lunedì 25 dicembre 2006

Divertimento, un vino di Toscana

Venerdì sono stata a Siena per festeggiare il compleanno di Cristina. Al ristorante mi sono un po' stordita con un ottimo vino toscano. Ne riporto, fedele, l'etichetta...che parla molto della mia terra di Toscana.

"Essere contadino a Dievole non vuol dire soltanto saper vangare, zappare, arare, seminare, potare, mietere, vendemmiare, vuol dire soprattutto avere mani per mescolare le zolle alle nuvole, per far tutt'una cosa del cielo e della terra.
Divertimento è di quei vini che piacciono ai chiacchieroni, che riempie la bocca di parole spicciole, sdrucciolevoli, facili e dolci, rotondette e rimbalzanti, che scivolano fuor della bocca, tanto sono umide di saliva, senza consumare le labbra - ribodoli, stornelli, cicalate, arguzie facili.
Divertimento salva l'antica e nobile tradizione di una Toscana popolare sfrontata e sboccata, allegra e insolente. Divertimento è prepotente nel frutto e arguto nel temperamento, manesco e insieme amante delle parole".

Buon vino a tutti e a tutte.

venerdì 22 dicembre 2006

La lingua dell'abbandono

Il silenzio parla. Mi parla. Mi parla una lingua che non riuscirò mai a decifrare, quella sterile dell’abbandono. Io che spesso mi sento una giocoliera di parole, non riesco a comprendere coloro che non le modulano. Ma cosa mi dicono i silenzi? Mi parlano forse di una fuga, di una rescissione, di un rifiuto di condivisione? Non sopporto il muto abbandono e ne preferisco uno amaro, ma gridato e sincero. Vi prego dissotterrate le parole, date loro respiro, fatele decantare ed assaporatene il gusto, per quanto aspro. Vi prego pesatele quando le pronunciate, dando corposità ad ogni singola parola e valore ad ogni singola sillaba, accordando ogni suono con quelli del mio io più profondo, se ne avete sentore. Abbandonatevi alla circolarità del sentire, dello spartire e patire le cose con gli altri, tutto per restituire forza ai legami, anche se recisi.

"Venite, parliamo tra noi
chi parla non è morto,
già tanto lingueggiano fiamme
intorno alla nostra miseria.
Venite, diciamo: gli azzurri,
venite, diciamo: il rosso,
si ascolta, si tende l'orecchio, si guarda,
chi parla non è morto.
Solo nel tuo deserto,
nel tuo raccapriccio di sirti,
tu il più solo, non petto,
non dialogo, non donna
e già così presso gli scogli
sai la tua fragile barca.
Venite, disserrate le labbra
chi parla non è morto"
Gottfried Benn

giovedì 21 dicembre 2006

Emily Dickinson

Oggi questa poesia di Emily Dickinson parla di me, la trascrivo:

Mai che io senta la parola 'fuga'
senza che mi tremino i polsi
senza che subito mi prenda un senso d'attesa,
senza che mi senta pronta ad andare!

Mai che io senta di grandiose prigioni
da soldati abbattute, senza che invano
mi metta a scuotere le sbarre, come un bambino
condannato ancora una volta a non farcela!

(1859)

Di nuovo i sensi di colpa....

Giornata grigia, umida. Mentre al di là della finestra scende una pioggia dissetante, in casa c’è la lotta degli odori, oltre a quella dei contrari. Mi chiedo chi sono oggi, cercando di attraversare i contrari che mi contraddistinguono, in una perenne lacerazione. E’ polemos, oggi, è una stancante altalena di andare e stare, di piangere e sorridere, di trattenersi e perdersi.
Dovrei mettere la pentola sul fuoco e preparare la cena, accorta a non cedere alle tentazioni, come oggi a pranzo, attenta nel ricordare i passi pesanti che mi schiacciano la testa e che sono immancabili, dopo qualche innocuo piacere. Impavida una ragnatela dondola dal soffitto…quando mi deciderò a pulire?
La lotta degli odori. E’ l’odore dei broccoli appena lessati che adesso sembra avere avuto la meglio su quello del fumo, che oggi sembra voler uscire da un indisciplinato camino. Il pensiero oggi sembra l’unica solida certezza, nonostante anch’esso vacilli, oscillando tra i poli del mio essere, di nuovo in battaglia. Così oggi, finalmente, mi concentro su quei pensieri, troppo a lungo fuggiti, ostinatamente rimossi, a ricerca di protezione, tutela. Oggi la vedo e la sento, invadente, capace di scompaginare ogni attimo di calma, di terremotare ogni solida fiducia e certezza, di risvegliare ogni riposo di noi e fra noi. Tornare in me, tornare a te, madre.

