martedì 27 ottobre 2009

Spazi della memoria

E’ una giornata di fine primavera, un sole tiepido e avvolgente riscalda quello spicchio di mare che si riesce ad intravedere dalle finestre appena aperte, il vento muove le tende profumate di bucato e l’odore rilassante del salmastro si sparge per tutte le stanze, intenso e deciso, quasi a voler preannunciare un’estate vivace e piena di sorprese. Lei è lì, in quella stanza calpestata dai suoi piedi di bambina e disprezzata dai suoi passi di adolescente che avrebbero voluto solcare gli spazi immensi di una adulta autonomia. E’ lì e sente di appartenere a quel luogo, di averlo scolpito come segno di un’appartenenza, ne raccoglie lo spazio con un’occhiata fugace e si concede qualche minuto di piacevole regressione, quasi a voler ricordare le mille metamorfosi di quelle pareti così intime e familiari. Pensa alle altre stanze che ha abitato, da quelle silenziose e ovattate nella periferia pisana, a quelle rumorose e chiassose delle sue vie fiorentine. Si sente forte, oggi, si sente invincibile. C’è una valigia da chiudere, c’è da trovare lo spazio per pochi ma indispensabili libri, c’è da telefonare agli amici, da baciare un padre e una madre fino a consumarli, quasi a volersi saziare di un amore di cui sentirà la mancanza. I vestiti sono troppi, la valigia è troppo pesante, tutti questi libri sono inutili, e queste finestre aperte fanno entrare un vento energico che scompagina tutti i fogli sulla scrivania. Sembra che voglia racchiudere i suoi anni in questa valigia così stretta e sembra che, insieme ai vestiti, voglia imprigionarci tutti i suoi pensieri disordinati, le sue paure inconfessate e le sue velate malinconie. Sono giorni che sta preparandosi a questa partenza e niente sembra al posto giusto. Assapora una inedita e intensa sensazione di libertà dopo che ha chiuso quella porta in silenzio, ha percorso quel tetro corridoio con il pavimento in cotto, ha inserito la chiave nella porta dall’ascensore e ha salutato l’inferno. La “regina” non si immagina neppure che quando tornerà nel suo regno, il suo cavaliere più amato ha serrato il cavallo e se ne è andato a respirare gli ampi spazi dell’autonomia e a vivere la sua ritrovata dignità. Il suo forte puledro in realtà è uno scarcassato liberty color oro che attraversa le strade fiorentine: si lascia dietro di sé via di Parione, imbocca i lungarni, scivola lungo i viali di circonvallazione, attraversa piazza Beccaria e si ferma davanti a un portone in legno, imponente, massiccio, che forse qualcuno le aprirà. Nello zaino ha un trasloco sognato e immaginato per cinque anni e tra le mani una lettera scritta a mano con una grafia tremante ma piena di orgoglio, un foglio che custodisce in segreto tutta la sua rabbia e il suo disprezzo, un foglio a cui ha destinato la sua fierezza e le sue energie, quelle energie che sembravano spente, sopite e definitivamente soffocate dentro quelle stanze che non le davano respiro. E’ un gesto di un attimo, un movimento veloce, immediato, quasi fulmineo. Lo sa che l’imperatrice è lontana, che non c’è nessuno nei paraggi, che non ci sono pericoli di incontrare il suo sguardo, ma ha comunque il terrore che qualcuno o qualcosa la riporti indietro, interrompa la corsa, arresti il suo procedere. La lettera scivola dentro la cassetta, lei controlla ancora una volta il nome del proprietario di quell’urna di corrispondenze, sincerandosi che la sua anima sia al posto giusto e che presto qualcuno ne legga gli intimi anfratti e le più sincere modulazioni. Ci siamo, ce l’ha fatta. E’ libera, è di nuovo la Barbara di un tempo, è tornata ad appartenersi, ha ricominciato ad amarsi. E questo gesto, questo lasciar cadere non solo quella lettera ma anche la sua maschera, è stata la più autentica dimostrazione di amore verso se stessa che avrebbe potuto regalarsi. Non so perché stasera sia tornata con la mente a quel giorno di maggio, non so perché abbia chiuso gli occhi e rivissuto ogni istante di quella battaglia, abbia esultato ancora al ricordo di quella vittoria. Forse perché vorrebbe risentire, per un attimo, le sensazioni immobili di quella forza e di quella energia, forse perché vorrebbe capire come tornare ad amarsi.

lunedì 28 settembre 2009

Un'altra me - I will survive

Nel tentativo di rimanere fedele ai miei buoni propositi e ai miei inviti ad una seppur timida serenità, assaporo questo fine settimana casalingo. Seduta sul letto in questa nuova casa a pochi chilometri dalla laguna, in questo sperduto paesino di provincia nella più amara Maremma, cerco di registrare le mie sensazioni così come si sono susseguite, oggi, sullo spartito della mia anima. Con una inconsueta tenerezza regalata dalla vecchiaia, la gatta, muovendosi come un’ombra del mio stesso corpo, si rannicchia sul letto e mi guarda, in attesa di un’affettuosa carezza; nelle orecchie le note dolci di Ludovico Einaudi, intorno il solito caos ordinato inevitabile in uno spazio così ridotto. Inizio la giornata di sabato leggendo le ultime righe che ho steso su questo blog: leggo e rileggo, mi stanco, mi annoio, mi arrabbio con me stessa. Sale dal profondo un moto di rabbia e di stizza verso una Barbara che mi infastidisce fino alle lacrime, fino a farmi gridare contro me stessa parole dure e violente, tutt’altro che consolatorie. Capisco che non ho bisogno di conforto e rassicurazione, ma di una vigorosa scossa capace di scrollarmi di dosso questa luttuosa malinconia e questa lagnosa inquietudine. Cazzo, penso: ci vorrebbe mia madre con quei suoi rimproveri tanto duri quanto affettuosi, che riuscivano davvero a svegliarmi da questo dormiveglia dei lamenti e stanavano un’energia sotterranea creduta esaurita. E la parte di me stessa che le ho lasciato assoggettare dopo la sua morte si è svegliata in questo sabato pomeriggio e ha fatto il suo dovere.
Mia madre non c’è più e sembra a volte che io mi sia sotterrata con lei, sono sola in questa laguna sperduta e sono dolorosamente in attesa di un amore che mi travolga, mi trascini, mi sconvolga, fino a regalarmi un figlio. “E che palle” mi viene da urlare, “ma che vuoi” mi viene da chiedermi. Sono stanca di misurare sempre uno iato smisurato fra i miei propositi e le mie azioni, sono stufa di leggere imprecise traduzioni delle mie intenzioni e sono anche stanca di questo spazio virtuale che si è traformato in un lago di lacrime e in un rifugio di lamenti. E basta pure con questa musica splendida ma, se ascoltata in questo momento, capace solo di ipnotizzarmi di fronte alle mie paure. Mi dispiace per Einaudi, ma questo sabato mi sento pronta per Gloria Gaynor. E mi dispiace anche per i nuovi vicini, abituati ad una melodia ovattata e non a questa musica urlata, ma qua si deve traghettare, si deve oltrepassare un fiume in piena, che trasporta con sé i residui di cinque anni faticosi e tormentati. Qua ci vuole “I will survive” a tutto volume. Bice si alza dal letto e si decide per un sopralluogo in cucina, allibita di fronte a tale metamorfosi pomeridiana. Sono le tre e mezzo, tra un’ora c’è “Baaria” al cinema. Sì, lo so, sono sola, ma non è proprio una tragedia, anzi è un qualcosa che mi rasserena e tranquillizza, visto che tutti coloro che ho portato con me al cinema mi hanno coperto di insulti e accusato di essere la solita che vuole giocare all’intellettuale e si scatena con pellicole iraniane sottotitolate in serbo. E anche “tu” non ripetere che la serenità toglie spessore e consistenza alla mia scrittura e che le mie pagine migliori sono quelle che trasudano lutto e disperazione. Comunque “Baaria” era tutt’altro che noioso e soporifero, ma un autentico gioiello, tipico di Tornatore. Esco dal cinema e, finalmente, nel corso affollato di gente alle sette di un sabato sera ancora tiepido, non percepisco il mio essere sola come una colpa, soprattutto grazie ad un’alunna che mi vede da lontano e si precipita per un saluto. “Che fa sola prof. di sabato sera?” Silenzio irreale. Ci penso, so che vorrei dire fra le lacrime: “E’ il primo giorno senza emicrania e, visto che il fidanzato non esiste, un marmocchio neppure e che le amiche sono tutte sparse in ogni angolo meno che qui, me ne vado sola e disperata al cinema, immaginandomi di stringere una mano amata nella penombra della sala….sigh…sigh…”. Ma la parte di me risvegliata dai rimproveri di mia madre a da Gloria Gaynor, scalcia infastidita: “Sono stata al cinema a vedere un film splendido. Dovremmo parlarne a scuola, magari tornarci insieme un pomeriggio”. Mi sento in mezzo al fiume con la mia zattera alla ricerca di raggiungere la riva. La vedo lontana e irraggiungibile, ma gioisco alla decisione di intraprendere la traversata. Mentre remo mi passano davanti la carcasse di tutte le mie amarezze e i rifiuti dei miei tormenti. E’ un fiume denso e melmoso come questa laguna e si avanza a rilento. Mi sento già le braccia a pezzi, ma sono riuscita ad avanzare, seppure il tratto percorso in avanti sembra quasi impercettibile, in questo sabato sera orbetellano.
Arrivo alla macchina e giudo fino a casa. Mi viene in mente il film di Mike Leigh che ho visto giovedì sera e le strade di Londra immortalate con abile maestria. Penso che invece che essere a Finsbury sono ad Albinia ma il paragone, così irreale e assurdo, anziché rattristrarmi mi strappa un sorriso. Non ci sono più a Londra, sono qua. E devo imparare a viverci, non a sopravviverci. Domani è domenica e posso dormire fino a tardi, spero di studiare con impegno e profitto come non faccio da tempo e spero di trovare un’altra Gloria Gaynor che riesca a riesumare quell’altra me che oggi mi ha così piacevolmente sorpreso. E che mi dia l’energia di risalire su quella barchetta all’apperenza fragile e consumata, in realtà integra e resistente. Almeno credo, speriamo di non imbarcare acqua.

