martedì 17 marzo 2009

Voce del verbo "pienare"

Tutti quelli che mi conoscono bene lo sanno. Sanno quanto sia innamorata dei miei studenti, quanto grande sia l'affetto che mi lega a loro, dai più bravi a quelli più svogliati. Sono loro, nel bene e nel male, sono i miei ragazzi. E per quanto a noi adulti piaccia lamentarci di loro, con le solite frasi del tipo “non ci sono più i giovani di una volta”, loro ci sorprendono sempre e si dimostrano migliori di quanta sciocca semplificazione voglia farci credere. Ci sorprendono, anche qui, nel bene e nel male. Il giorno del funerale di mia madre, appena scesa dall'auto che mi portava in chiesa dall'ospedale di Grosseto, il mio sguardo, come ipnotizzato da quel carro funebre e da quella bara che sapevo essere la sua, si è subito spostato verso di loro che, senza conoscere la mia mamma, né averla mai vista, si sono digeriti duecento chilometri per venire a darle l'ultimo saluto e per regalarmi un abbraccio sincero. Tornata a scuola li ho ringraziati per la loro sentita e profonda vicinanza, sia quella dei corpi che quella dei pensieri, meno immediata ma non per questo meno profonda. Capisco che questo è stato un momento in cui lo steccato necessario dei ruoli nei quali ognuno di noi è sempre ingabbiato debba frantumarsi sotto il peso dei sentimenti ed in cui, finalmente liberi, si dia respiro e voce al non-detto. Così i miei “bimbi”, come amo chiamarli io, hanno addolcito la giornata più dolorosa della mia vita, così i miei studenti, con la loro presenza e la loro vicinanza, sono stati punti di sutura ad una ferita profonda e il loro affetto sincero è ancora oggi un balsamo che lenisce e rassicura, che scalda e sostiene, forse il farmaco più efficace ad un dolore come questo.
Sorprendono sempre, nel bene e nel male. Sconcertano a volte con la loro innata incapacità alla concentrazione, con la loro assenza di collaborazione, con la loro difficoltà a capire quando è arrivato il momento di dare qualcosa, anziché star sempre lì a prendere come piovre. Stupiscono con le loro esclamazioni, con il loro continuo “prof. può spostare l'interrogazione?”, con i loro sbadigli, con quell'aria carica di alitate di nicotina, con quei ritardi continui, con quella paura cronica di fronte a qualsiasi prova. Bisogna farci l'abitudine, se si vuol sopravvivere. I miei “bimbi” sono anche questo (e a volte penso che, alcuni di loro, con i genitori che si ritrovano, sono pure troppo....).
Sorprendono, come stamani. Registro, ancora una volta, la loro completa incapacità ad ascoltare le interrogazioni dei compagni, segno davvero di scarsa furbizia e intelligenza, visto che io, come tutti gli altri insegnanti, mi ripeto sempre nelle solite domande, replicate talmente tante volte che persino le zanzare della laguna di Orbetello conoscono il procedimento della dialettica hegeliana. Vabbè, non gli entra in testa....“non c'è verso”, come dicono loro. Se ne stanno penzoloni sui banchi, a masticare caramelle, a rollare la sigaretta (speriamo....) per la pausa successiva, a copiare la versione di greco, a brontolare fra loro. E poi, come stamani, si lasciano a queste meravigliose regressioni all'infanzia e tornano, inconsapevoli, alla quinta elementare, in una zona grigia e indefinita in cui tu, povero insegnante, non capisci se hai a che fare con adulti o con cavernicoli abbrutiti. Così stamani i miei ragazzi di seconda, mentre io interrogavo quattro fanciulle su Galileo e Cartesio, si sono eclissati, si sono mentalmente allontanati dalla classe, e Carlo Maria, Samuele, Simone e Carlo Alberto (insomma, sempre i “magnifici quattro”) si sono messi a fare le palline di carta da tirarsi con l'involucro della penna bic, superandosi in capacità di mirare il bersaglio. E quelle palline, abilmente indirizzate e scendendo miracolosamente dal colletto verso la schiena,
andavano ad infilarsi nel maglione di Carlo Maria che, dopo dieci minuti di “battaglia della cerbottana”, ha cominciato ad essere insofferente a questa indebita violenza e a dare segni di escandescenza, muovendosi convulso sul banco, grattandosi a ritmo costante, sbuffando verso i compagni. Stanca di questo continuo mormorio, ho cominciato ad alzare la voce, a chiedere silenzio, ad esigere rispetto per le compagne interrogate. E così Carlo Maria, nel goffo tentativo di giustificare la sua scarsa disciplina, mi ha guardato con occhi imploranti perdono e mi ha detto: “Lo so, scusi prof. ma mi hanno pienato il maglione di pippoli”. “Pienato”: voce del verbo “pienare”. Oddio mi sento male.

