giovedì 21 luglio 2011

L'Edipo del tempo

Scrivo, mi leggo, mi annoio, mi arrabbio. Dopo il silenzio, uno scroscio di parole sembra rompere la calma. Si affastellano l’una sull’altra, si inerpicano, si attorcigliano. Lasciano sul terreno qualcosa di informe, di poco chiaro, di difficile lettura, almeno per me. Un anno di silenzio rotto in una sera afosa di luglio, con il barbagianni sul pino che mi sta facendo impazzire da un’ora, la gatta che mi girella intorno cercando di farmi capire che forse, oltre ai miei pensieri e alla mia scrittura, ci sarebbe anche il suo stomaco ad avere bisogno di un po’ di attenzione. In fondo sono le dieci e mezza di sera e l’ora di cena è passata da un pezzo. Una pagina per scrivere parole sconnesse tutte accartocciate a ricoprire un dolore asfissiante. Mi leggo, mi rileggo, mi annoio, mi arrabbio. Ho la sensazione di essere un criceto in un gabbia che gira all’infinito nella sua ruota di plastica. Niente di nuovo sul fronte occidentale.

Tutte le volte che mi leggo mi scopro con gli occhi rivolti al passato, sempre con la testa girata all’indietro. Sempre, in ogni momento. Sono insuperabile nel deviare il corso dei miei pensieri verso un ieri che non c’è più, se non nei meravigliosi ricordi che mi ci lasciano incollata. Non c’è mai uno sguardo al futuro e, se c’è, è uno sguardo di paura e incertezza. Mi chiedo come possa amare così tanto Nietzsche e spiegarlo con tanto entusiasmo ai miei ragazzi di quinta, se io sono ancora così legata a questa struttura edipica del tempo, in cui nessun attimo ha valore se non inanellato in una corona infinita di istanti passati e futuri che, soli, gli danno senso e consistenza. Capisco che dare valore a una sera di luglio, ancora in casa in pigiama, dopo un febbrone da cavallo, seduta alla scrivania dello studio a studiare Carlo Magno sia cosa ardua e problematica. Ma, impero carolingio a parte, è un copione che si ripete invariato, da anni.

Se devo rompere i miei silenzi con l’ennesima ripetizione dei miei lutti, allora scelgo il più assoluto mutismo. Se devo sentire il fiatone e l’asma ogni volta che provo a buttare giù qualche riga, allora vuol dire che la mia capacità di scrittura e di espressione è svanita, si è rattrappita, si è irrigidita e che non vale la pena resuscitarla di nuovo. Eppure mi sento ancora così piena di cose di cui potere scrivere e a cui dare voce. Mi sento così sciocca a non avere modulato le mie emozioni in questo anno scolastico, di non aver parlato dei libri letti, dei film visti, delle persone incontrate e perse. Nemmeno una parola su Pisapia e De Magistris! Quindi prometto di non annoiarmi più. Scrivo, mi leggo, mi annoio e mi arrabbio. Se dovesse capitarmi ancora, prometto che non scriverò più. Traslocherò, chiuderò il blog, mi zittirò una volta per tutte. E aprirò la gabbia a quel povero criceto che è stanco di rigirare su se stesso migliaia di volte.

Melodia estiva

Da quando sono piccola mi viene rimproverato di essere una gran chiacchierona: egocentrica, con l’eterna voglia di un palcoscenico su cui esibirmi, irascibile con chi non mi ascoltava secondo il suo ritmo, insensibile al rispecchiamento. Ancora oggi, per quanto più schiva allo sguardo altrui, per quanto non più minacciata dal giudizio come non lo fossi in tenera età, la parola è la divinità laica a cui mi sono consacrata e a cui mi dedico ogni giorno.

