alla scorsa settimana e resto incantata di fronte all’affetto che mio padre le dimostra quotidianamente, nel nome di un amore che dura da più di quarant’anni e che io osservo stupita ed ammirata.
Domani se riesco faccio un salto a Pisa a dormire da Gio, senza il cui aiuto tutto questo sarebbe davvero insopportabile. Sempre se la mia emicrania decide di lasciarmi libera, almeno per un giorno.

“E ora le tue labbra puoi spedirle ad un indirizzo nuovo
e la tua faccia sovrapporla a quella di chi altro
ancora i tuoi quattro assi bada bene di che colore sono,
li puoi nascondere o giocare con chi vuoi…o farli rimanere buoni amici come noi”
Francesco De Gregori, Rimmel.

giovedì 21 settembre 2006

Ricordi e residui: al parco di Clapham

Oggi scrivo d’altro. Lascio l’alieno al suo lavorio, nell’attesa di saperlo sconfitto.
In questi giorni mi sono accorta che, in questo paese malato di calcio, non è stata ancora smaltita l’ubriacatura per la vittoria della Coppa del Mondo. I ragazzi ancora ne parlano, a scuola. Senza dubbio ricorderò i giorni londinesi anche come quelli che hanno ospitato una inattesa vittoria, mentre la colonna sonora di quei giorni continua a rimbalzarmi nelle orecchie ad ogni angolo, riportandomi alla mente quella giornata, così indelebilmente inscritta nei miei pensieri, anche quelli di oggi, così dannatamente occupati da altro.
Penso a quella domenica pomeriggio al parco di Clapham e continuo a domandarmi quali siano i residui che quelle ore hanno lasciato, oggi. Rivedo quelle nuvole che si rincorrono in un azzurro terso, sento le voci che scongiurano la pioggia e che si interrogano sui movimenti di un vento spazzino in grado di assicurare il bel tempo. Sento il sibilo del vento, che ancora sembra scompaginarmi i capelli, sento il ronzio delle voci, rivedo quei volti divenuti in un secondo di follia così familiari, continuo a modulare nella mia testa le urla, i canti, risento gli abbracci, ripercorro quella corsa verso quella piazza diventata inaspettatamente nostra. E’ come se fossi inseguita dai ricordi di quella giornata: così ripenso alla città attraversata in lungo e in largo, alla richiesta al cielo di chiudersi a riccio per non far scendere neppure una goccia, al gran trambusto di quelle ore, al rincorrersi delle bevute, al fracasso dopo la fine, alle plurali sensazioni che hanno occupato il mio corpo e la mia mente fino al mattino.
Non so perché stia scrivendo questo stasera, perché abbia questo desiderio di lasciare traccia di un paradiso perduto. Forse perché dovrei “stancarmi” di qualcosa che, in realtà, non ho mai avuto, non ho mai assaporato fino in fondo. O forse perché queste ultime settimane hanno avuto su di me un effetto dinamite e mi hanno rivelato a me stessa, ancora una volta, per quello che sono: chiassosa, impulsiva ed indiscreta, ma così franca e, soprattutto, così vulnerabile. Stasera mi sento come uno di quei bozzoli vuoti che gli insetti, una volta preso il volo, lasciano sugli arbusti, sensibili nella loro fragilità ad ogni colpo di vento. E mi sento svuotata da questa paura incontrollabile e da questo continuo fantasticare su me stessa, da questo continuo chiedermi come sarebbe stato e come mi sarei ritrovata in futuro se avessi provato a restare. E mi chiedo perché il mio essere così fragile e incerto abbia apprezzato quella inattesa premura, perchè abbia deciso di concedermi alcuni giorni di respiro in un momento così difficile, perché non abbia dato valore a quelle parole sforzate. Poi mi volto, leggo con rabbia le sue espressioni di sofferenza e Londra esce dai miei pensieri.

martedì 19 settembre 2006

L'alieno

Stanotte mi ha svegliato un sogno. Ho percepito un violento sussulto e poi ho dato fondo a tutti i miei ricordi per addolcire le ore che mi separavano dal suono della sveglia, come sempre attesa prima dell’alba. Nella notte sono stata visitata da immagini che cerco di tenere lontane dalla mia mente durante il giorno ma che affollano la mia mente disarmata ed inerte nelle ore notturne. Ho percepito il dolore acuto di una possibile solitudine, di uno scongiurato distacco, di un nuovo percorso. E’ arrivato anche in questa casa “l’alieno”. Ed adesso siamo tutti con le baionette rivolte contro di lui, sperando di non scoprirle spuntate ed inefficaci. Lei comincia ad avere paura ed a confrontarsi con il suo, e il nostro, poter essere più autentico, traducendo i suoi pensieri in frasi acute come spari, che ci lasciano tutti così intimamente colpiti. Adesso è qui accanto a me, ma non so se stia intuendo il soggetto della mia quotidiana scrittura. Sta finalmente sorridendo di un film e sembra che il dolore le abbia concesso una tregua. Da ieri ha un volto incorniciato da un’espressione impaurita e mi osserva attentamente, in ogni mio gesto, come per registrare ogni mia movenza, ed io mi lascio accarezzare dai suoi sguardi che adesso sostituiscono le sue parole, divenute così parche. Ma da quale pianeta proviene, questo "alieno"?