sabato 26 settembre 2009

Soliloquio

Finalmente trovo una foto che parla di me. Paolo ha bloccato la mia immagine mentre ero accovacciata su una porzione di scoglio a Cesme, nella penisola di fronte a Izmir. E’ una delle poche foto che ritengo autentiche, nella quale mi rispecchio e mi riconosco. Mi piace, mi piace quell’immortalare quei segni intorno agli occhi su una pelle resa imperfetta dall’acne dell’adolescenza, questo mio essere, anche nel volto, un miscuglio imprefetto di adultità e giovinezza, questo sentirmi un ibrido che, nonostante porti i segni della maturità, stenta a percepirsi un intero. Mi piace guardarmi così, vivisezionarmi in un’immagine che mi rappresenta. E questa, davvero, rispecchia proprio la Barbara che sono: il naso a patata, quei geroglifici sulle guance che hanno scritto sul mio viso la lingua perduta della fanciullezza, quel leggero sovrapporsi dei miei denti in un sorriso che sembra quello di mia madre. Appena l’ho vista mi sono persa a contare le mie rughe, quasi a volermi convincere che , in fondo, questo è il mio tempo, quello dei primi bilanci, delle prime somme, delle prime, dolorose e angoscianti perdite. Con lo sguardo perso nei miei stessi occhi, mi concentro sulla mia solitudine, percepita in modo più chiaro e diretto in questo bilocale sulla laguna e mi chiedo come sia possibile che non riesca a interrompere questo apparente maleficio. Mi chiedo dove sia quella Barbara a lungo immaginata e sognata, mi chiedo dove sia quella figlia tanto desiderata, mi interrogo sui tanti propositi e i mille programmi che avevo ideato rispetto al mio domani. Un domani che è diventato un altro oggi. E mi chiedo come possa riconciliarmi con me stessa, come possa pacificare questa lotta tra i tempi del mio essere, che ho violentemente separato e reso incomunicabili. Stasera mi abbandono a questo ininterrotto soliloquio, mi interrogo affannosa alla ricerca di risposte che vadano a stanare quella porzione di coraggio che so essere sepolta sotto questa malinconia, cerco respiro in questa claustrofobia e capisco che devo imparare ad amare questa mia solitudine, a viverla senza sentirmi perennemente mutilata e recisa. Ne cerco la ricchezza nei miei viaggi, ne scovo la forza tra i miei ragazzi, ne rintraccio le infinite risorse negli obliqui rispecchiamenti con gli altri, ma questo non mi aiuta a sminuirne la durezza. E’ stato bello immaginarmi diversa, abbozzare l’immagine dei miei anni da adulta, vedermi e sentirmi madre, immaginarmi con la mia in una genealogia al femminile che tanto ho desiderato. Devo imparare ad amputare questo brandello di antica immaginazione ormai fossilizzatasi nella mia mente. E’ l’unico modo per salvarmi. E per amarmi un po’.

sabato 12 settembre 2009

In attesa del vino novello

Eccomi di nuovo a queste pagine, dopo un lungo ed inatteso silenzio. Forse l’atrofia estiva della mia scrittura è stata solo la traccia di due mesi di calda serenità, in cui ho lasciato che i miei pensieri non si rattrappissero in una pietrosa malinconia, ma si lasciassero trasportare dal caldo e allegro vento follonichese. Mesi di sincere amicizie, di piacevoli scoperte, mesi di inedita complicità con me stessa e con le mie emozioni. Oggi invece è piovuto e sembra che la mia anima abbia già sobbalzato a questo cambio di clima. Mi sento diversa, in questo giorni di metà settembre, percepisco la mia malinconia salire lentamente ad offuscare i miei giorni, a renderli polverosi, difficili da respirare. E torno a scrivere. Ho ancora sulle mie mani i segni della vendemmia di oggi, quelle macchie scure di acini strizzati che dovrò decidermi a cancellare con un po’ di candeggina. E vorrei poterci lavare anche la mia mente, nella speranza che si porti via tutti i pensieri di oggi, così affastellati l’uno sull’altro da non potersi neppure districare e, quindi, decifrare. Ho pensato a tutte le mie vendemmie, in quella terra così calpestata dai miei piedi di bambina e dai miei passi di adulta, ho respirato l’odore del mosto, ti ho ricordato aiutare mio padre in cantina, lamentarti della troppa stanchezza difficile da sopportare nella partita successiva. E ho visto mia madre apparecchiare per tutti gli amici che davano in prestito le loro schiene ricurve e le loro mani stanche e ne ho sentita, ancora più forte, ancora più violenta, la mancanza assoluta. Anche se è sabato decido di restare a casa, sento che non sarei di compagnia così appesantita da questa giornata. Ma prometto che domani affronterò la mia partenza per la laguna con entusiasmo e che aspetterò con il sorriso il vino novello.

sabato 11 luglio 2009

La morbidezza dei tuoi seni

Stasera sono preda del nomadismo delle idee. Fa caldo, fa tremendamente caldo. Il mio corpo affonda nel materasso e sembra ancora più pesante. Le immagini si affastellano nella mia mente l’una sull’altra, si ammucchiano, per poi spezzarsi, polverizzarsi. Non ho controllo alcuno sui miei pensieri, sono vittima di una battaglia sfiancante ed ho caldo, sono coperta di sudore. Ho bisogno di una doccia, di togliermi di dosso questo senso di umido soffocamento. Ho bisogno di qualcosa che concentri le mie energie e solo l’attenzione al corpo può allontanarmi dalla prepotenza della mente. Devo riprendere la mia zavorra di carne e sangue, ascoltarla con più attenzione. Forse la sto davvero usando solo come una tuta in cui ci sto dentro e che non mi appartiene. Devo ritornare al corpo, per salvarmi. Entro in bagno e accendo la luce. Mi spoglio e lascio che i vestiti scivolino via, ammucchiandosi sul pavimento. Mentre l’acqua scorre nella doccia e diventa tiepida, mi guardo. Guardo il mio viso, le mie mani che passano tra i capelli arruffati, la mia pelle finalmente ambrata dopo un po’ di mare. Un volto si sovrappone al mio, in maniera automatica, quasi istantanea (e istintiva). Sembra che mi sia dimenticata quello scroscio d’acqua che viene giù e che mi aspetta per dissetarmi e volo, come sempre, nello spazio vivo ed abitato di un ieri ormai lontano. Era bello quando si usciva la sera. Era bella quella mezz’ora nel bagno nelle sere d’estate in attesa di uscire. Era bello passarci la crema sulle spalle, sfiorando la nostra pelle con le dita e la nostra anima con le parole. Babbo si chiedeva sempre come due donne potessero prolungare così tanto il tempo, dilatando i minuti e rendendo insopportabile la sua attesa. Era bello truccarsi per esaltare la nostra bellezza, era bello scegliere l’ornamento più semplice per i nostri visi ed accorgersi, proiettate nello specchio di fronte, di come il passare del tempo rendesse le nostre fattezze sempre più affini. Era bello scoprire una sempre più marcata corrispondenza, nei lineamenti dei volti, nei tratti dei corpi, nella forma dei sorrisi. Solo il seno non mi hai regalato, tu così prosperosa e materna, io così esile e mascolina nelle forme del femminile. Quando ero adolescente e vivevo la mia magrezza come una menomazione, in quella giostra della vanità naturale a quell’età, prendevo il mio minuscolo seno tra le mani e sognavo che prendesse forma, crescendo al solo contatto e prendendo il profilo del tuo. Tu calmavi la mia insicurezza di fanciulla dicendomi che sarebbe cresciuto, che presto sarei fiorita nelle fattezze dell’adultità, che avrei assunto un aspetto materno e sensuale. E pensare che invece di vedere il mio crescere, ho visto il tuo asciugarsi di giorno in giorno, perdere la sua floridezza e richiamarmi, nel calore degli abbracci, a quella sentenza assassina che ti ha condannato. Chissà cosa hai sentito quando, per la prima volta, mi sono attaccata ai tuoi capezzoli e ho tirato forte. Chissà cosa hai provato quando mi hai accolto, quando sono affondata nella morbidezza dei tuoi seni, quando mi sono aggrappata a te come un cucciolo spaurito. Chissà se mi hai sentito quando ti ho restituito, ribaltando la generazione, i gesti materni con mani e baci di figlia. Chissà se in quell’abbraccio ti ho contraccambiato l’amore di questi anni. Mi guardo di nuovo, riflessa nello specchio, e ti vedo affiorare fra le rughe del mio viso. E’ bene che mi scaraventi sotto l’acqua della doccia e che raffreddi il mio corpo e i miei pensieri.

domenica 5 luglio 2009

Sulle note di Gabriel Yared

Si rompe l’avvolgibile della persiana e la tapparella viene scaraventata giù murandomi nella mia camera da letto, senza lasciare neppure uno spiraglio di aria notturna che rinfreschi la mia notte. Non resisto in quella stanza con quell’aria densa e soffocante. Mi sposto in sala, non so, forse stasera dormirò sul divano, per permettermi almeno di respirare. Nonostante siano quasi le due mi sembra ancora presto per dire addio a questa intensa giornata. Scrivo, torno a scrivere. Prima su un foglietto ingiallito che trovo sulla scrivania, poi dietro uno scontrino del fornaio, adesso qui, in questa pagina immaginaria. Accendo il computer e mi avvolgo nell’intensa melodia della musica di Gabriel Yared. Assaporo le emozioni di queste due piacevoli serate, in una Follonica così amata in questo periodo dell’anno. Penso ai miei piedi liberi dai sandali affondati nella sabbia fresca, ad una birra sorseggiata lentamente fra parole sbiascicate in compagnia, a quel mare piatto illuminato dalla luce notturna, a quel piccolo bar sul lungomare che sembra avermi riportato un po’ a me stessa. Stasera mi chiedo perchè io continui ad impormi delle camaleontiche metamorfosi che non so sopportare, stasera capisco il segno profondo di disagio ed estraneità che percepisco ad indossare certe maschere, a ricercare certe movenze che parlano di una Barbara che non sono io. Mi sento stasera, mi percepisco, mi appartengo. Stasera davvero non cambierei una virgola del mio viso, del mio corpo, del mio seno, delle mie mani, non indosserei altri abiti se non questi, non trasformerei le mie parole, il tono della mia voce, il mio modo di muovermi, di stare in mezzo agli altri. Ieri, spostandomi da Massa Marittima verso Grosseto, ho guidato lungo quella strada in mezzo alla campagna che accompagna le forme di un piccolo lago e che attraversa tortuosa i vigneti e i prati di questa Maremma per me ancora amara e tremendamente paludosa. Ho pensato che erano quasi vent’anni che non passavo di là. Mi appartengo nel riuscire a tratteggiare una linea immaginaria che lega la Barbara di oggi a quella di quegli anni. Mi appartengo perché non trasformerei una nota della mia melodia, da quelle più intense a quelle più stonate. Mi appartengo perché nell’immergermi nell’atmosfera ansiogena e magica degli esami di maturità ritorno con la mente a quel luglio del 1993 e scopro che ho disegnato un percorso lineare, uniforme e coerente pur nel suo essere intimamente contorto e attorcigliato su se stesso. Stasera assaporo il piacere del riconoscimento, il piacere del mio stesso rispecchiamento. Stasera sembra che percepisca l’esaurirsi di una fase convulsa che mi allontanava da me stessa e mi sento felice. E vedo mia madre, con l’espressione di enorme preoccupazione con cui l’ho percepita nell’ultimo sogno, in cui mi chiedeva ripetutamente di non piangere. Non ce la faccio a dormire sul divano. Ma forse non ce la faccio a dormire.