Ho sempre pensato che fosse debole nel corpo, lei, così forte nell’anima; ho sempre pensato che sarebbe crollata sotto i colpi di tanti pensieri, pensieri sempre rivolti all’altrui alla ricerca di una totale fusione, nella rinuncia allo scarto. Ho sempre pensato che avesse bisogno di un po’ più di calore e che io avrei dovuto prestare più attenzione. Attenzione? Non avremmo dovuto, forse, consumare questa relazione nell’ascolto, tendere l’orecchio attento alla ricerca di sottili richieste, ricoprire di maggiori attenzioni colei che di così tante accortezze ci ha sempre omaggiato negli anni? Non avremmo dovuto osservare con più cura e prudenza i segnali costanti che il suo muto corpo ci inviava, forse gridandoli, ad intervalli quasi costanti? Non avremmo dovuto rispondere con entusiastici “sì” a certe sue apparentemente futili richieste?
Non avrei dovuto, io, così edipicamente attaccata alla sua maestosa corazza, nutrirmi e proteggermi maggiormente in lei, sena divorarne la forza? Non avrei dovuto, almeno io e prima di adesso, capire il suo faticoso abitare il mondo da donna ed offrire anche le mie spalle per reggerne il peso?
E lei ancora continua a cercare in me un appoggio, a chiedere una conferma. Anche “in un giorno felice”, come dice lei, ha dovuto dubitare che io esultassi alla notizia di una spesa tanto sconsiderata, quanto per me attesa. Adesso, invece che tutto il mio amore, vorrei gridarle di smettere di sottomettere scioccamente il sé all’altro, come ha sempre fatto, e di imparare dagli errori e dalle sviste del passato, resi possibili dal nostro differire in un tempo non infinito ma incerto un nostro brusco congedo.

martedì 5 dicembre 2006

Percorsi di memoria

Qualche giorno fa ho lavorato solo le prime due ore, impegnandomi insieme ai ragazzi di terza in una lezione su “Il mondo come volontà e rappresentazione”. Le altre classi si sono aggiunte al “gregge” degli scioperanti, come protesta contro il mancato funzionamento dei riscaldamenti. La scuola non è cambiata molto, almeno in questo, rispetto a quindici anni fa, quando Molino infiammava gli studenti in quel vialetto davanti all’ingresso e ci regalava quasi una settimana di sciopero per la guerra in Iraq del 1991. E anche se c’erano molti gesti che rivedo ancora oggi, quindici anni fa l’intelligenza di alcuni di noi generava le scarne pagine di Satyagraha, esperienza di grande significato che marcava la mia precoce iniziazione alla politica, nonché un senso di lontananza dal centro confuso e l’ostentato orgoglio di abitare la periferia. Cerco qualcosa di me nei ragazzi di oggi e, nonostante la mia estraneità a certe loro movenze, risento una vicinanza a quell’età informe dell’adolescenza, lunga anche per me, abbandonata non da molto per il territorio, non meno sicuro, dell’adultità. Niente o pochissimo, di alcuni di questi ragazzi, mi parla di quello che Barbara era quasi vent’anni fa: i loro visi abbronzati, quella spasmodica ricerca del vestito all’ultima moda, quegli occhiali da sole perennemente indossati che ti vietano anche un fugace incrocio di sguardi, quella arroganza ostentata, quel pretendere sempre tutto, ad ogni costo, senza nessun prezzo. Mi sto sforzando, nonostante la pesante e a volte intollerabile estraneità, di tirare fuori il meglio di loro e capitolo, esausta, di fronte ad ogni nuova delusione, come se il successo di questo rapporto pedagogico dipendesse tutto da me. Preferivo la gioventù semplice e fresca di qualche anno fa a cui forse l’aria di montagna dava il senso delle vette da arrampicare a questa gioventù melmosa e paludosa della laguna.
La vicinanza ad alcuni di loro, tuttavia, mi ha permesso, in questi giorni, di ricostruire la Barbara di un tempo, a cui mi sento ancora così aderente, di recuperare memorie e sensazioni attraverso la lettura di vecchie pagine buttate giù con mano infantile, ma già così chiaramente in cerca di quella mineralogia del pensiero che solo la pratica quasi quotidiana della scrittura ti regala. Leggendo e rileggendo quelle pagine ho cercato di ridisegnare i paesaggi che ho abitato, di rintracciare i sentieri che ho percorso, di fronte a quali porte mi sia paurosamente arrestata. E così nei giorni scorsi mi sono quasi commossa a dissotterrare momenti apparentemente nascosti, a riempire le lacune della mia biografia, a recuperare foto dimenticate, a tessere i fili della memoria. Con fatica ho cercato di “rinfrescare” idee e ricordi, le cui deboli tracce rischiano spesso di svanire come immagini inconsistenti di sogno. Chissà che cosa uscirà da questo tentativo di dipanare la matassa del tempo passato e se mai riuscirò ad affrontare con fiducia e entusiasmo la tessitura di una trama futura.