sabato 16 settembre 2006

Albe e pensieri

Ancora non albeggia quando salgo in macchina e comincio a guidare. Mentre il motore corrode chilometri di asfalto, il sole comincia ad illuminare lo spazio immenso dei miei luoghi, riscaldando le pinete, il lungo mare, le campagne, le colline. Ogni mattina mi godo l’arrivo di un nuovo giorno sulla mia meravigliosa terra di Toscana e comincio a recuperarne i colori e gli odori, così diversi da quelli a cui mi sono abituata negli ultimi mesi.
Ho ricominciato a convivere con antiche movenze, anche se con enorme difficoltà. Movenze familiari ma, da tempo, poco rispondenti al mio nuovo modo di abitare il mondo. Da quando sono tornata da Londra vivo nella casa dove ho mosso i primi passi e ho respirato l’aria inebriante della crescita, divido le giornate con i miei genitori, tentando di difendere la mia autonomia con le unghie e con i denti, nell’attesa di recuperare le ampie pianure di una più sicura indipendenza, legata ad una personale gestione dei tempi e degli spazi. Ho di nuovo riscoperto il piacere dei rituali legati a questo luogo, come la corsa lungo mare al tramonto, nell’attesa che il sole cali, per vedere la mia ombra proiettata sull’asfalto. Ho iniziato di nuovo un’avventura come insegnante e ne sono molto felice, soprattutto dopo giornate come oggi, quando ho letto, negli occhi interessati dei miei ragazzi, il risultato dell’entusiasmo che metto in questo lavoro. Ho visto di nuovo i miei amici e ho affrontato l’inusuale sensazione di un profondo scarto che, nonostante l’affetto, si sta materializzando tra le nostre vite.
Ho di nuovo costruito un pesante alterco, forse spinta da un’aggressività che in questi giorni non riesco a controllare e che è nutrita quotidianamente da quei mulinelli di idee che mi scuotono la testa e che sono accelerati dalla quotidiana preoccupazione per la malattia di mia madre. In tutto questo sto cercando di riempire quel vuoto enorme che la fuga da Londra ha generato ed ogni sforzo si sta facendo vano. Non sarò mai sazia di quei giorni, di quel turbinio di pensieri che mi riportano alla mente quelle giornate. Perchè ricordo? Perché ricordo tutto? Perché, ancora una volta, esattamente come tre anni fa, questo commiato ha sciolto i lembi del mio essere, condannandomi all’incompiutezza? Vivo ancora nel tentativo di sanare la ferita del distacco, di smuovere le emozioni di quei momenti, ancora così fresche, per vedere che cosa queste abbiano lasciato sullo sfondo, alla ricerca di armi per combattere questa nuova battaglia. A volte capisco così poco di me che vorrei posizionarmi sotto lenti indagatrici in grado di sezionarmi e svelarmi almeno ai miei occhi, se non a quelli degli altri. Ma lo sforzo di sciogliere e poi riannodare i miei frammenti risponde oggi alla necessità di una rinascita sotto un altro cielo, oramai non più procrastinabile, nonostante questo insensato tentativo di riannodare un filo di una trama passata.

mercoledì 30 agosto 2006

Tre cavalli


Sono di nuovo sotto questo cielo da alcuni giorni, a casa. Qui, come a Londra, è da poco cominciata una nuova giornata. Una giornata come le altre, per il calendario di molti. Per il mio calendario, quello che marca lo scorrere della mia esistenza, oggi è la giornata del giudizio, quello implacabile ed inappellabile, quello che decide tra la vita e la morte. Nei giorni londinesi non mi sarei mai immaginata di dover accompagnare la malattia di mia madre e di affrontare tutto questo con la forza e la lucidità che invece segnano le mie giornate. Bene, forse non faccio che trovarmi di fronte ad un nuovo anticorpo, regalatomi da una tanto attesa crescita che Londra ha così bene indirizzato.
Adesso mi trovo ad abitare questa casa in dolorosa solitudine, con il pensiero rivolto a quella stanza di ospedale e a chi la abita, assaporando l’amarezza di non poter pregare e la durezza dell’attesa, nella speranza che questa notte voli via insensibilmente.
In questi giorni ho dovuto adattarmi ad abitare di nuovo spazi non più familiari, a vivere relazioni illanguidite e sfocate dallo scorrere degli anni, a recuperare abitudini e movenze perse da tempo. Ma è tutto così terribilmente necessario, adesso.
Domani andrà tutto bene, ne sono certa. Ti resta ancora un cavallo, tesoro mio.

“Tre anni una siepe, tre siepi un cane, tre cani un cavallo, tre cavalli un uomo”
Erri De Luca, Tre cavalli.

lunedì 14 agosto 2006

Contaminazioni

Il mio modo di vivere Londra è in queste pagine. Le visioni che questa città mi ha regalato sono rinchiuse nello spazio, reale e metaforico insieme, del mio blog. Ho deciso di condividere le mie emozioni, ho deciso, partorendo queste pagine, di dirottare le mie parole dal loro luogo di origine, lasciandole in lenta infusione e facendole sedimentare su queste pagine virtuali. Se rifletto sulla mia scrittura capisco che non è altro che una nuova religione della parola a cui mi sono consacrata, religione che non solo mi consente di realizzare una nuova vicinanza a me stessa, aprendo il sipario sull’eternamente taciuto, ma si fa intercettazione, mescolanza, contaminazione. Se per anni il mio dire è stato un monologo, una conversazione in un’aria rarefatta, oggi le mie parole si fanno agili e percorrono chilometri, si trasformano in “frecce infuocate che il vento o la fortuna sanno indirizzare” ed operano una fruttuosa contaminazione, intercettando sguardi attenti e “compassionevoli” che danno ad una narrazione prima singolare il dolce sapore del riconoscimento, aiutandomi a distinguere i molteplici volti e voci che mi abitano. Se per lungo tempo le mie parole mi hanno trasmesso un leggero timore, oggi non ne ho più paura, ma le interpreto come segni lungo la strada impervia ed inevitabile che mi conduce all’appartenenza. Oggi mi appartengo molto di più di quanto non lo facessi prima della partenza e mi riconosco in me stessa, nei miei gesti, nelle mie parole, nella decisione di affrontare il tutto con ardente pazienza.

“Se un individuo si descrive con sincerità, la cosa tocca più o meno tutti. Impossibile fare luce sulla propria vita, senza illuminare in qualche punto quella degli altri”
S. De Beauvoir, L’età forte.