mercoledì 10 giugno 2009

Nella città del Tutto

Affronto gli ultimi giorni di scuola con le stesse altalenanti sensazioni degli ultimi anni, vivo la chiusura di questo anno scolastico con la mia solita abitudine nello stendere bilanci , con il mio istintivo sforzo di denudare la mia coscienza, scoprendo errori, passi falsi, cedimenti. Da questa appassionata lettura di me stessa emerge un anno vissuto al massimo dell’intensità, un anno di dolore immenso, ma di grande lavoro sulle mie debolezze e le mie emozioni. La mineralogia del pensiero a cui sempre mi sottopongo, il “sospetto” a cui consacro l’interpretazione del mio mondo, hanno regalato tesori. Una grande forza, un vivido entusiasmo per il mio lavoro, una coriacea fiducia nelle mie scelte passate, nelle mie partenze e nei miei abbandoni. Eppure ieri sera, mentre in macchina tornavo a casa, non riuscivo a cancellare un’ombra di amarezza e di insoddisfazione, un senso oscuro di incompletezza. Annaspo nel cercare una totale congruenza fra i miei propositi e le mie scelte, fra i miei desideri e le mie azioni, fra il copione che avevo steso per la mia recita e la messa in scena finale. Non riesco a vedere il tutto in cui vorrei immergermi, non riesco a dipingere il mio ritratto con tutti i colori che vorrei. Sento che mi sfuggono alcune sfumature e percepisco che la vittima delle riflessioni di stasera è il senso completo e appagante dell’integrità. Arrivata a casa dedico alcuni minuti a ripensare la lezione successiva ed anche qui registro il fallimento nella ricerca di una perfetta compiutezza, di una omogenea totalità. Tutti i fogli davanti a me, sparsi sul tavolo di cucina: devo scegliere che cosa spiegare domani, come concentrare in un’ora le mille informazioni che vorrei comunicare ai miei studenti, tutto mi sembra importante, ogni riga mi sembra degna di citazione, ogni censura mi appare un oltraggio. Capisco che c’è una sottile corrispondenza tra questo momento e quello appena passato, che il mio lavoro è metafora della mia vita, che c’è una profonda sintonia tra la Barbara donna e la Barbara insegnante. Vorrei sempre che non mi sfuggisse nulla, vorrei sempre non omettere neppure una frase, vorrei sempre non cancellare neppure una virgola. Volendo sempre un tutto, un’uniforme pienezza, vivo ogni sottrazione e ogni mancanza con senso di sconfitta e di disagio. Con questi pensieri che affollano la mia mente ad un’ora inoltrata, prendo tra le mani un saggio di Sigmund Freud per l’ultima lezione di filosofia e leggo tra le fitte righe: “la sola interpretazione sicura è dunque l’incompletezza”. Non c’è un libro che non contenga una frase scritta apposta per me, non c’è libro che non abbia anche un minimo rimando alle mie angosce e alle mie domande. Devo arrendermi, devo cedere alla parzialità e all’incompiutezza. E, ancora tra i libri, riprendo in mano una frase di Calvino di cui parlavo qualche sera fa, quando queste riflessioni trovavano eco in quelle altrui:

“Dunque pure nella città del Tutto si è ammessi soltanto attraverso una scelta e un rifiuto, accettando una parte e rinunciando al resto?” Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati

sabato 6 giugno 2009

Koyaanisqatsi - Life out of Balance



In attesa di salire su un treno per Pisa, mi concedo un pomeriggio all'insegna del mio passato e della mia adolescenza. Sprofondo nel divano con la mia inseparabile amica emicrania e mi immergo nelle immagini del meraviglioso "Koyaanisqatsi" di Godfrey Reggio, accompagnata dalla colonna sonora, davvero inimitabile, di Philp Glass. Quando apparve in Italia, nel 1983, io avevo appena nove anni, ma più tardi, negli anni del liceo, questo film-documenatario dovette inaugurare il mio immenso amore per il cinema, amore che ancora scaldo e conservo, nonostante questa piccola città di provincia mi condanni a non frequentare assiduamente le sale cinematografiche. Devo a Lapo questa scoperta e, ancora oggi, dopo quasi vent'anni, ancora lo ringrazio. E' meraviglioso "Koyaanisqatsi", davvero un piccolo capolavoro. Forse dovrei utilizzarlo a scuola, magari spiegando Bacone e il suo progetto di renderci padroni della natura, oppure spiegando Hans Jonas e la sua etica della responsabilità. Che bel pomeriggio, se non lo avete visto, correte ai ripari. Io, intanto, me ne vado a votare.

"...Bacone ha saputo cogliere esattamente l'animus della scienza successiva. Il felice connubio, a cui egli pensa, fra l'intelletto umano e la natura delle cose, è di tipo patriarcale: l'intelletto che vince la superstizione deve comandare alla natura disincantata. Il sapere, che è potere, non conosce limiti, nè nell'asservimento delle creature, nè nella sua docile acquiescienza ai signori del mondo...ciò che gli uomini vogliono apprendere dalla natura, è come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini. Non c'è altro che tenga"
Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo

giovedì 4 giugno 2009

Consacrazioni

Modulo parole da anni, mi concedo piacevoli immersioni nella mia scrittura, lascio decantare le mie emozioni per poi osservare il residuo intricato dei miei lemmi rimasti sullo sfondo, compongo musiche scordate con la mia voce, convinta, come sono, che tutto viva solo attraverso e nel linguaggio. Riprendo tra le mani l’heideggeriano “Unterwegs zur Sprache” (“In cammino verso il linguaggio”) e cerco di farmi strada nei suoi sentieri intricati, oltre che “interrotti”. Cerco ristoro nel significato profondo di quest’opera, senza dubbio una tra le più ispirate, non solo dello stesso Heidegger, ma di tutta la letteratura filosofica contemporanea. “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”, recita un verso di poesia citato da Heidegger ed io, immersa in questo scritto, penso a quanto sia violento il silenzio, quanto siano innaturali le parole strozzate e non pronunciate, quanto sia prepotente serrare le labbra in un arbitrario mutismo. Così in fuga dai miei fantasmi cerco riparo nella mia scrittura, cercando di tradurre l’indicibile, di smascherare le menzogne recitate in primo luogo a me stessa, di costringermi a dare luce ai miei silenzi, di condannarmi a fare luce sui miei abissi, convinta (heideggerianamente) che l’essere si manifesti solo nel, e attraverso, il linguaggio e i suoi accordi. Mi piacerebbe che tutti si consacrassero a questa religione della parola. Non ti sbagliare, non ti lasciare abbagliare da un fatale errore di prospettiva: l’eroe di cui cantare le gesta, questa volta, è lei che ha scritto quello che ha scritto, non chi fugge senza neppure una parola di congedo.

“L’amore parla molto, è un discorso. Si dichiara, e spesso culmina in questa dichiarazione in cui finisce: atto linguistico altamente ambiguo, quasi indecente” (J. Baudrillard, Le strategie fatali).

sabato 30 maggio 2009

Pari opportunità modello Carfagna



Oggi a Napoli giornata di gaypride. Il solito movimento festoso e colorato degli omosessuali di questo paese, in piazza per non nascondersi, per esporsi, per chiedere diritti e riconoscimento. Ripenso al mio gaypride 2008, a Roma, mano nella mano con Riccardo. Pur essendo eterosessuale quando posso mi unisco al gruppo, per far percepire loro il mio senso di vicinanza e per far capire a questo paese che non mi riconosco nella sua violenza, nella sua abituale prepotenza, nel suo voler indicare un modello esistenziale a cui tutti debbano, nolens volens, adattarsi. La loro legge diventa la mia legge, la loro morale diventa la mia morale, le loro scelte diventano le mie scelte. Alcuni anni fa noi poveri elettori di centro-sinistra ci eravamo illusi che anche per noi fosse arrivato il momento di goderci uno Zapatero nostrano. Grandi speranze, grandi illusioni, grande fiducia, la convinzione che presto avremmo vissuto un tempo inedito di “felicità pubblica”, in grado di dare forza e orgoglio a questo paese e di tradurre in pratica programmi di trasformazione capaci di incidere, in modo profondo e magari duraturo, sulla struttura di questo paese. Programmi di trasformazione che avrebbero condizionato non solo il nostro fare politica, ma anche il nostro modo di vivere e di pensare, platonicamente convinti che la trasformazione degli spazi della polis sia impossibile se non supportata da un cambiamento di weltanschaung e di prospettiva culturale. Penso al percorso parlamentare della legge sulle unioni di fatto, su cui tanto si è parlato (e sparlato) negli anni precedenti. Approvare quella legge sarebbe stato un segnale chiaro e inequivocabile di una netta virata, di un cambiamento di rotta. Niente, non ce l’abbiamo fatta. Per responsabilità di molti, per vigliaccheria di tanti. Ma il peggio deve ancora venire, al peggio non c’è mai fine. Il peggio è la sostituzione, con la caduta del governo Prodi e la vittoria di Berlusconi, della ministra Pollastrini con la sua collega Carfagna, che non ha mai fatto mistero di non considerare la questioni dei diritti delle coppie omosessuali una priorità della sua linea ministeriale. Non ho ancora deciso per chi voterò alle prossime elezioni europee. Quindi non parlo per convincere nessuno, ma solo per registrare, ancora una volta, l'ennesima virata a destra che conferma la mia convinzione della profonda distanza tra questo paese e molti che come me, pur abitandolo con immenso amore, iniziano a percepire una sempre maggiore estraneità alla sua sub-cultura, ormai interiorizzata da molti. Spesso mi vergogno di essere italiana, spesso vorrei vivere altrove, spesso rifiuto la mia appartenenza ad un paese senza memoria, senza storia, che ha fatto dell’arroganza, della supponenza e dell’apparenza le cifre del suo essere. Spesso vorrei cambiare mestiere, perché sono stanca di sentirmi una povera Penelope al lavoro di una tessitura pregiata, quella dei valori che cerco di trasmettere ai miei ragazzi, cui periodicamente disfanno la tela in questa sagra della massificazione che spersonalizza i miei ragazzi, sfibrando le loro intelligenze e paralizzando le loro energie. Così apprendo che il 14 maggio il ministero delle Pari opportunità ha presentato la sua nuova pagina web. Bene, direte voi, dov’è la notizia? La notizia è che, rispetto alla versione precedente, è stato cancellato ogni riferimento all’omofobia. Mara Carfagna ha anche deciso di eliminare una commissione per le persone GLBT (gay, lesbiche, bisessuali e transgender) istituita dal suo predecessore. “Non è ritenuta una priorità”: questa la giustificazione del ministero. Sì, non è una priorità. Cosa vuole questo esercito di froci? Così, in questo paese, quando si affronta il delicato e centrale tema della discriminazione, nessuna parola è spesa per i gay. Nessuna parola per chi, quotidianamente, cerca di costruire la propria vita affettiva contro gli stereotipi e i pregiudizi, talmente esasperati in questo povero paese da giungere al limite della violenza. Nessuna parola per chi cerca di difendere la sua personalità, la sua intima sessualità dalla presunzione di verità e dall’insolenza di molti, presunzione ed insolenza che nascondono solo una sedimentata e profonda ignoranza. Se non fosse stata Napoli la città del gay pride, sarei scesa per le strade a fischiare. Ma sono a casa e scrivo…e riprendo fra le mani i libri tanto amati di David Leavitt. Forse ne metto qualcuno in un pacco e li spedisco alla “bella Mara”…che non saprà nemmeno chi sia questo “culattone” americano che, tra l’altro, ha scritto anche un libro sulla mia terra, la mia adorata Maremma di cui prometto che parlerò nel prossimo post.

