mercoledì 21 marzo 2007

La lingua per Auschwitz


Mi chiedo come mettere in parole quel dolore vivido che ti pietrifica, che ti attraversa da parte a parte, che ti inchioda a quel percorso di morte. Si respira la morte, ma non si possiede una lingua che possa tradurla, trasmetterla, narrarla. “I limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo”, scriveva Wittgenstein. Forse è per questo che faccio molta fatica a trovare un segno per quelle sensazioni, che oltrepassano l’umana comprensione, il comune sentire, il razionale tentativo di comprenderle. Popolare quelle gelide stanze, resuscitare quei binari morti, immaginare dei corpi per quegli oggetti fossilizzati a nostra memoria. Confrontarsi con un passato che ti squadra da ogni lato, calpestandoti ad ogni tuo passo, scoprire una ferita perenne, una piaga purulenta nel cuore dell’Europa, nel corpo di un’umanità offesa. Sono contenta di aver portato i miei ragazzi in questo luogo dimenticato da Dio e sono anche fiera del loro modo sincero di esprimere insopprimibili emozioni. Le mie sono ancora molto trattenute, irrigidite ed incapaci di proiettarsi in uno scritto; ma forse è un limite della scrittura e del linguaggio, non del cuore.

Il sacro a Jasna Gora

Mi chiedo nuovamente come possa non sentire mai, in me, il richiamo del sacro. Preclusa ogni via alla trascendenza, chiuso ogni passaggio verso una dimensione altra, verso un sacro iperuranio, mi sento ancora di più ancorata al terreno, al concreto, al corpo. Nessun contatto con il divino, ma solo preghiere che restano strozzate in gola, prive come sono di qualsiasi destinatario. E così oggi, nonostante in questo luogo sacro abbia provato compassione, nel senso originario di un con-sentire, con coloro che rivolgevano all’Eterno le loro suppliche, non ho saputo dedicare a mia madre neppure una preghiera. Anzi, ho cercato di allontanare dalla mia mente il pensiero di lei, per non alzare al cielo, anziché preghiere, irrisolvibili domande e rancorose maledizioni.
Mi sento un animale senza Dio, con le braccia conserte, a contemplare il nulla.

Io e loro, loro e me

Dopo la difficile mattinata di lunedì scorso, in cui ho dovuto affrontare un ennesimo, incomprensibile ed imperdonabile attacco di F., sto cercando di godermi i miei ragazzi. Bafisia dice che la differenza tra noi e loro è solo sociale e culturale e che ci sono ancora mille parallelismi da rintracciare tra le generazioni.
Cerco di cogliere il senso delle cose, cerco di afferrare il loro senso delle cose, sforzandomi di andare al di là di questa adolescenza apparentemente sfibrata, svogliatamente monadica, orgogliosamente distratta. Penso a questi quindici anni che ci dividono e cerco di risalire il corso inesorabile del tempo per scorgere somiglianze e appartenenze. A volte riesco, con loro, a suonare piacevoli accordi, altre volte produco una melodia stonata, che stride all’ascolto. Alcune volte annego nel fossato che mi separa da loro, altre volte rintraccio stupefacenti comunanze. Come ieri, con Dauson che mi chiedeva di vendergli i miei dischi dei Litfiba, quelli che hanno accompagnato alcuni anni della mia piccola rivoluzione adolescenziale, o come adesso, mentre li sento parlare tra loro in libertà. Qui in Polonia le parole finiscono in “osky” e ancora oggi si modella un linguaggio immaginario, come facevamo noi, in quella gita a Parigi dove il mio amore sembrava forte e indistruttibile, mia madre immortale, io impermeabile al dolore.

martedì 20 marzo 2007

Clarice Lispector

In fondo, anche le attese senza fine nelle sale di aspetto degli aeroporti hanno in serbo sorprese. Come il tempo vuoto da riempire con la lettura, facendoti largo tra le inevitabili distrazioni, tra i ragazzi che mi chiamano, tra il telefono che squilla, i passeggeri che si lamentano e i pianti insopportabili dei piccoli viaggiatori. Il libro è bello, intenso, anche se un po' pesante. Le pagine non scorrono veloci, ma hanno bisogno di essere assorbite con lentezza e concentrazione. Ecco una pagina che ho particolarmente apprezzato.


“Se lanciassi un grido – penso ormai senza lucidità – la mia voce riceverebbe l’eco uguale e indifferente delle pareti della terra. Se non vivo le cose, allora, non troverò la vita? Ma anche così, nella solitudine bianca e limitata in cui ricado, sono ancora prigioniera fra montagne chiuse. Prigioniera, prigioniera. Dov’è l’immaginazione? Cammino su binari invisibili. Prigione, libertà. Sono le parole che mi vengono in mente. Ma non sono quelle vere, uniche e insostituibili, lo sento. Libertà è poco. Quello che desidero non ha ancora nome…Cercare tranquillamente di ammettere che forse lo troverò solo se andrò a cercarlo alle fonti piccole. Oppure morirò di sete. Forse non sono fatta per le acque pure e vaste, ma per quelle piccole e di facile accesso. E forse il mio desiderio di un’altra fonte, quell’ansia che conferisce al mio viso l’aria di chi va a caccia per sfamarsi, forse quell’ansia è un’idea – e null’altro”.