Salite e discese

Sono sempre fuori nonostante il brutto tempo che si è abbattuto su Londra in questi giorni. Sto cercando di respirare a pieni polmoni l’aria di questa città, per costruirmi un deposito personale di energie da cui attingere nei prossimi mesi. Sono molte le cose su cui sto riflettendo in questi giorni, dalla strada che ho percorso, alle contaminazioni e mescolanze che mi ha offerto la mia scrittura, a quel rendiconto davanti a me stessa che questa archeologia del vissuto mi sta regalando.
Penso alla salita di questi mesi, al respiro affannoso durante le salite, alla gioia di respirare a pieni polmoni nelle tappe intermedie, al cammino veloce lungo le discese, al tentativo di individuare la cima innevata e vederla sempre più vicina. Rifletto sui paesaggi ammirati dall’alto, sui dirupi su cui mi sono affacciata, sulle immagini di fronte alle quali ho distolto lo sguardo, sui colori che ho contemplato con occhi assorti. Questi mesi sono stati per me la fatica di arrampicarmi lungo pendii scoscesi e pareti a strapiombo, per poi godere del recupero nelle pianure e respirare l’aria inebriante delle vette altissime.
Così ho capito che, nonostante il forzato rientro sembri, a prima vista, riportarmi indietro, questo non coinciderà mai con un ritorno al punto di partenza. L’aereo atterrerà da dove sono partita, ma adesso ho altri occhi con cui osservare il paesaggio che mi aspetta ed ho parole da urlare, non più da sussurrare. I muscoli delle mie gambe si sono ingrossati in questo cammino ed adesso faccio molto meno fatica a proseguire il percorso. E’ come una lunga corsa: i primi venti minuti servono per costruire il fiato e poi si va, si macinano chilometri e ogni volta la fatica è meno difficile da sopportare ed il respiro si fa via via più lineare e meno affannoso.
Dentro di me sento aprirsi fratture ed a volte percepisco l’acuto timore di perdermi in brandelli prima d’aver capito la nuova trama del mio essere; eppure in fondo in fondo percepisco un inedito senso di libertà, la sensazione di essere affacciata sul limite di un continente che finalmente potrò esplorare senza paura. Se prima ero, di fronte a me stessa, un oggetto indistinto e disperso oggi mi riconosco nei miei passi, nelle scelte che faccio, nelle cesure sofferte che ho operato.
Adesso mi aspetta una discesa ma, come dice Erri, è lì che si scorge la vera abilità dello scalatore.

“La cima è la promessa mantenuta al ragazzino che strepita in ognuno di noi, è il più certo dei limiti sul quale metti i piedi, ma è visita breve, solo in discesa si completa l’impresa”.
Erri De Luca, Sulle tracce di Nives.

giovedì 10 agosto 2006

Tremori

Anche stamani mi sono concessa alcune ore di piacevole cammino, nonostante la pioggerellina che mi ha costretto, per un po’, a tenere aperto l’ombrello. Ho camminato fino all’incantevole Muswell Hill, fermandomi in una pasticceria a Crouch End dove mi sono regalata un croissant e un black coffee, visto che devo recuperare qualche chilo dopo l’“inconveniente malattia”. Seduta a gustarmi una piacevole colazione ho ammirato i gesti affettuosi di una madre a una figlia ed ho focalizzato il mio sguardo su quelle carezze, chiedendomi quante volte lei li abbia ripetuti verso di me.
Vorrei che la voce non mi tremasse, ogni volta che parlo con lei. Mi sforzo a mantenerla calma, lineare, evitando quella balbuzie nervosa che caratterizza i pensieri di questi giorni. Vorrei comunicare ogni volta una sensazione di profonda calma e convinta serenità ma la mia voce, ogni volta, mi tradisce e mi rivela.
Poi se rifletto capisco che tra madre e figlia è proprio la voce il medium per eccellenza, perché è quella voce che ha stabilito i tuoi contatti, che ha creato le tue relazioni, che ti ha svelato il mondo. Siamo legate, io e lei, non dai significati ma da quelle vocalizzazioni che ci legano dalla nascita, che hanno stabilito il nostro contatto mediante echi e risonanze vitali. Anche lei mi dice che le piace sentire la mia voce, come a me piace sentire la sua: è una vocalità primaria e dolce come il latte.
Tutto questo per me oggi significa trasformarmi in premurosa madre, ribaltare la direzione della generazione, nonché riscoprire il significato oscuro della prima relazione e rivisitare completamente quella diade che ci marca dall’inizio fino alla fine. Recupero memorie infantili, leggo equilibri dolorosi, dissotterro atavici sensi di colpa. Tutto questo inaugura un cammino difficile ma necessario: vorrei solo urlarle di non sentirsi sola, di sentire la mia presenza in ogni fotogramma delle sue giornate e di sapere che non esiste, nella vita di una donna, relazione più forte di quella con la propria madre.
Ho anticipato il volo del ritorno: se nessuno mi fa saltare in aria, arrivo a casa nel primo pomeriggio di lunedì 21. Ho già cominciato a far capire alle mie radici che dobbiamo lasciare il terreno, sradicate con la peggior violenza. Sono tante le cose che mi fanno tremare, oggi: la sofferenza, la malattia, il ritorno. Vorrei anche scrivere sul tremore di questa città, su questa oscura minaccia che pende su Londra e che mi fa infuriare di rabbia, ma stasera non mi sento in forma.

“Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire,
sono qui, solo, con te, in un futuro aprile”
P.P. Pasolini, Supplica a mia madre.

domenica 6 agosto 2006

Anticorpi

In tutti questi anni non sono mai stata molto fiera di me, o meglio, non ha mai ben capito quale fosse il “me” di cui essere più o meno soddisfatta. Ho sempre altalenato la mia debole soggettività tra un modello e l’altro, convinta che dovessi per forza assomigliare a qualcuno, incapace da sola a costruire un mio personale ed esclusivo modo di essere. Ieri sera ho capito che adesso sono molto più forte e che è venuto davvero il momento di rinchiudere per sempre nell’armadio questa insicurezza cronica e questa scarsa autostima. Loro sono felici? Bene, anche io lo sono per loro. Sono sposati, hanno una bella casa di proprietà, aspettano un figlio? Che Dio li benedica. E se qualcuno osa chiedermi perché me ne sto ancora in giro per il mondo incerta e titubante alla mia età, invece di scegliere il vestito bianco e sfornare bambini ora non tremo più, ma rispondo che non è più quello che voglio. Questo è il primo anticorpo che Londra mi ha regalato, il non tremare di fronte alla notizia di una felicità altrui, che per anni ho desiderato essere anche la mia.
Oggi, per fortuna, comincio davvero a sentirmi meglio. Credo che domani sarò di nuovo in grado di uscire, pronta a gustarmi questa città, fino a farmi quasi stordire e narcotizzare dalla sua bellezza e dal suo calore, in modo da non soffrire troppo la sua mancanza. Nel pomeriggio un barlume di saggezza ha però visitato la mia mente sempre in movimento, facendomi capire che non c’è nessun motivo razionale di angoscia. Qualora le cose dovessero risolversi come tutti ci aspettiamo sono sempre in tempo a balzare in corsa sul primo aereo e tornare, qualora le attuali preoccupazioni dovessero invece risultare fondate, cosa che mi terrorizza come niente altro, Londra sarà certo l’ultimo dei miei pensieri. Diciamo che me ne sto andando a casa a fare un “sopralluogo” ed a farmi qualche bagno al mare….cosa che non guasta.

