venerdì 27 marzo 2009

Sia fatta la (vostra) volontà


Come ogni venerdì, alla terza ora, mi dedico al ricevimento dei genitori. Arriva la mamma di Ginevra e quasi mi commuove, chiedendomi, come se dipendesse da me, di non lasciare questa scuola e quindi sua figlia, che ha trovato nella filosofia motivo di stimolo e riflessione. Che bello, queste cose mi fanno dimenticare tutto il malessere in cui mi sono avviluppata, quella rete di preoccupazioni in cui mi sono lasciata sequestrare, molte delle quali costruite abilmente con le mie stesse mani. E' una mamma con cui mi piace parlare: sincera, disponibile, disposta all'ascolto e al confronto e, soprattutto, contenta che le questioni di genere trovino finalmente cittadinanza in una scuola in cui di donne si parla pochissimo, nonostante la marcata femminilizzazione del corpo insegnante. Mi racconta che ha visto “Vogliamo anche le rose” insieme alla figlia e al marito e mi ringrazia di averne parlato in classe, aggiungendo che Ginevra ha una voglia matta di andarsene da questo paese e di studiare all'estero.
Cominciamo a parlare di politica e scopro che alcuni ragazzi si lamentano della mia scarsa neutralità, richiamandomi a riflettere su una questione a cui spesso sfuggo e mi sottraggo, per non trovarmi costretta a cambiare atteggiamento, cosa che so non mi riuscirebbe. Incapace a non espormi, ho scelto la sincerità, convinta che i miei studenti debbano sapere il mio punto di vista, per non restare erroneamente abbagliati da una falsa neutralità. Convinta che sarebbe estremamente scorretto passare le mie interpretazioni dei fatti come il modo naturale, oggettivo ed ovvio di leggere le cose, preferisco prendere posizione ed espormi, magari condannandomi a dibattiti estenuanti. Forse mi sbaglio, e penso alla lezione di stamani sulla Controriforma e il Concilio di Trento, penso alle mie parole su quell'“eretico ostinatissimo”, quel Giordano Bruno, “abrugiato vivo” in una piazza romana, mentre in Inghilterra il dibattito culturale stava per regalare i capolavori del Seicento. Mi chiedo se abbia o meno sbagliato e mi rendo conto, adesso a tu per tu con me stessa, che il mio sforzo era non solo la volontà di far capire loro il passato, ma anche il tentativo di far loro tradurre, con le lenti della storia, le tante cose incomprensibili di questo nostro paese, così barbaro, così oscurantista, così violento, così arrogante, così prepotente. Sento che adesso non posso che fare così, che cercare di aprire una breccia nelle loro teste lobotomizzate da anni di berlusconismo, per dare un senso di dignità al mio lavoro, per difendermi da tale ostentata supponenza. Forse sto superando il fosso che mi separa da loro, forse sto abbandonando la neutra imparzialità che dovrebbe contraddistinguere il mio lavoro, forse mi sto attribuendo compiti che non ho. E allora loro che fanno, che mi stanno strappando il diritto di scegliere, che stanno sequestrando la mia libertà di scelta, che stanno trasformando una parziale moralità, del tutto discutibile, nella volontà generale che, rousseauianamente, sta alla base delle
leggi? Sono loro che mi hanno portato in guerra, costringendomi a rinunciare al silenzio pacifico della mia coscienza, perchè a questa hanno tolto spazio, hanno tolto dignità, hanno tolto il senso. Spero che Ginevra se ne vada davvero, che abbia la forza di lasciare questo mare, questa laguna incantevole, magari per rinchiudersi al freddo e al grigiore di una città europea, ma dove sia libera di scegliere, anche come morire.

martedì 17 marzo 2009

Voce del verbo "pienare"