12 commenti:

fabio r. ha detto...

come ti invidio... nel senso che scene come queste - quotidiane anche x me - non stimolano quasi più ( e non sai quanto sono appeso a quel quasi, come un naufrago nel mare di ignoranza contro onde di ignavia...) alcun tenero pensiero di complicita'.
la mia (la nostra?) condizione di precariato sicuro, di ossimoro vivente mi sta togliendo le forze. e la voglia di pescare qualche perla di micro saggezza ed ironia nella catastrofe scolastica.
questo perenne stato di equilibrismo didattico (sedi, classi, materie e sistemi diversi anno dopo anno) non mi lasciano più il tempo di godermi l'essenza della scuola. evpensare che sono diventato insegnante dopo la visione dell'attimo fuggente e la lettura di starnone. sigh!

Bk ha detto...

:-DDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDDD

Bruno ha detto...

con questo tuo magnifico racconto mi hai catapultato indietro di 25 anni .... malinconicamente ti ringrazio..prof...! :-)

Anonimo ha detto...

Come va barbara?:)

Anonimo ha detto...

Fare palline di carta e cerbottanarle con la penna BIC può essere pericoloso per la salute: un mio compagno di banco, che aspirò anziché soffiare, tra poco ci lasciava le penne. Il mio consiglio è obbligare gli studenti ad usare la penna stilografica oppure seguire un corso di pronto soccorso.

Bastian Cuntrari ha detto...

Rendo la visita al mio blog prima di risponderti lì: faccio sempre così, per le "new entry". E scopro con piacere che sei anche tu, come Fabio, un prof.. Mi ha toccato il racconto dei tuoi bimbi al funerale di tua madre, perché mi ha riportato indietro nel tempo: al mio identico lutto.
Avevo 17 anni quando mia madre, uscita di casa "per andare a prendere un caffé a Ostia" (allora abitavamo a Roma) non ha fatto più ritorno a casa, portatami via su di un incrocio maledetto tra il Grande Raccordo Anulare e la via Cristoforo Colombo a soli 46 anni.
Le tante "donne" e "vice-madri" che mi erano vicine in quel momento non mi erano sufficienti: io volevo "lei". Ne cercai tra le lacrime il numero di telefono sull'elenco e tra le lacrime le dissi: "Professoressa, sono ... (cognome, perché allora era così): la mia mamma è morta". Dopo mezz'ora era da me, a tenermi la testa mentre vomitavo nella tazza il brandy che mi avevano dato da bere per superare lo shock, e a rimboccarmi, più tardi, le coperte mentre, la sua mano nella mia, mi sussurrava. "Sono qui... non ti lascio... non me ne vado". Credo di aver preso sonno con quel "tu", mai più ripetuto, dopo, in classe. La mia adorata prof. di lettere, in 2^ liceo scientifico, è stata per qualche tempo la mia seconda mamma. Perché siete anche questo. Se ci credessi, direi "che Dio vi benedica": ma comprendi quel che voglio dire...

Baol ha detto...

Non so, io sono poco speranzoso nei confronti di questi ragazzi...sono un po' pessimista lo so...però, a volte, ci sono cose che mi stupiscono e mi fanno ricredere

Anonimo ha detto...

So quanto adori i tuoi bimbi, traspare non solo da questo post ma da ogni tuo racconto in cui loro sono protagonisti. Ma ogni volta che ne parli, ogni volta che li rammenti, rimango col dubbio se mai i miei prof abbiano pensato (non detto) di noi alunni di allora parole belle come le tue.
Se tornassi a scuola credo proprio che desidererei profs (licenza poetica del plurale rubato all'inglese!) come te.
Francy

Anonimo ha detto...

Mi permetto di suggerire il metodo Wittgenstein, ovvero ceffoni agli studenti distratti. Laddove questo metodo non dovesse dare buoni frutti, è sempre Lui a suggerirci la soluzione: abbandonare l'insegnamento e trasferirsi su un fiordo in Norvegia.

Davide ha detto...

pienare : pienare v. tr. [der. di pieno] (io pièno, ecc.; accanto al part. pass. pienato è largamente documentata una forma senza suffisso pièno), tosc. pop. e ant. – Empire, riempire: ‘pienare’ per «empiere», è di uso comune nel volgo e nella Montagna pistojese (P. Fanfani); avendomi pieno di debiti (Carducci); anche... in usi fig.: Ben tu di re, di duce hai tutte piene Le parti (T. Tasso)

Fonte Treccani...

P.s. Scusa questo mio post. L'ho trovato mentre cercavo conferme, a seguito di una diatriba con una mia amica, sul verbo in questione. Nei reconditi meandri delle mie sinapsi ne ricordavo la correttezza anche se termine desueto oltre che arcaico.

P.p.s. A proposito sei molto carina. Ad maiora

Davide ha detto...

P.P.P.S! Sono della tua stessa provincia e mi hai ricordato PANEVINO&ZUCCHERO!

MMMMhhhhhhh BONI!!!!

Anonimo ha detto...

Ho già scritto ieri che "'pienare"' è un verbo poco usato ma corretto. Sono laureata in lettere ed esperta filologica. Non capisco perché il.mio commento sia stato cancellato