sabato 5 agosto 2006

To go back in time

Dopo una settimana di malattia, nonché due giorni di ospedale, oggi ho ripreso quanto meno a mangiare come si deve ed a muovermi dal letto. Ho ricominciato anche a studiare inglese, ma con deludenti risultati, visto lo scarso entusiasmo. In aggiunta ieri sera, prima di addormentarmi, ho prenotato il volo del ritorno: la partenza è così fissata per mercoledì 23 alle 20.15, dall’aeroporto di Stansted. Ho trovato un volo non proprio economico, per essere un volo Ryanair, ma almeno viaggio con Giovanna che anestetizzerà il distacco con il suo umorismo.
Sono terrorizzata. Non solo per le motivazioni del mio ritorno ma anche perché tutto questo non è altro che un passo indietro nel tempo e io, adesso, non sono affatto pronta. Non sono pronta a ritrovare tutto come l’avevo lasciato, non sono pronta a rivivere anche un solo minuto di tutto ciò che mi ero lasciata, con tanti sforzi, alle spalle. Mi aspetta una fatica bestiale, una salita ripidissima, niente affatto paragonabile a quella che ho dovuto affrontare per arrivare qui. E so che là sarò davvero sola, senza nessuna via di uscita, con tutti che mi chiederanno come è stata questa vacanza senza sapere che per me non lo è stata affatto e che mi ripeteranno allo sfinimento di quanto si viva meglio lì, magari nel modo che loro stesso hanno scelto. Appunto, scelto. Spero solo che questa Londra amatissima e indimenticabile mi abbia fatto il regalo inatteso di qualche anticorpo.
Stasera mi legherei alla statua di Nelson, pur di non andarmene. Ma ora c'è qualcosa più importante di me a cui badare e mi sento avvolta dai sensi di colpa a sentirmi così male all'idea di partire. Tu lo sai perchè ho paura, tu lo sai perchè sto male, ti prego, perdonami.

giovedì 3 agosto 2006

A tua immagine e dissomiglianza

Piombino va attraversata di notte per averne davvero paura. Durante il giorno l’Isola d’Elba in lontananza ed il mare attenuano la violenza di quello che è stato fatto a quello che è, in realtà, un angolo di paradiso. Tutte le volte che attraverso quella città, che mi inoltro con lo sguardo in quella ragnatela di impianti, in quel puzzle metallico, in quel bagno turco di fumi nauseabondi sento pulsare nelle vene il tuo battito, e sento spuntare ai miei piedi quelle radici che si incuneano nel terreno simbolico della storia operaia di quella città, che è anche la tua. L’“inferno” lo chiami tu e, seppure non ci sia mai entrata, anche io mi sento un po' di inferno appiccicato addosso ed a volte mi sembra che anche la mia testa abbia il rumore di Piombino di notte.
Sento sulle spalle il peso di un impegno che mai sarò in grado di onorare, soprattutto qualora decidessi di percorrere strade che non sono le tue. La sensazione perenne di dover esaurire un debito adesso si è trasformata in un fardello pesantissimo che mi prostra a terra e mi blocca, rendendo difficile qualsiasi passo. O meglio, rendendo impossibile qualsiasi partenza verso lidi che non combacino con le tue aspettative.
Sento la tua andatura nelle mie scarpe e la tua fatica in ogni mio passo, in ogni conquista, in ogni giro di boa. Purtroppo, di tutto questo non sono ancora libera. Le tue parole sono per me ogni volta un peso nuovo da portare ed inaugurano un passo all'indietro rispetto ad un minuscolo pezzo di strada che con tanta fatica avevo percorso. Tu mi vorresti a tua immagine e somiglianza: vorresti che parlassi un identico alfabeto, che mi entusiasmassi per le stesse cose, che godessi dei medesimi piaceri, che riuscissi ad abitare quei tuoi spazi che, da anni ormai, non sento più miei. Sì, io lo sono, a tua immagine: negli occhi, in quel bozzetto sul capo che marcava il segno delle generazioni, nell’amore per quelle magliette cariche di sudore dopo una lunga corsa, nell’irascibilità che spesso segna i nostri atteggiamenti, nella volontà a non piegarsi, mai, anche di fronte alle più sfavillanti promesse. Ma io sono a tua immagine e dissomiglianza, perché non sono tu, nonostante continui a crescere sotto la tua ombra. Io sono diversa, io sono altro, io sono IO, nel bel mezzo della corsa. Che è la mia, ricordalo, e non la tua.

Forse non potrei agire con voi, casa di Israele, come questo vasaio? Oracolo del Signore. Ecco, come l'argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa di Israele. Talvolta nei riguardi di un popolo o di un regno io decido di sradicare, di abbattere e di distruggere; ma se questo popolo, contro il quale avevo parlato, si converte dalla sua malvagità, io mi pento del male che avevo pensato di fargli. Altra volta nei riguardi di un popolo o di un regno io decido di edificare e di piantare; ma se esso compie ciò che è male ai miei occhi non ascoltando la mia voce, io mi pentirò del bene che avevo promesso di fargli”.
Geremia, 18-1;19-15