mercoledì 27 maggio 2009

Cagliari, maggio 2009

L’ultima volta che sono stata a Piombino è quando i genitori di Riccardo sono tornati dall’isola d’Elba. C’era anche mia madre con noi in quell’occasione, sempre sorridente nonostante la malattia e la nera signora alle porte. Durante il viaggio, come mille altre volte, parlo a Riccardo di quella città, del suo significato nella mia vita, del suo ruolo di simbolo per la mia e per la nostra storia. La storia di una famiglia, come tante altre. La storia di una famiglia operaia che ha costruito il futuro di una figlia sulle spalle e le mani di un padre che scendeva, ogni santo giorno, in quel cono d’ombra infuocato, polveroso, nauseante, convinto che il suo sforzo avrebbe generato un progresso e un riscatto. Gli operai non ci tengono che i loro figli replichino il loro destino e forse anche quei giovani operai mentre si calavano a pulire quei serbatoi pensavano che i loro sforzi sarebbero serviti a regalare un altro destino ai propri figli. Quando guardo le mani di mio padre mi concentro sulla loro forza e ruvidezza. Sono mani belle, tarlate dal lavoro, forti, spesse. Poi guardo le mie: le unghie ben curate, una callosità che segna un eccessivo uso della penna, la pelle morbida, liscia, addolcita dalla crema. Osservo le mie dita che hanno evitato di portare su di sé la pesantezza di un lavoro manuale e che si sono allenate solo a digitare su questa tastiera, per scrivere la mia tesi, per pubblicare il mio libro, per preparare le lezioni ai miei ragazzi, per esprimere le mie emozioni. Le mie mani hanno avuto la fortuna di essere state addolcite solo dalle carezze e di non essere state invecchiate dallo sforzo. Ma stasera, mentre le osservo, è come se le vedessi trasformare nelle sue. E’ come se il mio sguardo allucinatorio ingrandisse le dita, allargasse il palmo, raggrinzisse il dorso. Perché la loro delicatezza nasconde la ruvidezza di quelle paterne e la stanchezza del suo mestiere. Perché oggi il sentirmi una privilegiata nell’usare la testa invece che le mani per guadagnarmi da vivere, non mi impedisce di sentirmi figlia di quella storia, di volere appiccicati addosso i vestiti di fabbrica di mio padre, di vedere le sue mani nelle mie. E di sentire la mia anima squarciarsi ancora una volta di fronte a quelle morti, accatastate l’una sull’altra nel tentativo di strappare un compagno ad una fine sicura. Stasera i miei pensieri sono per Pierluigi, Bruno, Daniele e le loro famiglie, le mie emozioni sono accordate sul loro dolore e sul loro lutto, sulla fierezza di venire da lì e di sentirmici attaccata nonostante io non abbia nessun segno visibile di questa storia.

“Hai conservato a lungo un corpo teso, veloce. E’ frutto del lavoro manuale, anche se il termine non è esatto, non è nelle mani la fatica. Preferisco chiamarlo lavoro dorsale, è lì che si accumula lo sforzo. Alla sera nel letto risento sulle costole i quintali che mi sono passati addosso. Le mani non penano a lavoro, ma una schiena che è rimasta china o sotto carico tutto il giorno è solo un fascio di nervi indolenziti. Perciò li chiamo lavori dorsali. Con gli anni la cadenza della fatica è entrata nel sangue, la vena batte i colpi necessari, il corpo si conforma allo sforzo regolare. In quelle ore riesco ad accogliere pensieri, c’è un tempo per loro sotto il respiro corto, sotto il sudore. Passano parole in viaggio, appunti che trattengo a mente e mi fanno compagnia. D’improvviso sul cantiere un operaio sotto un lavoro intenso attacca un canto, un’allegria impossibile. E’ lo sfiato di un pensiero uscito dai colpi regolari, mentre spala macerie o attacca calce con il colpo rapido del polso….”
Erri De Luca, Aceto, arcobaleno

sabato 23 maggio 2009

Macaroni.....io vi distruggo.....



Sono mesi in cui sono tornata a respirare dopo emicranie soffocanti. Quasi vent'anni di convivenza con questa malattia, perchè di questo si tratta, ha certo reso le mie acute crisi di mal di testa familiari, ma non certo sopportabili. Dopo infiniti tentativi di terapia preventiva secondo i classici canali dei vari "centri cefalee" sparsi in giro, decido, quasi dieci anni fa, di sperimentare terapie alternative e mi affido ad una dottoressa tedesca-fiorentina di cui hanno lodato capacità e bravura (con quello che chiede....). Dopo pochi mesi abbandono la mia iniziale titubanza verso omeopatia, ayurvedica e compagnia bella: sto bene, sto benissimo, non ho mai mal di testa. Lei sostiene che la dieta è il primo passo per la mia salute, lei mi invita a cambiare completamente le mie abitudini alimentari e mi "condanna" ad un regime alimentare rigidissimo, ma provvidenziale. Dopo un processo di un’ora teso a stabilire la gravità delle mie colpe al tavolino, arriva una sentenza spietata ed implacabile: niente caffè, niente vino, niente latticini, niente carne di maiale (addio prosciutto, mortadella, pancetta, finocchiona, salame toscano!!!!!!), niente carne rossa, niente olio cotto, niente pasta e pane bianco. Che resta, chiederete voi? La dieta Kousmine, il nome della mia condanna. Mattina colazione complicatissima: una crema Budwig (cereali integrali macinati crudi con semi oleosi, frutta a piacere, olio di semi di lino, yogurt - di soia, ovviamente) che mi costringe ad alzarmi all’alba per permettermi di prendere il treno alle sette; cereali integrali almeno ad un pasto, pesce, legumi, tofu, tanta tanta verdura, pane di segale, farro, grano integrale…Aggiustata con qualche sano principio di macrobiotica, la mia dieta è pronta. Ogni volta mi illudo che il problema non sia quello e ricomincio a mangiare: a godermi qualche caffè appena arrivata a scuola, a concedermi qualche vizio. Il mal di testa non arriva e quindi faccio di uno strappo alla regola la normalità. Non riesco a controllarmi. Una settimana, dieci giorni e ritorna il mal di testa, inchiodandomi a letto per mesi. Così adesso, dopo un terribile mese di aprile, decido di agire con responsabilità e sono di nuovo a dieta strettissima. Emicrania scomparsa, salute di ferro. Riprendo a studiare, ricomincio a correre. Respiro. Vivo. Cerco di resistere, proseguo la mia astinenza da ex caffeinomane e mi lascio andare solo a qualche sporadico stravizio, una fetta di dolce, un gelato il sabato sera. Ma stamani mi sono svegliata con una gran voglia di spaghetti alla carbonara, con tutti i pezzettini di pancetta cotti nell’olio più fritto che c’è e mi è venuta in mente questa scena. Ma sono certa che se a Bice dessi la crema Budwig, o il tofu, come consiglia Albertone (“questo o damo ar gatto”), ci sarebbe un ammutinamento. Lei che è abituata ai soli croccantini…..

mercoledì 13 maggio 2009

Cicatrici

Riesco a riemergere dopo un mese di lungo e inaspettato silenzio. Scrivo solo adesso, dopo aver seguito con amorevoli cure la cicatrizzazione di una ferita tanto profonda, quanto inaspettata. Evidentemente dovevo aggiungere anche questo dolore al lutto immenso e devastante per la morte di mia madre. "La vendetta è un piatto che va servito freddo", mi dicevi più di dieci anni fa. A me invece è scesa nelle viscere come un fuoco bollente e ancora mi brucia lo stomaco. Chissà se leggi ancora queste pagine. A volte mi viene in mente che adesso potrebbe essere il mio turno, nel gioco assassino delle continue ritorsioni. Ma sono pensieri che mi sfiorano appena, solo per addolcire la rabbia che ha stritolato i miei giorni.
Giorni intensi, quelli passati. Giorni di grande stanchezza, per un pendolarismo quotidiano che ha cominciato ad essere insopportabile dopo un anno trascorso ad accumulare chilometri, giorni inchiodata alla scrivania per la stesura di un capitolo per un manuale di filosofia che mi impegnerà fino alla fine del mese. Giorni di sole, finalmente. Un sole caldo, avvolgente, che scalda la mia anima dopo un inverno umido come i miei giorni. Prometto che tornerò a scrivere, prometto che tornerò a leggervi (eppena finito Heidegger e compagni...), prometto che tornerò a respirare di nuovo futuro, prometto ai miei ragazzi che li accompagnerò con tutte le mie energie verso questo esame di maturità che tanto li terrorizza e prometto (a te) che mai chiederò "vendette", perchè mai riuscirei a farti del male. E so che lo sai, purtroppo.

sabato 18 aprile 2009

Il prezzo dell'adultità

Inconsapevolmente immersa, per tanti, troppi anni, nel mare in tempesta dell'adolescenza, approdo sulla riva dell'adultità e mi sento totalmente sperduta, incapace a perlustrare il territorio sconosciuto su cui mi sembra di essere sbarcata dopo tante fatiche. Penso ad Aristotele e al suo naufrago che si trova costretto ad abbandonare il carico, per quanto prezioso, pur di sopravvivere alla tempesta e pur di giungere, sano e salvo, alla riva, assaporando, nel tempo stesso, l'entusiasmo della salvezza e l'angoscia della perdita.
Ho perso il carico dei miei sogni in questa traversata, lasciando in balia dei flutti immagini, proiezioni, sogni, desideri, figure indistinte e illanguidite di persone, amate per un tempo idenfinito, messe a fuoco sotto la lente dissacrante dell'autenticità. Mi guardo indietro e vedo il bozzolo che ho lasciato per diventare farfalla, e mi osservo, con queste ali ancora bagnate in un procedere incerto, in questo vollo goffo e traballante, verso una dimensione del mio essere tanto desiderata ma con cui stento a prendere confidenza. Guardandomi indietro vedo un rosario di sogni interrotti, provo a dirigere la vista in avanti, verso un futuro opaco e indefinito e vedo una Barbara sconosciuta, mai pensata, mai immaginata ma che devo abituarmi a conoscere, perchè è lei, e lei sola, la protagonista del viaggio.

venerdì 10 aprile 2009

Siamo tutti abruzzesi



Sono tornata dalla Grecia e, dopo giorni di allegria e spensieratezza, torno a confrontarmi da vicino con il lutto profondo e intenso per la morte di mia madre. Saluto questo rientro a casa con gli odiosi fogli della successione, in quell'ufficio che l'ha ospitata per anni e in cui era solita darmi la benvenuta dietro quella scrivania con quell'espressione indimenticabile. Qualcuno mi saluta riconoscendo nelle mie espressioni i suoi sorrisi, rintracciando nei miei lineamenti il segno indelebile di un'appartenenza, di una genealogia incancellabile e la cosa mi riempie di gioia, quella della fierezza di portare sul mio volto i suoi segni, di incorniciare nel mio viso il suo splendido sorriso. Mi lascio sopraffare da una naturale commozione, tra quei volti amici che, affettuosamente, mi vengono incontro come a voler salutare, in me, lei, lei che ha lasciato, fin dal trauma della nascita, la narrazione di un legame che nessuna vecchiaia e nessuna ruga riusciranno a cancellare e che chiunque l'abbia conosciuta, nonché io stessa, riconoscerà fino all'ultimo dei miei giorni.
Arrivata a casa mi immergo nel dolore abruzzese, che oggi è davvero quello di tutti e scorgo nei segni del lutto degli altri quelli del mio. Vorrei fare come mio padre, che ha deciso di spegnere la televisione perchè incapace a vedere altre lacrime, perchè il dolore altrui non fa che esasperare il proprio. Io scelgo invece nel silenzio della condivisione il tentativo di superare il mio strazio, credo che la capacità empatica di simpatizzare con il lutto altrui sia uno sbriciolare la sofferenza e non riesco, in questo momento, a non sentirmi coinquilina con quell'autentica disperazione. Nel silenzio delle mie stanze, accompagnata dalle immagini di quelle duecentocinque bare che avanzano sullo schermo, rimastico un dolore freschissimo, ritorno alla sorgente del mio pianto e mi ribello a tutta questa afflizione, tacendo, come soffocata da una condanna, quella dell'incomprensione e dell'incapacità di scorgere la mano di Dio che ti afferra e ti libera da tutta questa sofferenza. Il mio silenzio è un silenzio che non ha risposta, il mio urlo di dolore non accoglie nessun eco divino, il Giobbe della mia anima impreca contro la terra che si apre sotto i nostri passi e cerca solo negli uomini il riparo al suo tormento. Penso a questo terremoto, penso alle parole di cordoglio e solidarietà che in quella birreria, in un inglese ostentato, quel barista ateniese ci ha rivolto con le lacrime agli occhi, penso alle madri che piangono i figli e ai figli che piangono le madri e resto in attesa che il silenzio della mia anima si squarci e il suo spazio si illumini di nuova luce. Mi lascio all'ascolto di una scrittura umana, sebbene laicamente attraversata dal divino, e sprofondo nelle pagine di Erri de Luca, sempre così presenti e illuminanti.