Tutti quelli che mi conoscono bene lo sanno. Sanno quanto sia innamorata dei miei studenti, quanto grande sia l'affetto che mi lega a loro, dai più bravi a quelli più svogliati. Sono loro, nel bene e nel male, sono i miei ragazzi. E per quanto a noi adulti piaccia lamentarci di loro, con le solite frasi del tipo “non ci sono più i giovani di una volta”, loro ci sorprendono sempre e si dimostrano migliori di quanta sciocca semplificazione voglia farci credere. Ci sorprendono, anche qui, nel bene e nel male. Il giorno del funerale di mia madre, appena scesa dall'auto che mi portava in chiesa dall'ospedale di Grosseto, il mio sguardo, come ipnotizzato da quel carro funebre e da quella bara che sapevo essere la sua, si è subito spostato verso di loro che, senza conoscere la mia mamma, né averla mai vista, si sono digeriti duecento chilometri per venire a darle l'ultimo saluto e per regalarmi un abbraccio sincero. Tornata a scuola li ho ringraziati per la loro sentita e profonda vicinanza, sia quella dei corpi che quella dei pensieri, meno immediata ma non per questo meno profonda. Capisco che questo è stato un momento in cui lo steccato necessario dei ruoli nei quali ognuno di noi è sempre ingabbiato debba frantumarsi sotto il peso dei sentimenti ed in cui, finalmente liberi, si dia respiro e voce al non-detto. Così i miei “bimbi”, come amo chiamarli io, hanno addolcito la giornata più dolorosa della mia vita, così i miei studenti, con la loro presenza e la loro vicinanza, sono stati punti di sutura ad una ferita profonda e il loro affetto sincero è ancora oggi un balsamo che lenisce e rassicura, che scalda e sostiene, forse il farmaco più efficace ad un dolore come questo.
Sorprendono sempre, nel bene e nel male. Sconcertano a volte con la loro innata incapacità alla concentrazione, con la loro assenza di collaborazione, con la loro difficoltà a capire quando è arrivato il momento di dare qualcosa, anziché star sempre lì a prendere come piovre. Stupiscono con le loro esclamazioni, con il loro continuo “prof. può spostare l'interrogazione?”, con i loro sbadigli, con quell'aria carica di alitate di nicotina, con quei ritardi continui, con quella paura cronica di fronte a qualsiasi prova. Bisogna farci l'abitudine, se si vuol sopravvivere. I miei “bimbi” sono anche questo (e a volte penso che, alcuni di loro, con i genitori che si ritrovano, sono pure troppo....).
Sorprendono, come stamani. Registro, ancora una volta, la loro completa incapacità ad ascoltare le interrogazioni dei compagni, segno davvero di scarsa furbizia e intelligenza, visto che io, come tutti gli altri insegnanti, mi ripeto sempre nelle solite domande, replicate talmente tante volte che persino le zanzare della laguna di Orbetello conoscono il procedimento della dialettica hegeliana. Vabbè, non gli entra in testa....“non c'è verso”, come dicono loro. Se ne stanno penzoloni sui banchi, a masticare caramelle, a rollare la sigaretta (speriamo....) per la pausa successiva, a copiare la versione di greco, a brontolare fra loro. E poi, come stamani, si lasciano a queste meravigliose regressioni all'infanzia e tornano, inconsapevoli, alla quinta elementare, in una zona grigia e indefinita in cui tu, povero insegnante, non capisci se hai a che fare con adulti o con cavernicoli abbrutiti. Così stamani i miei ragazzi di seconda, mentre io interrogavo quattro fanciulle su Galileo e Cartesio, si sono eclissati, si sono mentalmente allontanati dalla classe, e Carlo Maria, Samuele, Simone e Carlo Alberto (insomma, sempre i “magnifici quattro”) si sono messi a fare le palline di carta da tirarsi con l'involucro della penna bic, superandosi in capacità di mirare il bersaglio. E quelle palline, abilmente indirizzate e scendendo miracolosamente dal colletto verso la schiena,
andavano ad infilarsi nel maglione di Carlo Maria che, dopo dieci minuti di “battaglia della cerbottana”, ha cominciato ad essere insofferente a questa indebita violenza e a dare segni di escandescenza, muovendosi convulso sul banco, grattandosi a ritmo costante, sbuffando verso i compagni. Stanca di questo continuo mormorio, ho cominciato ad alzare la voce, a chiedere silenzio, ad esigere rispetto per le compagne interrogate. E così Carlo Maria, nel goffo tentativo di giustificare la sua scarsa disciplina, mi ha guardato con occhi imploranti perdono e mi ha detto: “Lo so, scusi prof. ma mi hanno pienato il maglione di pippoli”. “Pienato”: voce del verbo “pienare”. Oddio mi sento male.