martedì 1 agosto 2006

Anamorfosi

Alla National Gallery di Londra c’è un quadro che ho sempre molto amato, sin dagli anni universitari, seppure non abbia mai studiato storia dell’arte. E’ stato il professore con cui mi sono laureata a farmelo apprezzare ed a farmene scoprire il significato nascosto. Gliene sarò sempre grata, come di molte altre cose. Forse è proprio perché ho perduto quel modello di intellettuale, colto, serio, rispettoso, che non sono riuscita ad andare avanti in un ambiente dove sembra che i libri, quelli veri, non trovino ospitalità.
Il quadro è di un pittore cinquecentesco, Hans Holbein il giovane e si intitola “The Ambassadors”. Ai piedi dei due ambasciatori c’è un’immagine deforme e incomprensibile che, una volta posizionatici ai lati del dipinto, per effetto dell’anamorfosi appare per quello che realmente è: un teschio tridimensionale (Memento mori!). Puoi stare ore a contemplare quel quadro, a cercare di indovinare che cosa volesse comunicare Hans Holbein con quell’ammasso di materia pittorica, ma fino al momento in cui non ti collochi nel punto giusto, ogni sforzo è vano. Le immagini anamorfiche diventano traducibili solo se il nostro sguardo si posiziona esattamente nel punto di vista dove la deformazione scompare. Forse questo è solo un altro modo di parlare di maglie rotti nelle reti. Mi sto chiedendo se, in questi mesi, la mia vita mi si stia mostrando in questa strana prospettiva, traducendosi in un ammasso di visioni indistinte. Sto solo cercando il punto di vista, mi sto muovendo con affanno alla ricerca della migliore posizione. Credevo di averla trovata, nei giorni scorsi. Oggi, purtroppo o per fortuna, non ne sono così certa.
Ma stasera mi chiedo, ma esisterà davvero un punto di vista che traduce l’indistinto in immagini dalla perfezione geometrica? Forse sto cercando invano e devo dimenticare il teschio di Holbein.

mercoledì 26 luglio 2006

Molino

Mi sto godendo il tuo abbraccio virtuale, nell’attesa di prendere sonno, come sempre.
Le linee di fuga di cui ho scritto in questi accordi di pensieri servono ad allontanarmi anche da te. Adesso, nell’insolita afa londinese, sono bloccata a questo tavolo cercando un’aderente traduzione per i miei sussurri. Mi sono portata con me un bagaglio di ricordi, che spesso non riesco a trasportare, a causa della loro pesantezza. I ricordi mi bersagliano e io non riesco a sfuggirli, rimanendone spesso schiacciata. Ma sono, nonostante tutto, piacevoli compagni di viaggio. Ci sono tante cose di cui non riesco a liberarmi: la forma ossuta delle tue mani che sembrano ancora accarezzarmi le guance, la tua voce la cui eco continua a risuonare, i tratti delle tue matite, l’entusiasmo che abbiamo condiviso per un bel pezzo di strada, il tentativo, credo riuscito, di crescere in parallelo. In alcuni momenti, avrei davvero desiderato che tu fossi diverso, compiendo il grave errore di volerti a mia immagine e somiglianza, nel tentativo di rendere tutto più semplice e familiare. Ma gli anni non scivolano sulle nostre vite lasciandoci intatti e il fenomeno carsico che ognuno di noi sperimenta con il passare del tempo ha colpito anche noi, modificando le nostre forme e rendendoci irriconoscibili.
Lo so la scrittura traduce tradendo, perché spesso non è così aderente al vissuto, di cui adesso vorrei tanto parlarti. Cosa avrei potuto fare che non ho fatto? Davanti a quale percorso mi sono interrotta, quale parola non ho mormorato e a quale bisbiglio non ho prestato attenzione? Non so dove ti stia portando il tuo procedere, se oggi si sia fatto più svelto o si sia arrestato di fronte ad ulteriori ostacoli. Sappi che lo accompagno con affetto, cercando di evitare di indicarti il mio come l’unico in grado di portare alla meta.
Ascolta i sussurri, fai vibrare le emozioni, dai voce all’inascoltato, dissotterra il rimosso. La mineralogia del pensiero a cui mi sono sottoposta e per cui tu mi hai spesso apertamente rimproverato e velatamente deriso, mi ha regalato tesori. In risposta al tuo “pragmatismo” ti invito ad alzarti in volo, perché a volte il mondo è più bello visto dall’alto (anche quando soffri di vertigini).


Diciamolo per dire ma davvero, si ride per non piangere perché
se penso a quel che eri a quel che ero
che compassione che ho per me e per te.
Eppure a volte non mi spiacerebbe
essere quelli di quei giorni là
sarà per aver quindici anni in meno
o avere tutto per possibilità…
Perché a vent’anni è tutto ancora intero
perché a vent’anni è tutto chi lo sa
a vent’anni si è stupidi davvero
quante balle si ha in testa a quell’età…
Oppure allora si era solo noi
non c’entra o meno quella gioventù
di discussioni, caroselli, eroi, quel che è rimasto dimmelo un po’ tu […]
E io che ho sempre un eskimo addosso
uguale a quello che ricorderai
io, come sempre, faccio quel che posso, domani poi ci penserò…se mai

Francesco Guccini, Eskimo

martedì 25 luglio 2006

Le voci del mio luogo

Sono quasi le due e trenta del mattino ed ancora non sono riuscita a prendere sonno, neppure a percepire una leggera pesantezza sugli occhi che, ancora spalancati sul mondo, aspettano l’abbraccio di Morfeo. Sono ancora in attesa che il figlio del Sonno e della Notte mi conceda un po’ di tregua magari sfiorandomi le palpebre con i suoi papaveri rossi e regalandomi piacevoli visioni. L’insonnia di questa estate londinese sta diventando davvero insopportabile perché lascia una scia di spossatezza sulle restanti ore del giorno, anche quando riesco a rimandare il suono della sveglia di qualche ora (privilegio unico del mio lavoro!!!).
La difficoltà a prendere sonno dissotterra radici, rintraccia appartenenze, rivela eterne congiunzioni. Lei non è mai riuscita a concedersi un appagante riposo e forse, proprio in questo momento, è ancora adagiata sul divano in attesa della quiete notturna, approfittando di una brezza leggera che entra dalle finestre, ancora spalancate per rinfrescare quelle stanze sempre battute dal sole. Ha sicuramente addosso una camicia da notte perché il pigiama non le piace, a differenza di me che non riesco a dormire se non mi sento avvolta e protetta da un paio di pantaloni. E’ come se questa mia incapacità di dormire mi costringesse a riconoscere che, dovunque mi condurranno queste linee di fuga, ho un luogo a cui apparterrò, fino alla fine. In questi giorni ho scoperto sul mio corpo i segni di un’eredità, l’armonia di un accordo, la rivelazione di una incancellabile comunanza. Oggi ho scoperto, distesa nuda nella vasca da bagno, che le mie gambe un tempo intatte adesso parlano un gergo antico. In queste odiose ragnatele violacee vedo l’oscuro alfabeto dell’appartenenza, un abbraccio materno che si fa specchio, origine, archetipo. Nonostante tu sia con me non solo nei miei pensieri ma anche nella materialità del corpo che ogni giorno mi interpella con i tuoi nomi, adesso ho bisogno di rinascere in tua assenza. E questo, forse, marcherà una più sentita vicinanza. Che sento, quotidianamente, anche nelle tue parole inaspettate di sostegno.