“Nessuna generazione del Mediterraneo è rimasta priva dell'esperienza di un terremoto. Perfino Nerone, dilettante in poesia, tentò di descriverlo in un gesto non del tutto goffo: sub terris tonuisse putes, sotto le terre crederesti che stesse tuonando. Più si è meridionali e più si è ballata la tarantella del sottosuolo. [...] Così c'ero anch'io quella domenica d'autunno del 1980, quando il golfo si mise a vibrare all'unisono e in molti ci affrettammo giù per le scale. Durò più di un minuto la scossa. Durante quel tempo ognuno provò la vertigine di una perdita di equilibrio, un bisogno di reggersi per non cadere, un'ubriacatura da sobri. Le scritture sacre conoscono i terremoti. Come al solito, decisivo è Isaia, il più grande poeta sismico del Mediterraneo che insieme al senso cerca di afferrare il suono: raà hitroaà (schiantare si è schiantata) la terra, por hitporerà (rompere si è rotta), mot hitmotetà (barcollare ha barcollato) e poi: 'vacillare, vacillerà terra come un ubriaco' (24, 19-20). Ecco: non noi, pulci del suolo, eravamo ubriachi, ma la terra, per chissà quale vino bollente tracannato per collera” (Erri de Luca, Alzaia).

martedì 7 aprile 2009

Notizie dalla Grecia

Appena rientrata in albergo, assaporo le emozioni di questa nuova giornata in gita scolastica. Lascio decantare le plurali sensazioni di oggi, le arrabbiature, vere o presunte, le risate, l'affetto, davvero rafforzato in questi giorni di Grecia, per i miei studenti. La titubanza della vigilia si e' trasformata, in poche ore, nel piacere forte e stabile di aver accompagnato le mie classi in questo viaggio e nella sorpresa di aver riconosciuto, nei miei studenti, dei ragazzi sinceri, istintivi, pieni di energia e di sventatezza, ma anche illuminati da una pallida adultita' che si sta facendo strada nei loro giovani anni. Nella mente un continuo rimbombare di frasi, un frastuono di risate, una ragnatela di sensazioni, un innato indietreggiare alle mie giornate di scuola. Stasera un pensiero va a chi abbiamo lasciato sulla laguna e anche alla giornata di domani. Ci aspettano sei noise ore di pulmann per Delfi. A parte l'emozione, tutta filosofica, di visitare il luogo dell'oracolo che defini' Socrate "l'uomo piu' sapiente", spero che non ci siano solo sassi, anche perche' temo che i miei studenti sviluppino presto un insano istinto alla lapidazione....Ci sentiamo al mio ritorno.

venerdì 27 marzo 2009

Sia fatta la (vostra) volontà


Come ogni venerdì, alla terza ora, mi dedico al ricevimento dei genitori. Arriva la mamma di Ginevra e quasi mi commuove, chiedendomi, come se dipendesse da me, di non lasciare questa scuola e quindi sua figlia, che ha trovato nella filosofia motivo di stimolo e riflessione. Che bello, queste cose mi fanno dimenticare tutto il malessere in cui mi sono avviluppata, quella rete di preoccupazioni in cui mi sono lasciata sequestrare, molte delle quali costruite abilmente con le mie stesse mani. E' una mamma con cui mi piace parlare: sincera, disponibile, disposta all'ascolto e al confronto e, soprattutto, contenta che le questioni di genere trovino finalmente cittadinanza in una scuola in cui di donne si parla pochissimo, nonostante la marcata femminilizzazione del corpo insegnante. Mi racconta che ha visto “Vogliamo anche le rose” insieme alla figlia e al marito e mi ringrazia di averne parlato in classe, aggiungendo che Ginevra ha una voglia matta di andarsene da questo paese e di studiare all'estero.
Cominciamo a parlare di politica e scopro che alcuni ragazzi si lamentano della mia scarsa neutralità, richiamandomi a riflettere su una questione a cui spesso sfuggo e mi sottraggo, per non trovarmi costretta a cambiare atteggiamento, cosa che so non mi riuscirebbe. Incapace a non espormi, ho scelto la sincerità, convinta che i miei studenti debbano sapere il mio punto di vista, per non restare erroneamente abbagliati da una falsa neutralità. Convinta che sarebbe estremamente scorretto passare le mie interpretazioni dei fatti come il modo naturale, oggettivo ed ovvio di leggere le cose, preferisco prendere posizione ed espormi, magari condannandomi a dibattiti estenuanti. Forse mi sbaglio, e penso alla lezione di stamani sulla Controriforma e il Concilio di Trento, penso alle mie parole su quell'“eretico ostinatissimo”, quel Giordano Bruno, “abrugiato vivo” in una piazza romana, mentre in Inghilterra il dibattito culturale stava per regalare i capolavori del Seicento. Mi chiedo se abbia o meno sbagliato e mi rendo conto, adesso a tu per tu con me stessa, che il mio sforzo era non solo la volontà di far capire loro il passato, ma anche il tentativo di far loro tradurre, con le lenti della storia, le tante cose incomprensibili di questo nostro paese, così barbaro, così oscurantista, così violento, così arrogante, così prepotente. Sento che adesso non posso che fare così, che cercare di aprire una breccia nelle loro teste lobotomizzate da anni di berlusconismo, per dare un senso di dignità al mio lavoro, per difendermi da tale ostentata supponenza. Forse sto superando il fosso che mi separa da loro, forse sto abbandonando la neutra imparzialità che dovrebbe contraddistinguere il mio lavoro, forse mi sto attribuendo compiti che non ho. E allora loro che fanno, che mi stanno strappando il diritto di scegliere, che stanno sequestrando la mia libertà di scelta, che stanno trasformando una parziale moralità, del tutto discutibile, nella volontà generale che, rousseauianamente, sta alla base delle
leggi? Sono loro che mi hanno portato in guerra, costringendomi a rinunciare al silenzio pacifico della mia coscienza, perchè a questa hanno tolto spazio, hanno tolto dignità, hanno tolto il senso. Spero che Ginevra se ne vada davvero, che abbia la forza di lasciare questo mare, questa laguna incantevole, magari per rinchiudersi al freddo e al grigiore di una città europea, ma dove sia libera di scegliere, anche come morire.

martedì 17 marzo 2009

Voce del verbo "pienare"

Tutti quelli che mi conoscono bene lo sanno. Sanno quanto sia innamorata dei miei studenti, quanto grande sia l'affetto che mi lega a loro, dai più bravi a quelli più svogliati. Sono loro, nel bene e nel male, sono i miei ragazzi. E per quanto a noi adulti piaccia lamentarci di loro, con le solite frasi del tipo “non ci sono più i giovani di una volta”, loro ci sorprendono sempre e si dimostrano migliori di quanta sciocca semplificazione voglia farci credere. Ci sorprendono, anche qui, nel bene e nel male. Il giorno del funerale di mia madre, appena scesa dall'auto che mi portava in chiesa dall'ospedale di Grosseto, il mio sguardo, come ipnotizzato da quel carro funebre e da quella bara che sapevo essere la sua, si è subito spostato verso di loro che, senza conoscere la mia mamma, né averla mai vista, si sono digeriti duecento chilometri per venire a darle l'ultimo saluto e per regalarmi un abbraccio sincero. Tornata a scuola li ho ringraziati per la loro sentita e profonda vicinanza, sia quella dei corpi che quella dei pensieri, meno immediata ma non per questo meno profonda. Capisco che questo è stato un momento in cui lo steccato necessario dei ruoli nei quali ognuno di noi è sempre ingabbiato debba frantumarsi sotto il peso dei sentimenti ed in cui, finalmente liberi, si dia respiro e voce al non-detto. Così i miei “bimbi”, come amo chiamarli io, hanno addolcito la giornata più dolorosa della mia vita, così i miei studenti, con la loro presenza e la loro vicinanza, sono stati punti di sutura ad una ferita profonda e il loro affetto sincero è ancora oggi un balsamo che lenisce e rassicura, che scalda e sostiene, forse il farmaco più efficace ad un dolore come questo.
Sorprendono sempre, nel bene e nel male. Sconcertano a volte con la loro innata incapacità alla concentrazione, con la loro assenza di collaborazione, con la loro difficoltà a capire quando è arrivato il momento di dare qualcosa, anziché star sempre lì a prendere come piovre. Stupiscono con le loro esclamazioni, con il loro continuo “prof. può spostare l'interrogazione?”, con i loro sbadigli, con quell'aria carica di alitate di nicotina, con quei ritardi continui, con quella paura cronica di fronte a qualsiasi prova. Bisogna farci l'abitudine, se si vuol sopravvivere. I miei “bimbi” sono anche questo (e a volte penso che, alcuni di loro, con i genitori che si ritrovano, sono pure troppo....).
Sorprendono, come stamani. Registro, ancora una volta, la loro completa incapacità ad ascoltare le interrogazioni dei compagni, segno davvero di scarsa furbizia e intelligenza, visto che io, come tutti gli altri insegnanti, mi ripeto sempre nelle solite domande, replicate talmente tante volte che persino le zanzare della laguna di Orbetello conoscono il procedimento della dialettica hegeliana. Vabbè, non gli entra in testa....“non c'è verso”, come dicono loro. Se ne stanno penzoloni sui banchi, a masticare caramelle, a rollare la sigaretta (speriamo....) per la pausa successiva, a copiare la versione di greco, a brontolare fra loro. E poi, come stamani, si lasciano a queste meravigliose regressioni all'infanzia e tornano, inconsapevoli, alla quinta elementare, in una zona grigia e indefinita in cui tu, povero insegnante, non capisci se hai a che fare con adulti o con cavernicoli abbrutiti. Così stamani i miei ragazzi di seconda, mentre io interrogavo quattro fanciulle su Galileo e Cartesio, si sono eclissati, si sono mentalmente allontanati dalla classe, e Carlo Maria, Samuele, Simone e Carlo Alberto (insomma, sempre i “magnifici quattro”) si sono messi a fare le palline di carta da tirarsi con l'involucro della penna bic, superandosi in capacità di mirare il bersaglio. E quelle palline, abilmente indirizzate e scendendo miracolosamente dal colletto verso la schiena,
andavano ad infilarsi nel maglione di Carlo Maria che, dopo dieci minuti di “battaglia della cerbottana”, ha cominciato ad essere insofferente a questa indebita violenza e a dare segni di escandescenza, muovendosi convulso sul banco, grattandosi a ritmo costante, sbuffando verso i compagni. Stanca di questo continuo mormorio, ho cominciato ad alzare la voce, a chiedere silenzio, ad esigere rispetto per le compagne interrogate. E così Carlo Maria, nel goffo tentativo di giustificare la sua scarsa disciplina, mi ha guardato con occhi imploranti perdono e mi ha detto: “Lo so, scusi prof. ma mi hanno pienato il maglione di pippoli”. “Pienato”: voce del verbo “pienare”. Oddio mi sento male.

