mercoledì 10 giugno 2009

Nella città del Tutto

Affronto gli ultimi giorni di scuola con le stesse altalenanti sensazioni degli ultimi anni, vivo la chiusura di questo anno scolastico con la mia solita abitudine nello stendere bilanci , con il mio istintivo sforzo di denudare la mia coscienza, scoprendo errori, passi falsi, cedimenti. Da questa appassionata lettura di me stessa emerge un anno vissuto al massimo dell’intensità, un anno di dolore immenso, ma di grande lavoro sulle mie debolezze e le mie emozioni. La mineralogia del pensiero a cui sempre mi sottopongo, il “sospetto” a cui consacro l’interpretazione del mio mondo, hanno regalato tesori. Una grande forza, un vivido entusiasmo per il mio lavoro, una coriacea fiducia nelle mie scelte passate, nelle mie partenze e nei miei abbandoni. Eppure ieri sera, mentre in macchina tornavo a casa, non riuscivo a cancellare un’ombra di amarezza e di insoddisfazione, un senso oscuro di incompletezza. Annaspo nel cercare una totale congruenza fra i miei propositi e le mie scelte, fra i miei desideri e le mie azioni, fra il copione che avevo steso per la mia recita e la messa in scena finale. Non riesco a vedere il tutto in cui vorrei immergermi, non riesco a dipingere il mio ritratto con tutti i colori che vorrei. Sento che mi sfuggono alcune sfumature e percepisco che la vittima delle riflessioni di stasera è il senso completo e appagante dell’integrità. Arrivata a casa dedico alcuni minuti a ripensare la lezione successiva ed anche qui registro il fallimento nella ricerca di una perfetta compiutezza, di una omogenea totalità. Tutti i fogli davanti a me, sparsi sul tavolo di cucina: devo scegliere che cosa spiegare domani, come concentrare in un’ora le mille informazioni che vorrei comunicare ai miei studenti, tutto mi sembra importante, ogni riga mi sembra degna di citazione, ogni censura mi appare un oltraggio. Capisco che c’è una sottile corrispondenza tra questo momento e quello appena passato, che il mio lavoro è metafora della mia vita, che c’è una profonda sintonia tra la Barbara donna e la Barbara insegnante. Vorrei sempre che non mi sfuggisse nulla, vorrei sempre non omettere neppure una frase, vorrei sempre non cancellare neppure una virgola. Volendo sempre un tutto, un’uniforme pienezza, vivo ogni sottrazione e ogni mancanza con senso di sconfitta e di disagio. Con questi pensieri che affollano la mia mente ad un’ora inoltrata, prendo tra le mani un saggio di Sigmund Freud per l’ultima lezione di filosofia e leggo tra le fitte righe: “la sola interpretazione sicura è dunque l’incompletezza”. Non c’è un libro che non contenga una frase scritta apposta per me, non c’è libro che non abbia anche un minimo rimando alle mie angosce e alle mie domande. Devo arrendermi, devo cedere alla parzialità e all’incompiutezza. E, ancora tra i libri, riprendo in mano una frase di Calvino di cui parlavo qualche sera fa, quando queste riflessioni trovavano eco in quelle altrui:

“Dunque pure nella città del Tutto si è ammessi soltanto attraverso una scelta e un rifiuto, accettando una parte e rinunciando al resto?” Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati

sabato 6 giugno 2009

Koyaanisqatsi - Life out of Balance



In attesa di salire su un treno per Pisa, mi concedo un pomeriggio all'insegna del mio passato e della mia adolescenza. Sprofondo nel divano con la mia inseparabile amica emicrania e mi immergo nelle immagini del meraviglioso "Koyaanisqatsi" di Godfrey Reggio, accompagnata dalla colonna sonora, davvero inimitabile, di Philp Glass. Quando apparve in Italia, nel 1983, io avevo appena nove anni, ma più tardi, negli anni del liceo, questo film-documenatario dovette inaugurare il mio immenso amore per il cinema, amore che ancora scaldo e conservo, nonostante questa piccola città di provincia mi condanni a non frequentare assiduamente le sale cinematografiche. Devo a Lapo questa scoperta e, ancora oggi, dopo quasi vent'anni, ancora lo ringrazio. E' meraviglioso "Koyaanisqatsi", davvero un piccolo capolavoro. Forse dovrei utilizzarlo a scuola, magari spiegando Bacone e il suo progetto di renderci padroni della natura, oppure spiegando Hans Jonas e la sua etica della responsabilità. Che bel pomeriggio, se non lo avete visto, correte ai ripari. Io, intanto, me ne vado a votare.

"...Bacone ha saputo cogliere esattamente l'animus della scienza successiva. Il felice connubio, a cui egli pensa, fra l'intelletto umano e la natura delle cose, è di tipo patriarcale: l'intelletto che vince la superstizione deve comandare alla natura disincantata. Il sapere, che è potere, non conosce limiti, nè nell'asservimento delle creature, nè nella sua docile acquiescienza ai signori del mondo...ciò che gli uomini vogliono apprendere dalla natura, è come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini. Non c'è altro che tenga"
Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo

giovedì 4 giugno 2009

Consacrazioni

Modulo parole da anni, mi concedo piacevoli immersioni nella mia scrittura, lascio decantare le mie emozioni per poi osservare il residuo intricato dei miei lemmi rimasti sullo sfondo, compongo musiche scordate con la mia voce, convinta, come sono, che tutto viva solo attraverso e nel linguaggio. Riprendo tra le mani l’heideggeriano “Unterwegs zur Sprache” (“In cammino verso il linguaggio”) e cerco di farmi strada nei suoi sentieri intricati, oltre che “interrotti”. Cerco ristoro nel significato profondo di quest’opera, senza dubbio una tra le più ispirate, non solo dello stesso Heidegger, ma di tutta la letteratura filosofica contemporanea. “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”, recita un verso di poesia citato da Heidegger ed io, immersa in questo scritto, penso a quanto sia violento il silenzio, quanto siano innaturali le parole strozzate e non pronunciate, quanto sia prepotente serrare le labbra in un arbitrario mutismo. Così in fuga dai miei fantasmi cerco riparo nella mia scrittura, cercando di tradurre l’indicibile, di smascherare le menzogne recitate in primo luogo a me stessa, di costringermi a dare luce ai miei silenzi, di condannarmi a fare luce sui miei abissi, convinta (heideggerianamente) che l’essere si manifesti solo nel, e attraverso, il linguaggio e i suoi accordi. Mi piacerebbe che tutti si consacrassero a questa religione della parola. Non ti sbagliare, non ti lasciare abbagliare da un fatale errore di prospettiva: l’eroe di cui cantare le gesta, questa volta, è lei che ha scritto quello che ha scritto, non chi fugge senza neppure una parola di congedo.

“L’amore parla molto, è un discorso. Si dichiara, e spesso culmina in questa dichiarazione in cui finisce: atto linguistico altamente ambiguo, quasi indecente” (J. Baudrillard, Le strategie fatali).