“Le idee della nostra giovinezza spesso muoiono prima di noi. In ciò il nostro spirito somiglia a quelle tombe alle quali ci avviciniamo: si vedono il bronzo e il marmo, ma il tempo ha cancellato le iscrizioni, e le immagini cadono in polvere. Le immagini tracciate nel nostro spirito sono dipinte con colori che svaniscono: se qualche volta non le rinfreschiamo passano e scompaiono interamente” J. Locke, Saggio sull’intelletto umano.

lunedì 4 dicembre 2006

...quando l'ora del lupo guaisce.....

Ecco l’ora del lupo. Sono a letto e non riesco a prendere sonno, nonostante sappia che la sveglia, anche domani, mi attende prima dell’alba. Scrivo pensieri sparsi su un foglio di carta in attesa di una forma più compiuta e di una trascrizione più precisa che ci sarà, magari domani, una volta decantato il tutto. Mulinelli e vortici di sensazioni mi scompaginano i mille pensieri. Pensieri che stanotte si rincorrono in una corsa stentata, in una interminabile staffetta in cui ogni riflessione lascia il testimone ad un’altra rendendo impossibile, per ognuna di loro, arrivare al traguardo. Queste corse interrotte mi impediscono di mettere a fuoco: nessuno di questi pensieri notturni si rende pienamente leggibile, traducibile ai miei linguaggi, inseribili in uno schizzo decifrabile.
I miei pensieri non sono altro che pezzi sparsi di me che oggi ho così difficilmente ricercato dopo aver percepito, nei giorni scorsi, nuovi ed inattesi cedimenti, nonostante una sicurezza di fondo che mi ha permesso di affrontarli ogni volta. Adesso capisco che, nonostante questa apparente padronanza di me stessa, lo strato su cui cammino è ancora tremendamente sottile. Così in queste ore insonni mi sto chiedendo quando profonda e melmosa possa essere la palude che si apre sotto i miei piedi. Ieri notte ho sognato proprio questo, i miei piedi tremendamente pesanti ed un pavimento fragilissimo, incapace a reggerne il peso. Sento ancora la mollezza delle mattonelle che si sbriciolano sotto i miei passi e io che riesco a guardare da una fessura apertasi sotto i miei piedi il baratro che si apre sotto di me. Le mie notti sono di nuovo abitate dai sogni che mi angosciavano prima della mia fuga dall’Università, prima della rottura della mia relazione, prima della mia fuga a Londra. Ancora sogno viaggi in macchina alla ricerca di una meta incerta, ancora sogno un buio fittissimo e io che cerco di farmi luce, cercando aiuto in chi so essere eternamente presente. Mi chiedo se un giorno, al di là di tutto questo, riuscirò mai a scovare dentro di me una parola inedita, inconsueta, spudorata che sappia illuminare tutto questo e allontanare questa nebbia, capace di stanare la vita nei suoi luoghi più silenziosi e darmi un po’ di luce.