mercoledì 15 novembre 2006

Tempo di raccolta: olive e ricordi


Settimana di raccolta, quella appena passata. Questa volta mio padre ha dovuto contare quasi soltanto sulle sue forze e su quelle sempre meno energiche di Adelmo. Io e Molino siamo stati poco presenti, oberati sempre di più lui di lavoro e io di studio. Così sabato mattina mi sono ritrovata a modellare movenze antiche che hanno segnato lo scorrere impercettibile degli anni e che danno di nuovo voce ad un’infanzia e un’adolescenza, ancora così presenti oggi. Nel muovere le mie mani su quei rami da cui facevo cadere perle preziose, poco o nulla sembra cambiato da quegli anni, come se lo scorrere delle stagioni fosse passato impercettibile sulle nostre vite, come se nessuno dovesse crescere, invecchiare, soffrire, temere un distacco. Anche l’apparente immobilismo della natura sembra registrare un cambiamento, regalandoci quest’anno un novembre ancora più mite che ci permette di lavorare con maglie leggere e non ci costringe più, come anni fa, ad indossare strati di lana per proteggerci contro il gelo pungente.
Domenica, mentre il lavoro continuava, io e mamma ci siamo regalate alcune ore di coccole avvolgenti e abbiamo cercato di estrarre dai nostri ricordi, cercando di tenerli vivi e in qualche modo consolati, la storia di questo luogo che adesso sto abitando con tanto affetto. Accanto ai piccoli disagi, accanto alla sua presenza che a momenti me lo rende inabitabile, questo spazio parla delle mie radici e mi regala un rapporto diverso con la mia adolescenza da cui mi congedo con tanta lentezza. Così mentre mio padre si dedicava alla raccolta delle olive, per regalarci un olio profumato e corposo, io e mamma abbiamo radunato i segni di questa casa, recuperando le voci e i volti di chi l’ha abitata, ricostruendone una genealogia e dissotterrando le memorie più lontane. E così, in un gioco di rimandi continui, i nostri ricordi si richiamavano l’un l’altro, e alle mie immagini di estati giocose e di lucciole facevano eco i profumi dei dolci appena sfornati, insieme a quello delle lenzuola stese ad asciugare sul grano già falciato.
Forse è per questo che da domenica la immagino piccola, nuda, in piedi sul lavandino di cucina, dispettosa come tutti i bambini, a far cadere come un domino quei piccoli bicchieri di vetro messi in fila su quella mensola che ora non c’è più ma che la mia mente adesso ha disegnato al posto di quello scaffale. Ed insieme a lei la mia mente, aiutata dalle scarne immagini impresse sulla carta, partorisce il viso di una bisnonna immaginaria, di cui porto, nascosti, i segni nei miei nomi, e che avrei voluto resuscitare nominando una figlia che non c’è.

“L’affetto è un rifugio e una difesa. L’amore è un esporsi e un rivelarsi. La solitudine è la prova della verità: senza intermediari. Se non si sopporta la solitudine non si sopporta se stessi. Mi amo e mi detesto, mi desidero e mi faccio paura”
Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista.

domenica 12 novembre 2006

Confini

Mi sono svegliata presto, con l'ennesima emicrania e la solita inquietudine. Prima di pranzo ho sfogliato, per l’ennesima volta, alcuni libri di Lea Melandri, tendando di recuperare i preziosi ingrendienti della sua densa scrittura. Tento di mettere ordine nei miei pensieri notturni e di incanalare gli altri in sentieri meno ripidi, cercando quasi la pace di una anestesia emotiva. Sto percependo un insostenibile senso di accerchiamento: angoscia antica, sensazione già vissuta, che apre la strada alla solita domanda: e la via di uscita? Dove individuarla, adesso? Anche la riposta si ripete: stare presso di sé, dare corpo ai pensieri nelle parole scritte.
Devo comprendere con attenzione dove passa il confine tra quello che devo a lei e quello che devo riservare a me stessa, nel tentativo di restituirle l’amore e le attenzioni senza però smarrirmi. Mesi fa ho pianto alla rivelazione che per salvarmi avrei dovuto costruire solidi confini, che avrei dovuto staccarmi dal tepore delle abitudini e delle convenzioni, che avrei dovuto urlare a me stessa, a squarcia gola, "io". Oggi questi confini si sono di nuovo fatti estremanente incerti, labili, fluttuanti e non riesco più ad individuarli, sentendomi perduta in un territorio immenso che non si lascia trattenere dallo sguardo. I miei confini incerti sono quelli tra me e loro, tra me e Molino, tra me e i miei ragazzi. La fatica di oggi è quella di rintracciarli, è l'abbozzare trincee che mi garantiscano una rassicurante separazione, solo per salvarmi.