domenica 8 marzo 2009

Il 9 marzo



Mi lascio ubriacare dalla melassa di parole sulla ricorrenza di oggi. Si fa un gran parlare di donne l'8 marzo, tutti si rincorrono nella valorizzazione delle potenzialità femminili, sulla nostra forza e capacità, sulla ricchezza delle nostre esperienze singole e collettive. La mattina però, di tutti i santi giorni dell'anno scolastico, mi sforzo di far percepire alle mie alunne di quanto sia difficile vivere in un mondo fatto e pensato da – e per – gli uomini, liberarsi dalle ragnatele dei loro significati e significanti, di quanto sia erta la salita alla realizzazione in un paese come questo, dove gli spazi pubblici sono monopolizzati dalla loro invadente presenza. Ogni volta vivo titanici sforzi a far comprendere loro come il problema della violenza, che perennemente pesa come una spada di Damocle sui loro/nostri corpi, sia il frutto di una cultura maschilista che viola la nostra integrità di donne, inchiodandoci ad un ontologismo biologico, ad un destino determinato da un'anatomia funzionale a strategie di potere, riducendoci a un fascio di carne e nervi attorno a una fessura. Ed ogni volta è tremendamente snervante ritrovarsi a parlare con loro solo delle migliori tette rifatte, della migliore minigonna, della scarpe più audaci in vista di una probabile seduzione. Stasera orde di donne si accalcheranno in pizzerie, ristoranti e locali goliardici, replicanti del peggio del peggio del machismo all'italiana, frutto di un'omologazione che offende la nostra dignità e oltraggia la nostra differenza.Oggi, per questa festa, stanca morta dopo un weekend pisano, mi gusto per la seconda volta (o terza? Non l'ho visto anche con Riccardo???) quel gioiello di “Vogliamo anche le rose” di Alina Marazzi, davvero un bel film documentario da vedere (e rivedere), soprattutto per chi, come noi bambine degli anni Settanta, è spesso vittima di una pericolosa amnesia su quegli anni di lotte e trasformazioni, imbambolate dall'individualismo degli anni Ottanta che sembrava aver liquidato (nel DriveIn e simili???) il senso trasformativo degli anni precedenti. Proprio un bel film, da vedere con attenzione e impegno, per ricostruire un legame con un passato che ci appartiene, nonostante l'oblio. Forse un po' pesante per i i miei ragazzi e le mie ragazze, a cui ho consigliato di vederlo durante un'assemblea di istituto: dicono che hanno fatto fatica ad orientarsi tra i tre diari e le tre storie che costruiscono l'ossatura dell'opera, ma dicono anche che è stato pungolo ad ulteriori riflessioni, nonché violente discussioni. Così ripenso alle ragazze della mia generazione, anche noi così convinte che le donne avessero già detto tutto quello che c'era da dire e che il loro impegno avesse lasciato sul terreno solo un cumulo di cenere dopo un grosso incendio. E rifletto anche sulla Barbara adolescente, la cui cultura politica, per quanto precoce e salda, non si è mai saldata con quello che, in futuro, avrebbe rappresentato il suo primario, se non esclusivo, interesse di donna e di eterna studente: il movimento delle donne, la sua storia, la sua plurale ed arborea definizione. Mi tornano alla mente le pagine lette qualche settimana fa, quando, quasi a voler riannodare le fila di riflessioni passate, mi sono presa tra le mani i testi di Carla Lonzi, e mi sono di nuovo immersa, dopo tanti anni, nelle sue parole così dissacranti e spesso crudeli, in grado di operare in me una dissezione di sentimenti, paure ed emozioni. Così ci appare chiaro che, ancora una volta, viviamo schiave di un errore di prospettiva: assorbiamo acriticamente le regole di una roccaforte, sociale, economica e politica, costruita unicamente al maschile, e siamo vittime di un sistema di rappresentazione che non ci significa e non ci rappresenta. E noi, dopo trent'anni da quel processo di radicale cambiamento che ha investito le vite delle nostre madri, siamo tornati nell'ovattato silenzio, festeggiando l'8 marzo e dimenticandoci completamente di cosa succederà il 9.

venerdì 6 marzo 2009

Conatus sese conservandi

E' da poco passata mezzanotte e vorrei dormire. Invece sono sul letto con gli occhi sgranati e una nuova, spietata e accanita crisi di emicrania. Con la mia quasi giornaliera dose di indometacina, mi immergo tra le lenzuola appena cambiate, con la gatta in fondo al letto che ulula invece che miagolare, quasi per rimproverarmi di averla lasciata sola da stamani. Domani andrò di nuovo in macchina, consapevole di non farcela ad alzarmi alle sei per prendere il treno e già mi chiedo come farò a fare lezione con questo peso sulla testa che da giorni sembra non volermi lasciare tranquilla. Eppure, nonostante la mia cefalea, di nuovo impietosa e feroce, la giornata di oggi segna un piccolo progresso. Riesco a concentrami sulle cose che mi fanno stare bene, che mi fanno sorridere, e cerco di sfoltire quel grumo ispessito di dolori e preoccupazioni che sono stata capace di aggiungere alla sofferenza per la morte di mia madre. Mi sono concessa un salutare raccoglimento in una stanza di biblioteca, per recuperare le forze e la concentrazione, mi sono lasciata andare a una confidenza inedita con una alunna che risarcisce i miei sacrifici e ripaga il mio impegno, mi sono abbandonata ad una cena abbondante e annaffiata da un ottimo vino in spassosa compagnia, mi sono goduta il viaggio di ritorno da Grosseto in piacevole solitudine, in preda ai miei mille pensieri. Oggi sono stata brava: se dovessi fare la “profe”, come mi apostrofano i miei ragazzi, mi concederei un bel “sette e mezzo”. Oggi ho capito che questo sforzo di tenere lontani i troppi pensieri, le arrabbiature, le attese e le domande è solo la ricerca di sopravvivere e di staccare la spina da anni di acuti dolori e violenti dispiaceri e mi sono finalmente persuasa che davvero non ha senso trovarsi imbrigliata in mille reti, avviluppata da nuove preoccupazioni, scovate con sorprendente abilità, stanate da un tempo ormai evaporatosi in piacevoli ricordi. Non sarà quel “conatus sese conservandi” di cui parlava il buon Spinoza, quell'istinto alla conservazione del proprio essere e alla salvaguardia di sé? Spero proprio che le riflessioni di questi giorni, generatrici di sofferte decisioni, inaugurino un nuovo amore per la mia anima, un istinto alla protezione che non posso chiedere agli altri se non a me stessa, una ricerca di riparo da preoccupazioni superflue che devo alla Barbara di oggi, già così appesantita. Stasera vorrei vomitare dal dolore per questa emicrania, ma non ce la faccio. Buonanotte a tutti.

"Rimanere così, annaspare nel niente
custodire i ricordi, carezzare le età
è uno stallo o un rifiuto crudele e incosciente
del diritto alla felicità
Se ci sei cosa sei? cosa pensi e perchè?
Non lo so, non lo sai, siamo qui o lontani?
Esser tutto, un momento, ma dentro di te
avere tutto ma non il domani"
Francesco Guccini, Canzone delle domande consuete

domenica 1 marzo 2009

Che cosa me ne faccio di una macchina....


Finalmente torno a studiare con rinnovato impegno e stabile concentrazione. Domenica casalinga quella di oggi, dopo un pranzo a casa con mio padre, in una giornata come questa, in cui mamma avrebbe festeggiato il suo sessantunesimo compleanno. Abbiamo coccolato il nostro amore, uscito rafforzato da questa prova e io ho abbandonato la dieta anti-emicrania almeno per un giorno, abbuffandomi anche di patate fritte, ottimo e comprovato antidepressivo. Emergo da due giorni di salutari regressioni. La giornata di venerdì è stata davvero un tuffo all'indietro, in un passato che a volte vorrei davvero rivivere, per recuperare una dimensione del vivere di cui spesso percepisco la lontananza e l'estraneità. In un passaggio fugace tra due città, le mie città, Pisa e Firenze, si sono materializzati nella mia mente gli ultimi anni: da quel piccolo bilocale nella periferia pisana, a quei lungarni illuminati, a quella casa amata-odiata abitata con tanto amore, a quelle strade attraversate in lungo e in largo da un motorino che adesso segue le giornate di una cugina adolescente.
Ritorno all'indietro accompagnato da una presenza costante e consacrato dall'ennesimo concerto di Francesco Guccini, goduto con il pensiero rivolto all'indietro, a quei tanti viaggi affrontati con spirito da adolescente. Così io e Giovanna ci siamo messe a ricostruire la cartina geografica delle nostre fughe, da quelle con i nostri amori a quelle in ricercata solitudine, a ricordare ogni momento e ogni scaletta di canzoni, ogni panino e ogni incontro. E insieme abbiamo riflettuto sulla violenza del tempo, che senza farcene neppure accorgere, si è sgranocchiato dieci anni con una velocità sorprendente, portandosi via tante cose: sogni, progetti, case, amori, madri.
Mi chiedo se sarei disposta a mercanteggiare questa attesa adultità, dell'anagrafe ma soprattutto del cuore, con una decennale inversione, mi domando quanto vorrei tornare all'indistinto territorio dei miei vent'anni, durante questo mio totale immergermi negli anni dei miei studi universitari e del mio amore apparentemente incrollabile. Adesso su questa scrivania, finalmente di nuovo sommersa da fogli di appunti e libri invecchiati, lancio uno sguardo alle mie cose e indirettamente a me stessa, e penso che davvero sto facendo quello che ho sempre desiderato ed a cui sono arrivata per giri tortuosi e percorsi scoscesi. Ma penso anche che, pur di respirare di nuovo quell'entusiasmo spontaneo e quell'appassionato poter essere imbevuto di futuro, sarei davvero pronta a respirare di nuovo con affanno su quelle salite, anche solo per un attimo. Canzone di oggi: Vasco Rossi, E adesso che tocca a me


E adesso che sono arrivato fin qui grazie ai miei sogni
che cosa me ne faccio della realtà
adesso che non ho più le mie illusioni
che cosa me ne frega della verità
adesso che ho capito
come va il mondo
che cosa me ne faccio della sincerità...
E adesso che non ho più
il mio motorino
che cosa me ne faccio di una macchina
e adesso che non c'è
più topo gigio
che cosa me ne frega della Svizzera...”