“Riparami madre
dalle tue braccia […]
Devi trovarmi
devi inventarmi,
il tuo spavento d’esistere
è pure
il mio”
Margherita Ruini

lunedì 24 luglio 2006

Cencio

Sono alla ricerca di parole nuove per dare voce al presente. L’esercizio lenitivo della scrittura non fa altro che dare voce alla catartica fatica di ricostruire, di ripensarsi, ripercorrendo a ritroso i sentieri della memoria, riattraversando gli intrecci che hanno tenuto insieme la mia vita fino ad oggi. Quegli intrecci che si sono intessuti per permettere alla trama della mia esistenza di assomigliare il più possibile ai miei sogni di adolescente. Nonostante tutto, nonostante il disagio, la paura, l’insicurezza, lo scollamento sempre più marcato tra l’onirico e il reale, mi sono sempre sottomessa all’inganno di percorrere le strade di sempre, per evitare l’inaspettato, per sfuggire all’ignoto.
Venerdì ho tracciato il volto di un piccolo equilibrista che cerca di farsi strada senza cadere. Riflettendo sulle mie ultime parole la mia mente e la mia immaginazione, che ruminano senza sosta regalandomi spesso terribili emicranie, hanno pensato al circo e, quindi, a Cencio. A quel “circo personale”, a quei “giganti” e a quei “nani”, a quei piani scompaginati dall’imprevisto, a quel tentativo di evitare il dolore, la pena e l’inquietudine. L’equilibrista di qualche giorno fa sembra più stabile, oggi. Sembra guardare avanti meno dubbioso e più sicuro, ormai certo che tornare indietro sia impossibile e spostare lo sguardo imprudente. Camminare per le strade di Londra alla ricerca di una nuova casa mi ha senza dubbio comunicato la sensazione che la linea di fuga sia stata tracciata e che sia arrivato il momento di cercare la luce, anzichè tastare il confuso.
Se penso a quella foto che macchia “di ricordi l’Associazione Bocciofila Modenese” mi chiedo se io sia un gigante o un nano e quanto stia rischiando di farmi davvero male…..

Ma il tempo più ottuso di noi incalza per tutti sia per i giganti che i nani
chi immaginava allora che ognuno sarebbe finito in un proprio circo personale
vincenti o perdenti non importa ma quasi mai secondo i propri piani
con la faccia tinta, sul trapezio, tra i leoni, solo attenti a non farsi troppo male.
Francesco Guccini, Cencio

sabato 22 luglio 2006

Equilibrio - stasi

Giornata davvero stancante, quella di oggi, con il caldo afoso che ti impedisce di respirare e il turbinio di pensieri che, sempre più vorticoso, non ti consente il riposo. Così anche stasera, nonostante le scarse ore di sonno della notte appena trascorsa, faccio fatica ad addormentarmi, nonostante un'aria fresca che entra dalla finestra. Oggi, in tarda serata, appena rientrata per cena, ho dovuto constatare un leggero cedimento, uno spostamento all’indietro, una perdita dell’equilibrio. Oggi, per la prima volta, ho riflettuto sulla perdita, su cosa mi lascio indietro, su cosa diventa ormai impossibile recuperare. Oggi il mio piccolo equilibrista ha barcollato per un attimo e la corda sotto i miei piedi, che sembrava forte e robusta, mi è sembrata un po’ più sottile e forse incapace a reggere il peso. Per la prima volta ho avuto l’acuto sentore che sotto i miei piedi potrebbe aprirsi un baratro e che potrei, presto o tardi, precipitarvi.
Per rimanere in equilibrio è necessario avanzare a piccoli passi, senza lasciarsi conquistare dalla curiosità di vedere al di sotto di noi, con lo sguardo fisso in avanti ed il corpo ben fermo, sfamato a silenzi e dissetato a visioni. Ma forse questa sensazione di paura è solo dovuta ad un errore prospettico, al fatto che spesso l’equilibrio si confonde con la stasi. A volte, dopo anni di immobilismo il più impercettibile movimento ti fa intravedere un terremoto, a volte la luce abbagliante ti ferisce gli occhi non avvezzi al suo sfolgorio (e allora penso a Platone: “Somigliano a noi, risposi: credi che tale persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate sul fuoco sulla parte della caverna che sta loro di fronte?”). Stasera mi chiedo se questo percorso assomigli più ad una corda tesa su cui poggiare i miei passi incerti, o ad una scalata senza corde e imbracature. Vorrei avere qui i libri di Erri de Luca che mi hanno sempre accompagnato nelle mie simboliche arrampicate per leggere nei suoi racconti di montagne, di salite e discese, un simbolo del mio procedere. Che, in fondo, è quello di tutti.

Ti fa meno male l’oblio
Che questo cerchio di velo.
E se diventi farfalla
Nessuno pensa più a ciò che è stato
Quando strisciavi per terra e non volevi le ali