venerdì 10 novembre 2006

I feudi di Via del Parione

Alcune settimane fa sono tornata, dopo cinque mesi, a Firenze. Volevo scrivere qualche riga per lasciarne traccia, ma questa volta è stata l’euforia e un inedito senso di onnipotenza a tenermi alla larga dalla scrittura. Ho rivisto persone a me molto care ed ho dormito in quelle “piccole stanze” che mi hanno protetta e coccolata nella fase più difficile, ma nello stesso tempo più importante, della mia vita.
Prima di andare a cena ho manifestato il desiderio (irrazionale forse?) di percorrere dall’inizio alla fine Via del Parione, certa che a quell’ora tarda sarebbe stato quasi impossibile imbattermi in uno spiacevole incontro. Ho così percorso con lo sguardo luoghi a me familiari ed ho gioito al pensiero che tutto questo appartenesse al passato, un passato di cui non sono ancora pienamente libera, che inquina i miei sogni e che mi interpella ancora con scoccianti domande. Ogni passo compiuto su quel lastricato era accompagnato da una frase: sono libera, adesso lo sono davvero, sono di nuovo libera e sono di nuovo mia.
Esattamente tre mesi fa ho inviato a tutti la lettera di licenziamento, scritta in una Londra che mi ha dato la forza e la tenacia di scoprirmi e di eliminare quel velo di ipocrisia che avevo tessuto sopra il mio essere più autentico. Da due mesi sono di nuovo un’insegnante di Liceo. Percorro chilometri ogni mattina alzandomi all’alba, per raggiungere la scuola e mi convinco, ogni giorno, nonostante le difficoltà e i piccoli insuccessi, che non potrei fare altro se non questo. Ogni giorno, al ritorno a casa, penso a cosa staranno facendo i miei ex colleghi fiorentini e mi chiedo se avranno avuto il permesso di pranzare o se, ancora una volta, si saranno dovuti piegare alle sue uniche ed insormontabili esigenze. E allora penso a quel Dipartimento, ripenso all’inferno. E allora mi viene voglia di scriverne, anche perché questo blog, nella mia mente pre-Londra, avrebbe dovuto intitolarsi “I 57 passi” e contenere il racconto di quei cinque anni assurdi e incomprensibili.
In Dipartimento entravo alle dieci dopo circa mezz’ora di scooter o quaranta minuti di autobus.
Vi si accede con un piccolo ascensore, se ne possiedi le chiavi, altrimenti inerpicandoti su una scala barocca bella quanto il palazzo che lo ospita da moltissimi anni. La scala è un po’ ripida e ti lascia spesso senza fiato percorrerla tutta; non è una grande idea arrivare lì dentro già con il fiatone, visto che ogni volta sai di quante energie hai bisogno per superare l’intera giornata. Superato l’ingresso, fatto capolino negli uffici dei colleghi più cari per un buongiorno celere, controllata la cassetta della posta (che ora ti spetta, perché sei entrata a pieno diritto nel grande mondo degli “incardinati”), entri finalmente in quella stanza e, per prima cosa, ti affacci alla finestra. Così vedi la bellissima corte del palazzo che si affaccia sull’omonimo Lungarno, vedi il fiume, Ponte Vecchio e riesci anche a scorgere Palazzo Pitti e, in lontananza, San Miniato e il Forte Belvedere. Poi pensi che alle dieci, mentre tu stai per accendere il computer e metterti a lavoro, i tuoi colleghi stanno già affollando la Biblioteca Nazionale in attesa di cominciare la loro giornata di studio e di ricerca, stanno aspettando i libri, stanno sfogliando un manoscritto, stanno bestemmiando perché anche di questo volume non si può fotocopiare neppure una pagina.
E’ arrivato il momento di accendere il computer. Se lei arriva pretende che tutti i suoi messaggi di posta siano stati non solo stampati, ma anche letti e selezionati in ordine di importanza. Il feudatario deve arrivare al castello e sapere come organizzare la sua giornata, come disporre le sue truppe sul campo di battaglia, come organizzare le sue alleanze. Anche perché il signore del castello che confina con il nostro sta facendo esattamente lo stesso e, purtroppo, ha anche delle truppe più folte e più fedeli delle sue. Quindi non si può perdere tempo a studiare o in fesserie di tal tipo, bisogna schierarsi. La giornata di lavoro comincia sempre nello stesso modo, con la posta intasata da mille messaggi: ci sono studenti che cercano informazioni sui prossimi esami, che chiedono un programma di studi, le associazioni culturali fiorentine che inviano informazioni sul prossimo evento in programma nonchè i feudatari di tutta la penisola che indagano sugli equilibri della zona, richiedono alleanze, denigrano un rivale.
Dopo un po’ di tempo di vita di Dipartimento, scopri che la cosa più bella che la vita ti possa offrire è quella di trasformarti da cavaliere semplice in cavaliere “incardinato”. Sì, sempre cavaliere sei, pronto a combattere una battaglia senza fine per il tuo feudatario che ricompenserà al meglio la tua fedeltà e la tua fierezza. Ah, finalmente tutto mi è chiaro, illuminato dalla luce della sapienza che l’Università irradia tra i suoi giovani ricercatori. Questa pillola di saggezza mi aiuterà nel cammino difficile della mia carriera…
Quindi, se ho capito bene, la cosa più importante che devo fare è individuare le migliori strategie che mi consentano l’“incardinatura”, che, già dalla parola, sembra una sorta di crocefissione a cui però si va incontro con gioia e giubilo. Finalmente, se sei incardinato, sei parte del feudo a tutti gli effetti e puoi partecipare ai banchetti ed alle assemblee, purchè seduto in ultima fila, rispettando ben bene la gerarchia. E devi chiedere sempre: il permesso per uscire ad un’ora decente, che cosa dire, per chi votare, chi lodare, a chi regalare il tuo ultimo libro oltre a quale vestito sia più adatto per quel convegno. Chiedere sempre, scrutare in continuazione, copiare se ci riesci e, soprattutto, elogiare, anche se questo ti risulta la cosa più difficile da fare, perché vorresti che dalle tue labbra uscissero parole sincere e cristalline di disprezzo anziché di elogio. Infatti, alla fine mi sono arrestata di fronte all’impensabile, di fronte a quello che Virginia Woolf diceva essere il compito più arduo per ogni essere umano: il continuo e perenne nascondimento del disprezzo con la più falsa delle adulazioni. E questa capitolazione, mi ha restituito alla vita.

“Lei converrà che una battaglia che obbliga a indossare la maschera della venerazione per coprire il disprezzo infligge allo spirito umano ferite che nessuna chirurgia potrà guarire”.
Virginia Woolf, Le tre ghinee.