giovedì 26 febbraio 2009

Persino il tuo dolore

Si profila un pomeriggio intenso e pertanto mi metto a scrivere per fare un pieno di energie in grado di darmi la forza di non capitolare. Torno da scuola alle tre del pomeriggio, pranzo e cerco di mettere a tacere un nuovo mal di testa, non so se causato da un'indisposizione tutta femminile o dal vortice di pensieri che mi ubriacano da mesi. Ho già disseminato le mie carte e i miei libri sul tavolo di cucina, come promemoria al tanto lavoro da fare, come pungolo alla mia pigrizia, come rimprovero alla svogliatezza degli ultimi giorni. Devo riprendere le fila dei miei tanti lavori per i ragazzi, iniziati e ancora non portati a termine, interrotti da un'indolenza che davvero non so spiegare, da un mio essere concentrata su altro, tutta presa come sono a battagliare inutilmente con un esercito troppo bene armato di inquietudini e preoccupazioni.
Ho viaggiato in macchina oggi anziché prendere il treno, per concedermi un'ora e mezza di sonno in più, per essere libera dalle attese snervanti in stazione, per potere arrivare a casa ad un'ora abbastanza decente. Viaggio di pensieri e di ricordi. Avrei voluto fermarmi a salutare le infermiere dell'Hospice che ci hanno accompagnato in quel mese terribile, sono giorni che mi piacerebbe farlo, ma ogni volta che mi avvicino allo svincolo della superstrada, a quel “Grosseto centro” che indica il percorso verso l'ospedale, il piede automaticamente spinge sull'acceleratore e mi impedisce di virare a destra. Così vedo allontanarsi dal mio sguardo quel grande palazzone che ospita le sofferenze di molti e che ha accolto la mia mamma con un amore immenso, coccolandoci fino all'ultimo giorno, e sento che non sono ancora pronta di varcare quella porta e ritornare anche con il corpo in un luogo che non ho ancora abbandonato con il pensiero. Perchè in fondo anche se sempre in giro tra un estremo e l'altro di questa costa meravigliosa, io sono sempre in quella stanzina e ne ripercorro gli spazi, ne sento ancora il profumo, e continuo a vederla in quel lettino, sempre serena, sempre sorridente, convinta che presto sarebbe tornata a casa, incapace di credere che lei stessa si stesse abbandonando per andare chissà dove, felice di vivere questa vita meravigliosa nonostante il dolore, la sofferenza, le gambe immobili che non le permettevano di fare nemmeno un passo. Allora mentre guidavo verso casa, con il suo sorriso stampato nella mente, pensavo davvero che questo è il regalo più bello che mia madre possa avermi fatto: il suo sorridere sempre, in ogni occasione, il suo alzare gli occhi al cielo e gioire di una giornata di sole, il suo amore smisurato per tutto. Così i miei pensieri solitari, spontaneamente materializzatisi nel mio viso finalmente disteso, sono volati ad un anno fa, ad un dicembre assolato di ritorno da un altro ospedale e l'ho vista, appena uscita da una sala operatoria, passare davanti al cimitero e prendersene gioco per poi volare in centro a comprare il vestito per una festa dietro l'angolo, in attesa di brindare ad un nuovo anno, forse l'ultimo.
Non ho consolazione alla morte, ho chiuso le porte alla trascendenza, il mio ateismo mi lascia silenziosa di fronte alla sua scomparsa e non faccio abitare a mia madre nessun paradiso, nessun iperuranio, se non quello della mia anima, adesso così colonizzata dalla sua presenza. E l'ho vista oggi, l'ho sentita, più che mai. E l'ho sentita chiedermi di non appesantire questo difficile cammino inauguratosi dalla sua perdita con sofferenze ulteriori, tanto aggressive quanto superflue. L'ho sentita chiedermi di scrollarmi di dosso questi dolori, queste ansie e godere di ogni momento, senza paralizzarmi in una irragionevole e immeritata attesa, senza immobilizzarmi in una accesa immaginazione che mi fa partorire cose che non ci sono e che mi fa dipingere le persone che mi accompagnano con colori che non sono i loro, costruendole a mia immagine e somiglianza, per poi scoprire che tutto questo non è che il frutto guasto della mia fantasia. Guido e la penso, la sento, continuo a parlarle, a rivolgerle rumorose domande nell'attesa di scavare nella mia coscienza la sua risposta scritta per me. E oggi lei mi invita finalmente a sorridere, a non soffrire per queste sciocchezze, a non piangere per chi semplicemente si rivela se stesso, a non arrabbiarmi per essere caduta, ancora una volta, nei tranelli dei miei desideri. Vedo la mia città che si avvicina, sono talmente immersa nei pensieri che guido oltre la solita uscita (non è che, per caso, la oltrepasso per non leggerne il nome????) e mi godo la vista del mare, l'isola d'Elba, la Corsica in lontananza e mi lascio a un sospiro che mi conforta, che mi rinfranca. Penso a quanto lei mi abbia insegnato a non lasciarmi intrappolare da falsi problemi, rifletto sulla forza con cui lei abbia riso in faccia alla malattia e sbeffeggiato il dolore e canticchio fin sotto casa:
meraviglioso, ma come non ti accorgi di come il mondo sia meraviglioso
persino il tuo dolore potrà guarire poi
meraviglioso
ma guarda intorno a te
che doni ti hanno fatto
ti hanno inventato il mare
Tu dici non ho niente
ti sembra niente il sole
la vita, l'amore....”

domenica 22 febbraio 2009

Riconciliazioni



Passeggio da sola per il lungomare dove sfilano i carri. E' una domenica di sole, con le nuvole grigie sul punto di piovere che si ammassano all'orizzonte e preoccupano gli organizzatori del carnevale e i padroni dei banchetti dei dolciumi e della porchetta. Decido di camminare sola e di godermi un po' il lungomare della mia città, di assaporarne i profumi, di vivisezionarne gli spazi.
Finalmente oggi sembra esserci un po' di tepore nell'aria, un vento mite che riscalda le mie amarezze e scioglie le mie paure, talmente identiche a se stesse e immobili da sembrare di ghiaccio.
Cammino con leggerezza, muovo gli sguardi tutto attorno, pietrificando e immortalando i bambini mascherati che si aggrediscono a colpi di coriandoli, in una guerra in cui sono coinvolti tutti, piccoli e grandi. Sulla spiaggia un “Re Carnevale” di cartapesta sta aspettando di essere bruciato sul rogo e di evaporare nell'aria, dando al profumo di iodio e di salmastro quella venatura di bruciatura tipica dell'ultima domenica di carnevale. Allora ripenso a con quale sacralità noi bambini aspettavamo questo per noi solenne rito di addio alle domeniche in maschera e con quale tristezza riponevamo negli armadi i vestiti sapientemente costruiti da mani materne. Ripenso all'attesa della festa, alla scelta dell'abito, ai suoi pomeriggi alla macchina da cucire ed all'aiuto affettuoso di quella zia lontana che vedo ancora immortalata nella sua bellezza. Rivivo le nostre corse affannose, la nostra teatralità nel recitare le gesta delle nostre maschere, le urla di madri esauste per richiamarci alla calma, per mettere un punto ad una giornata che avremmo voluto non finisse mai.
Mi rendo conto che questo girovagare senza meta oggi non è altro che la celebrazione del mio ricongiungimento con questa città, per anni così estranea ai miei tempi e così lontana dai miei desideri, il recupero di una confidenza dopo una lunga assenza. Questo puntare i miei occhi sulle bambine in maschera e sulle loro madri è il tentativo di una momentanea riconciliazione tra i lembi della mia anima, così lacerati dopo la sua morte. E finalmente sorrido ai ricordi, faccio tacere per un attimo i rumorosi conflitti che mi agitano, affinando con cura le spigolature del mio essere, sempre perennemente in battaglia con se stesso. Adesso, a casa, con il silenzio che si rapprende, mi rallegro di questa domenica, tanto semplice quanto intensa, che sembra avermi un po' restituito a me stessa.

mercoledì 18 febbraio 2009

Landslide

Mi concedo una piccola tregua da un pomeriggio pesante, ancora una volta mi avvolgo nelle calde note di Einaudi e cerco di trovare un po' di refrigerio da questa pesante emicrania che mi accompagna da stamani, forse per colpa di questo sonno da mesi intermittente. Mi guardo allo specchio e vedo un viso non mio, stanco, gli occhi appesantiti e inquieti, come a voler fuggire una serie di pensieri che mi accerchiano e rincorrono. Chiama Sonia e mi chiede di uscire la prossima settimana per una pizza...rispondo con entusiasmo di sì e abbasso la cornetta. A valanga arrivano i ricordi di Piazza Gavinana e di quella casa tanto amata e davvero aspetto con ansia di vederla, ancora una volta per ricucire uno strappo e per osservare la tessitura del suo tempo, adesso un po' distante dal mio. Prendo tra le mani il libro di Amos Oz che sto leggendo, lo trovo ancora una volta quasi illeggibile, decido di riporlo nella libreria, tra i tanti libri non finiti, ma decido che si tratta di una battaglia fra me e lui e lo appoggio sul comodino, in attesa di un ennesimo round. Provo a studiare ma ancora una volta le mie energie sono tutte concentrate su me stessa e mi sento un'estranea fra le righe di quei libri, vorrei correre ma fuori tira un vento pazzesco e la fatica sarebbe troppa da sopportare. Vorrei mia madre oggi, anche solo per prenderle quell'esile visino tra le mani e coprilo di baci, rimandando a domani le tante domande. Cerco sollievo a questo accerchiamento emotivo nella pratica quasi quotidiana della scrittura, scopro come le parole siano conforto e trappola, porto sicuro dopo un violento naufragio e tranello giocato alle mie emozioni, costrette in una frase, forzate nell'immobilità dello scritto, obbligate in una porzione di vocabolario che vorrei infinita. Resta così tanto non-detto fuori dalla porta, un ammasso indecifrabile di pensieri ammucchiati, difficili da strigare, impossibili da tradurre nella lucidità di un testo.
Rifletto sul tempo oggi, sul mio tempo. Stamani guardavo i miei alunni e cercavo di farmi strada tra le immagini nebulose di un ieri tremendamente presente, cercavo di scomporre, in minuscole e concluse unità, gli eventi dei miei anni, provavo a ripercorrere i binari della mia esistenza, tentando invano, di sfuggire agli assalti dei miei continui “ma se...”. Mi viene in mente Bergson adesso, la sua illuminante distinzione tra tempo cronologico e tempo interiore e capisco che questo atomizzare i miei trentaquattro anni è proprio una perdita di tempo e di energie. Infatti intuisco che non si tratta di istanti che si succedono l'uno all'altro come le perle di una collana, bensì di una continua e infinita congiunzione, di un intreccio ininterrotto. Scovo le sue parole in un libro ormai impolverato sul più alto scaffale della libreria: “E', se si vuole, lo svolgersi di un rotolo, perchè non c'è essere vivente che non si senta arrivare, a poco a poco, al termine della parte che deve recitare; e vivere consiste nell'invecchiare. Ma è anche, altrettanto, un arrotolarsi continuo, come quello di un filo su un gomitolo, perchè il nostro passato ci segue, e si ingrossa senza sosta del presente che raccoglie sul suo cammino”. Insomma, il mio tempo è una valanga, che non lascia dietro niente di sé e si accresce nel suo scendere a valle. Peccato che oggi mi ci senta come schiacciata.