domenica 8 marzo 2009

Il 9 marzo



Mi lascio ubriacare dalla melassa di parole sulla ricorrenza di oggi. Si fa un gran parlare di donne l'8 marzo, tutti si rincorrono nella valorizzazione delle potenzialità femminili, sulla nostra forza e capacità, sulla ricchezza delle nostre esperienze singole e collettive. La mattina però, di tutti i santi giorni dell'anno scolastico, mi sforzo di far percepire alle mie alunne di quanto sia difficile vivere in un mondo fatto e pensato da – e per – gli uomini, liberarsi dalle ragnatele dei loro significati e significanti, di quanto sia erta la salita alla realizzazione in un paese come questo, dove gli spazi pubblici sono monopolizzati dalla loro invadente presenza. Ogni volta vivo titanici sforzi a far comprendere loro come il problema della violenza, che perennemente pesa come una spada di Damocle sui loro/nostri corpi, sia il frutto di una cultura maschilista che viola la nostra integrità di donne, inchiodandoci ad un ontologismo biologico, ad un destino determinato da un'anatomia funzionale a strategie di potere, riducendoci a un fascio di carne e nervi attorno a una fessura. Ed ogni volta è tremendamente snervante ritrovarsi a parlare con loro solo delle migliori tette rifatte, della migliore minigonna, della scarpe più audaci in vista di una probabile seduzione. Stasera orde di donne si accalcheranno in pizzerie, ristoranti e locali goliardici, replicanti del peggio del peggio del machismo all'italiana, frutto di un'omologazione che offende la nostra dignità e oltraggia la nostra differenza.Oggi, per questa festa, stanca morta dopo un weekend pisano, mi gusto per la seconda volta (o terza? Non l'ho visto anche con Riccardo???) quel gioiello di “Vogliamo anche le rose” di Alina Marazzi, davvero un bel film documentario da vedere (e rivedere), soprattutto per chi, come noi bambine degli anni Settanta, è spesso vittima di una pericolosa amnesia su quegli anni di lotte e trasformazioni, imbambolate dall'individualismo degli anni Ottanta che sembrava aver liquidato (nel DriveIn e simili???) il senso trasformativo degli anni precedenti. Proprio un bel film, da vedere con attenzione e impegno, per ricostruire un legame con un passato che ci appartiene, nonostante l'oblio. Forse un po' pesante per i i miei ragazzi e le mie ragazze, a cui ho consigliato di vederlo durante un'assemblea di istituto: dicono che hanno fatto fatica ad orientarsi tra i tre diari e le tre storie che costruiscono l'ossatura dell'opera, ma dicono anche che è stato pungolo ad ulteriori riflessioni, nonché violente discussioni. Così ripenso alle ragazze della mia generazione, anche noi così convinte che le donne avessero già detto tutto quello che c'era da dire e che il loro impegno avesse lasciato sul terreno solo un cumulo di cenere dopo un grosso incendio. E rifletto anche sulla Barbara adolescente, la cui cultura politica, per quanto precoce e salda, non si è mai saldata con quello che, in futuro, avrebbe rappresentato il suo primario, se non esclusivo, interesse di donna e di eterna studente: il movimento delle donne, la sua storia, la sua plurale ed arborea definizione. Mi tornano alla mente le pagine lette qualche settimana fa, quando, quasi a voler riannodare le fila di riflessioni passate, mi sono presa tra le mani i testi di Carla Lonzi, e mi sono di nuovo immersa, dopo tanti anni, nelle sue parole così dissacranti e spesso crudeli, in grado di operare in me una dissezione di sentimenti, paure ed emozioni. Così ci appare chiaro che, ancora una volta, viviamo schiave di un errore di prospettiva: assorbiamo acriticamente le regole di una roccaforte, sociale, economica e politica, costruita unicamente al maschile, e siamo vittime di un sistema di rappresentazione che non ci significa e non ci rappresenta. E noi, dopo trent'anni da quel processo di radicale cambiamento che ha investito le vite delle nostre madri, siamo tornati nell'ovattato silenzio, festeggiando l'8 marzo e dimenticandoci completamente di cosa succederà il 9.

venerdì 6 marzo 2009

Conatus sese conservandi

E' da poco passata mezzanotte e vorrei dormire. Invece sono sul letto con gli occhi sgranati e una nuova, spietata e accanita crisi di emicrania. Con la mia quasi giornaliera dose di indometacina, mi immergo tra le lenzuola appena cambiate, con la gatta in fondo al letto che ulula invece che miagolare, quasi per rimproverarmi di averla lasciata sola da stamani. Domani andrò di nuovo in macchina, consapevole di non farcela ad alzarmi alle sei per prendere il treno e già mi chiedo come farò a fare lezione con questo peso sulla testa che da giorni sembra non volermi lasciare tranquilla. Eppure, nonostante la mia cefalea, di nuovo impietosa e feroce, la giornata di oggi segna un piccolo progresso. Riesco a concentrami sulle cose che mi fanno stare bene, che mi fanno sorridere, e cerco di sfoltire quel grumo ispessito di dolori e preoccupazioni che sono stata capace di aggiungere alla sofferenza per la morte di mia madre. Mi sono concessa un salutare raccoglimento in una stanza di biblioteca, per recuperare le forze e la concentrazione, mi sono lasciata andare a una confidenza inedita con una alunna che risarcisce i miei sacrifici e ripaga il mio impegno, mi sono abbandonata ad una cena abbondante e annaffiata da un ottimo vino in spassosa compagnia, mi sono goduta il viaggio di ritorno da Grosseto in piacevole solitudine, in preda ai miei mille pensieri. Oggi sono stata brava: se dovessi fare la “profe”, come mi apostrofano i miei ragazzi, mi concederei un bel “sette e mezzo”. Oggi ho capito che questo sforzo di tenere lontani i troppi pensieri, le arrabbiature, le attese e le domande è solo la ricerca di sopravvivere e di staccare la spina da anni di acuti dolori e violenti dispiaceri e mi sono finalmente persuasa che davvero non ha senso trovarsi imbrigliata in mille reti, avviluppata da nuove preoccupazioni, scovate con sorprendente abilità, stanate da un tempo ormai evaporatosi in piacevoli ricordi. Non sarà quel “conatus sese conservandi” di cui parlava il buon Spinoza, quell'istinto alla conservazione del proprio essere e alla salvaguardia di sé? Spero proprio che le riflessioni di questi giorni, generatrici di sofferte decisioni, inaugurino un nuovo amore per la mia anima, un istinto alla protezione che non posso chiedere agli altri se non a me stessa, una ricerca di riparo da preoccupazioni superflue che devo alla Barbara di oggi, già così appesantita. Stasera vorrei vomitare dal dolore per questa emicrania, ma non ce la faccio. Buonanotte a tutti.