Alda Merini, Anima mia che metti le ali

venerdì 21 luglio 2006

Parole - Punti di sutura

Stasera sono talmente stanca che non riesco ad addormentarmi. Spesso mi capita, il corpo sia fa restio al riposo e la mente rifiuta un armistizio al suo quotidiano combattere. Di solito, in questi momenti, scrivo e cerco la tregua in quel terreno più solido che la scrittura mi regala ed a cui non riesco a non abbandonarmi. Quando riesco ad afferrarla le parole mi offrono quella terra conclusa verso cui indirizzarmi e da cui guardare indietro, quello strumento insuperato per rendermi ancora più aderente alla vita o per distaccarmene. Quando non scrivo non è mai un buon segno: nei momenti più difficili che ho attraversato ho rifiutato le parole e scelto il silenzio, momento di difesa da uno sguardo indagatore che vivifica i sussurri ed agisce come falda sotterranea scatenando il terremoto. La mia scrittura di oggi viene in soccorso a sanare i non detti, a superare l’immediatezza dell’esperienza, a recuperare il cuore vivente delle mie radici, a raggiungere territori inesplorati. Le parole che oggi uso non sono altro che punti di sutura per ferite ancora fresche ma che cominciano ad essere sempre meno fastidiose e con cui comincio a convivere, pur cercando di distogliere lo sguardo. Punti di sutura che indicano una ricomposizione di due lembi di esistenza, la ricongiunzione di pezzi sparsi, nonché un ponte verso nuovi territori. Le mie parole, adesso, mi fanno intravedere il passaggio, mi disegnano un ponte che non posso non attraversare. Oggi, sotto il sole cocente di Londra, ho capito che vale la pena tentare. Ho capito che devo trovare il coraggio, ho capito che devo intraprendere il cammino verso l’uscita. In questo mese e mezzo di Londra non ho più sognato il vuoto, non ho più sognato il viaggio, segno che il percorso è stato compiuto ed il vuoto riempito. E non ho avuto quasi mai l’emicrania…ma questa è un’altra storia.

"Io supero le cose soltanto scrivendole! - davvero se lo è rimproverato? Forse che questo segreto autorimprovero spiega lo stato in cui ha lasciato le cose? Diari, schizzi, osservazioni, racconti, liste di titoli, abbozzi, progetti, lettere. Tanta trascuratezza non la si può più mimetizzare da disordine o da superficialità. Da essa traspare la qualità della debolezza con la quale intendeva opporsi alla sopraffazione delle cose: scrivendo. E, malgrado tutto, le superava"
C. Wolf, Riflessioni su Christa T.

mercoledì 19 luglio 2006

Traiettorie di odori

L’odore di Londra è inconfondibile e ti raggiunge ad ogni angolo: lo senti spuntare da ogni ristorante, da ogni bottega di Fish and Chips, da ogni fast food. Quel profumo di frittura dolciastra che non esiterei a definire schifoso, se l’amore per questa città non mi impedisse, almeno fino ad adesso, di intercettarne i difetti.
Se rifletto sugli odori e mi lascio cullare dai ricordi, il primo che mi viene in mente è il profumo della pizza appena sfornata che nonna ogni tanto amava regalarci per cena. Quella pizza fatta in casa, non troppo sottile, con il pomodoro fresco e la mozzarella più buona che trovi in città. Noi portavamo le birre, perché la pizza senza birra è come un’estate senza granita e un inverno senza bomboloni. Adesso quelle pizze non ci sono più, ma resta comunque la scia che emanavano nelle diverse case che ha abitato, le cui pareti, forse, ne hanno trattenuto un po’ il sentore.
Il secondo è il profumo della mimosa della mia casa in campagna, insieme a quello della vendemmia e della cantina, con mio padre che coccola l’uva per farci avere del buon vino a Natale. La casa in campagna significa anche odore di terra bagnata e profumo di erba appena tagliata, falciata per permettere a quel giardino di diventare sempre più verde, così come avrebbe dovuto diventarlo il progetto che esso stesso rappresentava.
Il profumo del mare entrava dalle finestre della mia camera, così poco distante dalla spiaggia, insieme alla salsedine che seccava le piante e ingialliva il legno delle finestre. Basta affacciarsi in una giornata di vento per sentire il viso completamente avvolto dal profumo di iodio.
Poi penso all’odore di Roma, quello che ti raggiunge appena entri in stazione e che, se per i romani puzza di smog e cenere, per me non è altro che il ricordo della città a cui appartengo per metà, a cui mi sento legata con il filo sottile della genealogia materna. Sento l’odore dell’acciaio e dei binari, l’odore pungente di benzina e di calore che sale dall’asfalto, sento l’odore del fiume, delle strade e dei suoi formicai umani, così lontani dalle mie abitudini di bambina ed adolescente. L’odore di Roma è l’odore delle rosette appena sfornate e zuppate nel latte e caffè in quella casa così poco calpestata, ma non per questo meno amata e meno presente nei miei ricordi di oggi, è l’odore antico di naftalina dell’armadio sempre troppo ordinato di mia nonna. Odori che a volte mi avvolgono ancora, insieme alla nostalgia delle cose che erano. Chissà com’era l’odore di Roma quando “le voci del mio luogo” l’hanno abitata.
Non so perché oggi il profumo di Londra mi abbia fatto tornare alla mente queste sensazioni lontane, un pensiero affettuoso adesso va a chi ha pensato al profumo di “zonzelle” e a quello di “cerase”.

"Nessuno sa dove si nutrono le gemme,
nessuno sa se mai la corolla fiorisca -
durare, aspettare, concedersi,
oscurarsi, apreslude"
Gottfried Benn, Apreslude.

domenica 16 luglio 2006

Paure

Ho sempre tremato al pensiero della morte. Solo la certezza che condivido questa sorte con il resto degli esseri umani mi rende la paura più sopportabile. Ma continuo ancora a chiedermi quando e come sarà, se ne avrò sentore, se riuscirò a guardarla in faccia, magari a metterla alla porta, anche se non per sempre.
Ho sempre tremato al pensiero dell’abbandono. La mia abitudine alla simbiosi mi ha reso incapace, per anni, di pensarmi sola, di scegliere il mio cammino libera dal giudizio e dal pensiero degli altri, siano questi i genitori, i colleghi, gli amici.
Ho sempre tremato al pensiero di non essere all’altezza.
Ho sempre tremato di fronte alle sfide, convinta che non ce l’avrei fatta.
Ho sempre tremato di fronte all’idea di avere un figlio, o meglio una figlia, convinta che non sarei riuscita a dire quel “per sempre” che dici solo a colui, o colei, che metti al mondo.
Ho sempre tremato di fronte al pensiero di non restituire quello che ti viene dato.
Adesso sto tremando di fronte alla vita, indecisa se afferrarla, se accettarne l’imprevedibilità, se incamminarmi per le sue salite e riprendere fiato nelle discese. Adesso ho capito che ho sempre preferito la sicurezza alla libertà, il certo all’incerto, la morte alla vita.
Oggi al parco di Finsbury ho cercato di respirare a pieni polmoni ed ho capito che adesso non posso più avere PAURA.