Clarice Lispector, Vicino al cuore selvaggio

In volo per Varsavia

Ritornare a quel luogo, dissotterrare emozioni, recuperare ricordi mai sbiaditi, vivide sensazioni di fuga. Che emozione alzarmi di nuovo in volo ed indietreggiare a dieci mesi fa, quando il viaggio era simbolo di quell’Ausgang su cui tanto ho riflettuto negli anni universitari. Eccolo l’atterraggio che richiama una antica melodia del cuore, rievoca sussulti, riecheggia un coraggio fino ad allora mai sperimentato. Mi chiedevo in quell’attesa snervante, in quell’aeroporto che aveva appena registrato le solite movenze che anticipano una partenza, cosa mi fosse rimasto di quella partenza, la sola, la mia. Interrogando la trama delle mie emozioni mi sono trovata a domandarmi chi sarei adesso se avessi provato a restare. Cosa sarebbe cambiato? Avrei potuto, nonostante tutto, accompagnarla ugualmente. Ecco, di nuovo, i sensi di colpa, nonostante non abbia niente di cui accusarmi, se non i pensieri sconnessi che mi tengono legata ad un sentiero interrotto. Rimugino, ricordo, rivedo: questa Londra eternamente presente lo è ancora di più adesso, in questa Varsavia appena intravista dalle nuvole. A volte sono io che mi sento una nuvola, sul punto di piovere.

Britney Spears

“Riflettere, riflettere su di lei. Sul tentativo di essere se stessi”, scrive Christa Wolf. La riflessione su di me, mai conclusa, mai appagante, oggi passa necessariamente attraverso il sentire di lei, un sentire-guardare che passa attraverso il contatto, attraverso le maglie del corpo, attraverso il calore e il profumo della pelle. Prima della mia partenza sono stata a casa dei miei e ho trovato il contatto godendomi una carezza affettuosa e leggera sulla ruvidezza della sua cute. Libera di muoversi e di essere se stessa tra le pareti di quella casa, la mia, la sua, la nostra, si è sfilata senza pudore quella seconda pelle di lana che noi quasi le imponiamo per proteggerci dalle nostre incoffessabili paure. E finalmente ho visto un bagliore di nuova vita su quel corpo così martoriato e assalito da una chimica tanto disumana quanto provvidenziale e ho visto un sorriso sul quel viso che è ancora tremendamente il suo. Ha una leggera peluria sul capo adesso, di un colore ancora indecifrabile, una peluria timida ma coraggiosa, che si fa decisa e sfrontata, quasi a voler sbeffeggiare l’alieno. E lei è ancora più audace, ancora più sfrontata, ancora più irriverente. E così ride, in mezzo alla sala, davanti a noi, davanti alla bestiaccia, e abbozza un ballo, sorridendoci e dicendoci che non è malata, è solo Britney Spears…
Lo so che si sta vendicando dell'alieno, con tutto questo coraggio. Vendetta, che segna già una piccola vittoria.

mercoledì 7 marzo 2007

Divertissement

Non scrivo da più di un mese. Silenzio, silenzi, respiri ed ascolti. Ho deciso di bloccare il flusso dei pensieri, almeno quelli che amavano scivolare sulla carta e rimanervi incastrati. Una volta lì, partoriti dopo lunga gestazione, erano un richiamo continuo, un assillo interminabile, una presenza pesante. Ho scelto il divertissement, di pascaliana memoria. Ho cercato di non pensare, di fuggire la concentrazione, di pensare la morte, di soffrire la solitudine. Nonostante tutto ho recuperato una dimensione del vivere, più umana forse ed ho imparato a leggere di sfuggita le partiture dei miei pensieri, senza soffermarmi troppo su ogni stonatura.
Questo trasferimento ad Orbetello ha senza dubbio rappresentato un salutare cambiamento, anche se non ha certo il significato profondo di quella maglia rotta nella rete che, ancora oggi, solo la mia amata Londra sembra sapermi regalare. Sono, tuttavia, più calma, più rilassata, meno stanca, meno abbrutita da tutti quei chilometri e quelle sveglie che suonavano prima dell’alba. Domenica mi sono anche concessa una bella passeggiata in Feniglia, godendo di un sole primaverile e bagnandomi i piedi con la fredda acqua del mare, assaporando un’estate che non tarderà. Sto bene qui. Sono almeno protetta da queste mura che non grondano ricordi come quelli della mia casa in campagna. Qui, almeno, respiro. A casa mi sentivo bloccata tra quelle pareti, incastrata da pesanti memorie, intrappolata in uno spazio abitato da mille presenze, reali ed immaginarie. La presenza reale dei miei, incapaci di comprendere la fisiologica necessità di tracciare confini, quella inconsistente di un uomo che ha amato ed abitato quella casa tanto quanto me, per poi cadere, esausto, di fronte ad una stanchezza non più gestibile. Adesso mi sento più libera, almeno da tutti questi pensieri. Basta pensieri, basta pressare nella mia testa innumerevoli congetture, senza mai arrivare ad una conclusione, ad un punto fermo in grado di regalarmi un po’ di tregua, anche solo come provvisorio armistizio. Da anni mi dedico ad una ruminazione mentale che mi la vita sopra e dentro di me, impedendomi di godere l’attimo, alla ricerca di un domani che mai si trasforma in oggi.
Devo dare al passato e al futuro il loro giusto posto, senza permettere loro di rendermi impossibile il qui ed ora.
Stasera sono stanca, non ho voglia di leggere né studiare. Mi concedo un po’ d’ozio e ceno a latte e biscotti. Un ozio accompagnato dall’Infedele di Gad Lerner, per non perdere il gusto alla politica.