"Rimanere così, annaspare nel niente
custodire i ricordi, carezzare le età
è uno stallo o un rifiuto crudele e incosciente
del diritto alla felicità
Se ci sei cosa sei? cosa pensi e perchè?
Non lo so, non lo sai, siamo qui o lontani?
Esser tutto, un momento, ma dentro di te
avere tutto ma non il domani"
Francesco Guccini, Canzone delle domande consuete

domenica 1 marzo 2009

Che cosa me ne faccio di una macchina....


Finalmente torno a studiare con rinnovato impegno e stabile concentrazione. Domenica casalinga quella di oggi, dopo un pranzo a casa con mio padre, in una giornata come questa, in cui mamma avrebbe festeggiato il suo sessantunesimo compleanno. Abbiamo coccolato il nostro amore, uscito rafforzato da questa prova e io ho abbandonato la dieta anti-emicrania almeno per un giorno, abbuffandomi anche di patate fritte, ottimo e comprovato antidepressivo. Emergo da due giorni di salutari regressioni. La giornata di venerdì è stata davvero un tuffo all'indietro, in un passato che a volte vorrei davvero rivivere, per recuperare una dimensione del vivere di cui spesso percepisco la lontananza e l'estraneità. In un passaggio fugace tra due città, le mie città, Pisa e Firenze, si sono materializzati nella mia mente gli ultimi anni: da quel piccolo bilocale nella periferia pisana, a quei lungarni illuminati, a quella casa amata-odiata abitata con tanto amore, a quelle strade attraversate in lungo e in largo da un motorino che adesso segue le giornate di una cugina adolescente.
Ritorno all'indietro accompagnato da una presenza costante e consacrato dall'ennesimo concerto di Francesco Guccini, goduto con il pensiero rivolto all'indietro, a quei tanti viaggi affrontati con spirito da adolescente. Così io e Giovanna ci siamo messe a ricostruire la cartina geografica delle nostre fughe, da quelle con i nostri amori a quelle in ricercata solitudine, a ricordare ogni momento e ogni scaletta di canzoni, ogni panino e ogni incontro. E insieme abbiamo riflettuto sulla violenza del tempo, che senza farcene neppure accorgere, si è sgranocchiato dieci anni con una velocità sorprendente, portandosi via tante cose: sogni, progetti, case, amori, madri.
Mi chiedo se sarei disposta a mercanteggiare questa attesa adultità, dell'anagrafe ma soprattutto del cuore, con una decennale inversione, mi domando quanto vorrei tornare all'indistinto territorio dei miei vent'anni, durante questo mio totale immergermi negli anni dei miei studi universitari e del mio amore apparentemente incrollabile. Adesso su questa scrivania, finalmente di nuovo sommersa da fogli di appunti e libri invecchiati, lancio uno sguardo alle mie cose e indirettamente a me stessa, e penso che davvero sto facendo quello che ho sempre desiderato ed a cui sono arrivata per giri tortuosi e percorsi scoscesi. Ma penso anche che, pur di respirare di nuovo quell'entusiasmo spontaneo e quell'appassionato poter essere imbevuto di futuro, sarei davvero pronta a respirare di nuovo con affanno su quelle salite, anche solo per un attimo. Canzone di oggi: Vasco Rossi, E adesso che tocca a me


E adesso che sono arrivato fin qui grazie ai miei sogni
che cosa me ne faccio della realtà
adesso che non ho più le mie illusioni
che cosa me ne frega della verità
adesso che ho capito
come va il mondo
che cosa me ne faccio della sincerità...
E adesso che non ho più
il mio motorino
che cosa me ne faccio di una macchina
e adesso che non c'è
più topo gigio
che cosa me ne frega della Svizzera...”