Questa è la pagina di oggi:
"Mir zainen do (Noi siamo qui): è un canto yiddish dei partigiani del ghetto di Vilna, in Lituania.
Noi siamo qui: ci sono momenti in cui le fibre sfilacciate di un popolo si rianimano e nasce nella resistenza all'oppressione una nuova consistenza. Essa comincia sempre con una specie di 'eccomi'. [...] Eccomi è voce dei momenti di verità, quando si è chiamati a rispondere di sì. E' il passo avanti, lo scatto che fa uscire dai ranghi e porta a uno sbaraglio. E' la parola più bella che si possa pronunciare in quei momenti, un dichiararsi pronti, anche se non lo si è affatto. Prima di usarla bisognerebbe allenarsi a pensarla più spesso.
Buona fortuna a chi dovrà pronunciare oggi il suo difficile 'eccomi'"
Erri De Luca, Alzaia

sabato 15 luglio 2006

I 57 passi

Li ho contati per anni pensando che, prima o poi, avrei trovato il coraggio di farli per l'ultima volta.
Sono 57 i passi che separano la porta dello studio da quella dell'ascensore, a cui si accede con una piccola chiave sempre pronta a piegarsi e a diventare difettosa. Per scendere però basta premere il pulsante ed allora ti ritrovi all'aria aperta e respiri a pieni polmoni cercando di non pensare alla giornata appena trascorsa, di non soffermarti troppo a capire perchè sei ancora lì. Se la giornata è soleggiata devi solo attraversare il Ponte alla Carraia e mangiarti uno dei gelati più buoni di tutta Firenze, oppure farti solo una piccola passeggiata ed arrivare a Ponte Vecchio, alla Galleria degli Uffizi, a Piazza della Signoria. Nonostante abbia vissuto a Firenze per cinque anni non c'è stato un giorno che abbia attraversato le sue piazze senza ammirarne lo splendore, cosa che spesso ti capita, quando vai di fretta e cerchi di raggiungere casa il prima possibile. Il prima possibile, perchè sai che ti aspetta una lunga notte di studio e di lavoro, perchè sei consapevole che la mattina seguente devi incontrare degli studenti e delle studentesse e offrire loro quello che meritano, perchè non puoi solo fregiarti di un "titolo" senza dimostrare quotidianamente che lo meriti. Il prima possibile per godere di quelle poche ore che ti separano da un sonno sempre improvviso e che vorresti non arrivare mai, ma a cui cedi nonostante la più ferrea volontà. Restano poche ore a disposizione prima di addormentarsi e sai che non ne hai altre. Il giorno, e tutta l'energia che avevi appena scesa dal letto, è ormai trascorso e anche oggi non sei riuscita a capire il senso di quello che hai fatto, di quello che ti è stato chiesto e non sai dare una spiegazione razionale al perchè non reagisci alla sua violenza, alla sua ostentata arroganza. Lei è sempre lì, convinta che la vita si esaurisca lì dentro, decisa a spremerti anche quando non ce ne sarebbe bisogno, incapace di vedere lo spreco di quelle ore di completa inattività, sempre alla ricerca di un pezzetto di "potere" che la faccia sentire in pace con se stessa. E io incollata su quella sedia a cercare di convincermi che questa sia stata la scelta più giusta, più razionale, più ovvia. Certo non posso abbandonare tutto proprio adesso, devo resistere, devo dimostrare agli altri, e soprattutto a loro, che mi aspetta un futuro radioso, una invidiabile carriera universitaria, una sequenza di soddisfazioni e riconoscimenti. Ma che cosa sei diventata mia cara ed amatissima Università? Possibile che il luogo per eccellenza della cultura e della libertà possa trasformarsi in una prigione e che coloro che dovrebbero essere dei mentori in sadici carcerieri?
Sono 57 i passi che mi hanno ricondotto alla vita, che mi hanno restituito a me stessa, che mi hanno regalato la gioa e l'entusiasmo di essere libera. Sono 57 i passi che mi hanno permesso di non mascherare il disgusto e il disprezzo con la più falsa adulazione, con le bugie più vigliacche, dette in primo luogo a me stessa. Sono 57 i passi che mi hanno permesso di capire che non si può costruire il proprio percorso alla ricerca di un falso prestigio che non dice nulla di te, del tuo modo di essere più autentico e genuino e che ti chiede solo di apparire per quella che non sei.
Adesso sono libera, libera di pensare e di agire, di decidere le mie giornate, di fare risuonare le mie corde nascoste, di scegliere le persone con cui condividere un pezzo di strada. Adesso sono Barbara alla ricerca del mio io più autentico. E sono qui a contemplare lo spazio immenso che la vita mi ha restituito fuori da quelle grigie e soffocanti stanze, sono qui ad assaporare un inedito quanto inebriante senso di libertà, a cercare di afferrare ogni sottile sensazione e ogni impercettibile cedimento. Sono qui, in una città già amata ed abitata, che offre sorpese anche agli sguardi più pigri, che ti accoglie con un calore unico, che ti abbraccia così stretta da non lasciarti più andare.

"Dove va il signore, con il suo cavallo?"
"Non lo so", dissi io, "purchè via di qua, solo via di qua. Via di qua senza sosta, soltanto così potrò raggiungere la mia meta".
"Dunque conosci la tua meta", osservò lui.
"Sì", replicai, "l'ho detto no? Via-di-qua...ecco la mia meta"
F. Kafka, La partenza.

cercaunamagliarottanellarete

Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l'ho pregato, ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine...

Eugenio Montale, In Limine

La maglia rotta nella rete è simbolo, simbolo di fuga, di uscita, di nuove visioni.
Individuarla non è mai immediato e, una volta che la si è riconsociuta tra le altre, non è così semplice decidere di attraversarla. Una volta deciso, lasciarsi il resto alle spalle richiede una grande dose di coraggio, necessario per condurci all'uscita.
E quando a farti intraverdere il passaggio, sebbene non il percorso che questo ti apre, è una città, capisci che non la puoi più lasciare e il ritorno si fa impossibile. Tutto diventa diverso, tutto si colora di nuova luce, tutto assume inediti profumi. La luce non è così accecante come quella che si respira a casa, i profumi non sono così familiari e i suoni spesso sono indecifrabili. Quando tutto questo diventa per te essenziale, è arrivato il momento del congedo. Congedo....tanto doloroso, quanto necessario...

Andando e stando....