“...lui si metterebbe qui, in ginocchio in cambio di una carezza, come disse l'innamorato senza gambe alla sua bella senza braccia” (Amos Oz, Non dire notte).

domenica 15 febbraio 2009

Mastella riscuote



Babbo scova in un vecchio cassetto un paio di calzettoni rossi con la falce e martello in bella vista, che un compagno di scarpinate in mountain-bike gli aveva regalato per gioco. Forse per ricordagli, come dice lui, “come era bello quando s'era comunisti”. Per farmi sentire in colpa di essere diventata una elettrice del PD e per richiamare alla memoria le mie profonde radici dentro quella storia, umana e politica, babbo decide di riciclare i calzini e me li consegna, con un sorriso stampato sulle labbra, contentissimo della sua educativa provocazione.
Io, ormai convertita alla socialdemocrazia, decido di riciclarli a mia volta e i poveri calzini “alla Peppone” finiscono nello zaino di Gaia, la mia studentessa fan di Turigliatto che mi bersaglia sempre polemicamente e mi accusa di essere una “cerchiobottista reazionaria”. Capisco che ho fatto bene: Gaia con i suoi sedici anni si esalta orgogliosa del mio regalo (ho confessato, lo giuro, il riciclaggio) e decide addirittura di metterseli per andare a fare pilates....”tanto per essere sempre in guerra e mostrare di che pasta siamo fatti”, dice.
“Come si cambia...per non morire”, canticchiava una canzone anni Ottanta. Siamo cambiati, un po' tutti. In una parabola di cambiamenti abbiamo trasformato tutto: linguaggi, movenze, alleanze, obiettivi, strategie, tattiche. Così ci troviamo di fronte al desolante spettacolo lasciato da un lento ma inesorabile fenomeno carsico che ha corroso le nostre identità e fatichiamo a trovare la strada, stentiamo a trovare qualcosa che, non dico ci rispecchi e assomigli, ma ci rappresenti almeno imperfettamente. Poi mi accorgo che qualcuno è riuscito a non essere fagocitato nei vortici di trasformazioni di questi ultimi anni, rimanendo sempre identico a se stesso, mantenendo gli stessi innumerevoli vizi e le poche virtù, dandomi l'idea che in fondo questa nostra Italia non è poi così cambiata rispetto a vent'anni fa. Il buon vecchio democristiano, per quanto adornatosi di novità, non riesce a non essere democristiano e, alla fine, nonostante sforzi titanici di travestimento, viene fuori, torna allo scoperto, nella freddezza dei suoi calcoli elettorali, nelle sue modalità di contrattazione politica, nel suo camaleontico adattarsi a tutte le occasioni. Eccolo il nostro Mastella, dopo aver colpito a morte il governo Prodi, passare alla cassa a riscuotere il suo credito. Eccolo il nostro Mastella, che noi siamo stati anche capaci di fare ministro, cercare di giustificare la sua nuova alleanza, di motivare la sua corsa da Ceppaloni a Strasburgo. Ma che cosa è diventato questo nostro paese? Niente, credo, se non quello che sempre è stato.

sabato 14 febbraio 2009

Una città nel buio


Eccomi di nuovo a casa, dopo una serata molto piacevole, nonché alquanto “alcolica”. Mi cullo lentamente nelle emozioni stravolte dalle troppe bevute e costruisco una melodia su questa tastiera al ritmo delle note tanto amate di Ludovico Einaudi, come se stessi suonando il suo pianoforte.....io che so solo strimpellare una chitarra scordata. Tante sono le cose che mi chiedo stasera, domande dilatate dalla sincerità del vino, da una ritrovata autenticità, da una Barbara ripescata negli angoli bui e nascosti dell'adolescenza, da una regione della mia anima sottratta all'onirico e all'immaginario.

Mi chiedo quali tortuosi cammini io abbia intrapreso, per quali ripide salite io abbia deciso di incamminarmi. Stupita mi chiedo se stia intraprendendo un cammino verso il futuro o stia percorrendo un percorso a ritroso nel tentativo, forse vano, di portare a termine un sentiero interrotto. “Sentieri interrotti”....trovo Heidegger stasera a darmi un aiuto a nominare queste sensazioni, queste ambigue impressioni, questo ricercare un non so cosa, questo tentare di tradurre nella lingua dell'adultità un patrimonio di emozioni che, sonnambule, hanno inquinato i sonni degli ultimi anni.
Incredula mi chiedo come abbiano potuto queste corde della mia anima suonare così in sordina, nell'astrattezza dell'immaginario; attonita mi interrogo su come il veloce scorrere degli anni lasci sullo sfondo delle nostre vite detriti impossibili da filtrare.
Assisto incredula alla battaglia senza fine tra le mie emozioni, parteggio per quelle che parlano la lingua della ragionevolezza e della prudenza, ma sbalordita mi trovo a registrare ogni volta una nuova sconfitta. Brindo così alla vittoria della mia impulsività, al definitivo trionfo della mia pazzia e sventatezza, a questo mio insano tentativo di riprendere uno spartito troncato nell'attesa di sentire quale melodia suonerà da questa inattesa ma necessaria composizione.
Con questi pensieri sconnessi, sprofondo nelle poesie di Mark Strand.


“Diceva che sarebbe sempre stato quello che sarebbe potuto essere
una città sul punto di avverarsi, una città mai compiuta,
una città scomparsa senza quasi lasciar traccia, dentro
o sotto la città esteriore, rendendo la città esteriore -
quella in cui trascorriamo le ore di veglia -
insulsa e tediosa. Sarebbe sempre stata
una città nel buio, una città tanto timida da restare in attesa,
con il terrore del momento che non sarebbe mai stato”
Mark Strand, Conversazione.

sabato 7 febbraio 2009

Nel nome del padre

L'ultima parola è stata semplicemente “amore”, un flebile saluto a fior di labbra, in risposta ad un bacio leggero e tenerissimo che le ho appoggiato sulla fronte rovente di febbre. Era il giorno dopo l'Epifania, un mercoledì assolato, un giorno in cui, gli anni precedenti, ci dedicavamo a ricomporre l'albero di Natale che aveva preparato con cura per illuminare i giorni di festa, riponendolo nelle scatole e dandogli appuntamento all'anno successivo. Poi, dopo quel saluto affettuoso, il sonno, il niente, il buio. Nessun gesto, nessuna movenza, nessuna parola, per altri sei interminabili giorni.
Finita la scuola salivo le scale di quell'ospedale sapendo che là avrei trovato solo il corpo di mia madre, scarno, sofferente, teso in un respiro affannoso ed adagiato su di un materasso appena sostituito per evitare il decubito. Mia povera creatura ferita, continuo a rivivere il contatto con le tue mani ormai senza vita, incapaci di rispondere alle mie continue e concitate carezze. Così, quel mercoledì pomeriggio, mia madre mi ha salutata per l'ultima volta e si è spenta, morendo, nonostante il certificato riportasse, nella freddezza del linguaggio burocratico, una data diversa, quella in cui il suo cuore si è fermato nel nostro ultimo abbraccio.
In quei giorni di intensa sofferenza e di dolorosa pietà, impegnati con ogni possibile sforzo ad evitarle il dolore, ho pensato più volte a come possa un uomo accompagnare quotidianamente una figlia ormai spenta per diciassette lunghissimi anni. Lo chiedevo anche al mio di padre e insieme abbiamo nutrito una profonda vicinanza ad un dramma così intimo, ma ormai così condiviso.
Così mi sento offesa da quelle parole, indignata da tale delirio di onnipotenza, mi sento umiliata da tale insuperabile arroganza, dilaniata da tale oscenità. Così quel padre non ha avuto gravami, non ha dovuto sobbarcarsi alcun peso in questi interminabili diciassette anni; non lui ma alcune generose suore hanno curato Eliana permettendole di vivere, mentre suo padre, indegno, ingrato, lotta per farla morire. Credo sia arrivato il momento di reagire. E queste parole buttate così di getto in questo spazio pubblico, nonostante siano tremendamente intime, sono la mia risposta a questo infinito scempio, sono il mio piccolo regalo ad Eluana ed al suo papà, la mia dimostrazione di infinita pietà.
Nel nome del Padre, quello a cui rivolgete le vostre preghiere, smettetela di tormentarci con le vostre false prediche, smettetela di offendere quotidianamente questo paese, nel nome del Padre, abbiate il coraggio di rispettare quel corpo divenuto di donna, nell'attesa della fine.

venerdì 6 febbraio 2009

Sabbie mobili

Piove da giorni e sembra non voler smettere. Invece di questa pioggia umida avrei bisogno di un sole caldo e avvolgente che dia un po' di tepore, oltre che a queste giornate, anche alla mia anima. Aspetto questo weekend per concedermi una tregua, un po' di riposo, un recupero da questi giorni di grande stanchezza e di forti emicranie. Avrei anche un acuto desiderio di ricominciare a correre, di riprendere quel simbolo del mio procedere, di sentire la stanchezza, il respiro affannato, i battiti del mio cuore salire a ritmo accelerato e quel senso di sollievo ristoratore al rientro a casa. Peccato che le mie doloranti ginocchia mi tolgano anche questo piacere. Ci riproverò, magari solo per dimostrare a me stessa che sono una che non si arrende mai. Non mi arrendo, se non di fronte alle sorprese, se non di fronte a questa mia incapacità di leggere i miei pensieri sconnessi e le mie altalenanti sensazioni. Mi chiedo, ancora una volta, che cosa stia nascondendo a me stessa, quali siano le emozioni che restano strizzate, contratte, incapaci di prendere respiro e rendersi percepibili e decifrabili. Mi sento un ammasso informe di paure, che riesco a intuire ma che restano pesanti sul fondo, senza galleggiare in superficie, senza prendere corpo, senza acquisire voce, magari attraverso l'esercizio costante e lenitivo della scrittura. Temo questo nascondimento di me a me stessa, questo mio essere perennemente amorfa, questa mia incapacità a riconoscere un io nel quale specchiarmi e riconoscermi. Vedo solo uno stagno nero e melmoso, con le acque appesantite da mille pensieri e un vortice di correnti che si avvitano su se stesse rendendo il fondo inavvicinabile. A volte, più che uno stagno mi sembra di assomigliare alle sabbie mobili e mi ci sento quasi incastrata.

martedì 3 febbraio 2009

Capitolo secondo

Decido di rompere il silenzio dopo mesi di assoluto mutismo. Non so perchè lo stia facendo, non so perchè abbia deciso di riprendere a scrivere su questo blog, che è stato per anni lo spazio reale e simbolico del mio interrogarmi. Ho scritto, in questi mesi, ma ero giunta ad abissi di intimità eccessivi per una pagina come questa, costringendomi all'oramai per me inusuali pallore della carta e colore dell'inchiostro. Ho scritto dappertutto, su fogli sparsi, dietro gli scontrini della spesa, sui quaderni della scuola, per poi decidere di tornare qui, forse per riprendere il filo di un discorso non ancora concluso, quello della volontà di fare luce su questa matassa di paure, indecisioni, dolori, in un discorso iniziato in una Londra adesso lontana, anche dal mio arruffato immaginario.
Decido di riprendere il cammino in quello che da giorni ho battezzato il “secondo capitolo” della mia vita, quello inaugurato dalla scomparsa di mia madre, attesa da anni, ma non per questo meno dolorosa.
Osservo le lacerazioni della mia anima dopo la sua morte, cerco di rintracciare le giuste modalità per affrontare questa tragedia ed elaborare questo lutto, ma mi sembra di uscire sempre sconfitta da questo ruminare, da questo cercare un po' di sollievo. Finalmente però, sono riuscita a versare le lacrime che avevo pietrificato dentro di me. Io che ho sempre lasciato che le mie emozioni trovassero il canale di espressione privilegiato nelle maglie del corpo, ho congelato le lacrime in un mutismo a tratti incomprensibile e in un tentativo di scacciare da me il pensiero di lei. Da giorni lascio finalmente le mie lacrime salire su e bagnare le mie guance immobili e mi sembra di sentirmi meglio, quanto meno leggermente sollevata e cerco di sovrapporre il suo dolce volto di qualche anno fa a quello segnato dalla malattia, pur affrontata con tanto coraggio.
E' iniziato davvero questo “secondo capitolo”, marcato dalla sua assenza e dalla sua assoluta mancanza. So che devo iniziare a scrivere, prendendo la forza necessaria da quell'ultimo abbraccio e da un esempio di tenacia che spero, un giorno, di trasmettere a una figlia. Per non restare sempre così sola, per non sentirmi più così imbottita di “mai più”.