Parlo, parlo sempre. E’ il mio lavoro che me lo chiede, studio anche a voce alta e sarò sicuramente una di quelle insegnanti che dovrà combattere con le sue corde vocali precocemente invecchiate, a cui richiedo da anni uno sforzo eccessivo. Parlo, parlo sempre, anche con la gatta. Ma in questo spartito di suoni e parole, non ce ne sono più per me. Non parlo più a me stessa, non tocco più le mie corde più intime, e non esce più nessuna musica da quello che, un tempo, era la melodia a me più cara. In un anno lunghissimo ho scritto solo una pagina, per quanto intensa. Ho compresso tutto qua dentro, l’ho lasciato invecchiare, marcire, imputridire. Nella mia mente c’è una massa informe di pensieri accartocciati gli uni sugli altri, compressi, che non prendono aria e puzzano di stantio. Vorrei fare ordine ma adesso mi sembra impossibile sbrigliare la matassa e rendere leggibile questa disordinata accozzaglia di parole che mi affollano i pensieri. Sono più pesanti di certi libri che per Bafisia mi ostino a leggere chissà perché. Non ho scritto mai. Anni fa a volte tradivo le pagine di questo blog per una scrittura più intima, più solitaria, più calda; anni fa preferivo, in alcuni momenti di grande confidenza con me stessa, lasciare i miei segni su pezzi di carta, su fogli di vecchi quaderni, sulle ultime pagine che concludevano libri molto amati. Adesso, invece, il silenzio. Quello che mi raggela il sangue, mi congela le vene, mi paralizza le mani, mi immobilizza l’anima. Non so perché stasera sto scrivendo su questo computer, con questa musica che mi scalda e scongela. Non so neppure se mi ricordo la password per pubblicare questa pagina sul mio blog.

Eppure avrei avuto così tante cose da scrivere. Di questo anno scolastico meraviglioso, dei miei ragazzi vecchi e nuovi, dei miei colleghi adorabili, delle emozioni provate ad insegnare nel mio amato liceo e di come è stato bello rivedere la mia adolescenza in quella dei miei studenti. Avrei potuto raccontare come è stato emozionante e doloroso insieme vedere mia madre nelle mamme che si interessano ai loro figli durante le ore di ricevimento, di come è stato spietato attraversare quel vialetto e vedere volti e sentire voci di un tempo. Era sempre così divertente, durante le pause tra un’ora di lezione e l’altra, sgattaiolare fuori dall’aula, vedere mia madre ad aspettare l’insegnante di turno, scendere giù di corsa ad abbracciarla, sperare che tutto andasse bene e non vedere l’ora che se ne tornasse a casa per fumarmi una sigaretta clandestina. Magari ordinare il pranzo, a seconda della voglia del momento. Poi mia madre ha cominciato a venire più spesso, quando avevo bisogno mi liberasse dall’inferno che era diventata la mia emicrania.

Una malattia che ha fatto capolino l’anno della maturità, quello in cui avrei voluto studiare con maggior impegno e concentrazione, per raccogliere i frutti di tanta paziente semina.

Quest’anno ad ospitare gli studenti per gli scritti della maturità c’era l’aula magna, e non quel corridoio del biennio dove ho scritto un tema strepitoso e scopiazzato quasi tutto il compito di matematica. Ed è stato così difficile cercare di controllarli, richiamarli al silenzio, mentre vedevo che cercavano con quegli occhi spiritati di cogliere al volo un suggerimento, un’idea, un consiglio. E spero di non dovermi sentire troppo in colpa se spesso, di fronte alla paura più paralizzante, quella di un foglio bianco e intonso, ho spostato volutamente lo sguardo, ho intrattenuto il collega con astruse discussioni su derivate e integrali, di cui non avevo capito il senso nemmeno alla loro età. Ne ho parlato a mio padre, glieli ho raccontati per filo e per segno, come avrei fatto con lei, con continui passaggi dall’oggi all’ieri, dai loro ai miei.

Adesso sono alle prese con un’estate difficile. A casa con una violenta tonsillite e imbottita di antibiotici e fermenti lattici, sto cercando di organizzare al meglio il viaggio nei Paesi Baschi. Ma, come ogni estate vissuta da insegnante precaria, mi chiedo già dove lavorerò il prossimo anno, se avrò la fortuna di entrare di ruolo, se potrò essere di nuovo serena come quest’anno. Ma sono soprattutto alle prese con i miei silenzi. Sono silenzi che nascondono un buco nero, una serie infinita di non detti, una sequela interminabile di paure. Sono ferma, immobile, se mi muovo non faccio che girare intorno a me stessa e intorno a lei. Ancora, dopo due anni, sento ancora viva e fresca la lacerazione dei quel distacco. E la vorrei qui, per aiutarmi a tirarmi fuori da questa palude e da questo pantano e a ridarmi le parole di un tempo.

“Tieni un capo del filo,

con l’altro capo in mano

io correrò nel mondo.

E se dovessi perdermi,

tu, mammina mia, tira”

(M. Mazzantini, Venuto al mondo)