mercoledì 27 maggio 2009

Cagliari, maggio 2009

L’ultima volta che sono stata a Piombino è quando i genitori di Riccardo sono tornati dall’isola d’Elba. C’era anche mia madre con noi in quell’occasione, sempre sorridente nonostante la malattia e la nera signora alle porte. Durante il viaggio, come mille altre volte, parlo a Riccardo di quella città, del suo significato nella mia vita, del suo ruolo di simbolo per la mia e per la nostra storia. La storia di una famiglia, come tante altre. La storia di una famiglia operaia che ha costruito il futuro di una figlia sulle spalle e le mani di un padre che scendeva, ogni santo giorno, in quel cono d’ombra infuocato, polveroso, nauseante, convinto che il suo sforzo avrebbe generato un progresso e un riscatto. Gli operai non ci tengono che i loro figli replichino il loro destino e forse anche quei giovani operai mentre si calavano a pulire quei serbatoi pensavano che i loro sforzi sarebbero serviti a regalare un altro destino ai propri figli. Quando guardo le mani di mio padre mi concentro sulla loro forza e ruvidezza. Sono mani belle, tarlate dal lavoro, forti, spesse. Poi guardo le mie: le unghie ben curate, una callosità che segna un eccessivo uso della penna, la pelle morbida, liscia, addolcita dalla crema. Osservo le mie dita che hanno evitato di portare su di sé la pesantezza di un lavoro manuale e che si sono allenate solo a digitare su questa tastiera, per scrivere la mia tesi, per pubblicare il mio libro, per preparare le lezioni ai miei ragazzi, per esprimere le mie emozioni. Le mie mani hanno avuto la fortuna di essere state addolcite solo dalle carezze e di non essere state invecchiate dallo sforzo. Ma stasera, mentre le osservo, è come se le vedessi trasformare nelle sue. E’ come se il mio sguardo allucinatorio ingrandisse le dita, allargasse il palmo, raggrinzisse il dorso. Perché la loro delicatezza nasconde la ruvidezza di quelle paterne e la stanchezza del suo mestiere. Perché oggi il sentirmi una privilegiata nell’usare la testa invece che le mani per guadagnarmi da vivere, non mi impedisce di sentirmi figlia di quella storia, di volere appiccicati addosso i vestiti di fabbrica di mio padre, di vedere le sue mani nelle mie. E di sentire la mia anima squarciarsi ancora una volta di fronte a quelle morti, accatastate l’una sull’altra nel tentativo di strappare un compagno ad una fine sicura. Stasera i miei pensieri sono per Pierluigi, Bruno, Daniele e le loro famiglie, le mie emozioni sono accordate sul loro dolore e sul loro lutto, sulla fierezza di venire da lì e di sentirmici attaccata nonostante io non abbia nessun segno visibile di questa storia.

“Hai conservato a lungo un corpo teso, veloce. E’ frutto del lavoro manuale, anche se il termine non è esatto, non è nelle mani la fatica. Preferisco chiamarlo lavoro dorsale, è lì che si accumula lo sforzo. Alla sera nel letto risento sulle costole i quintali che mi sono passati addosso. Le mani non penano a lavoro, ma una schiena che è rimasta china o sotto carico tutto il giorno è solo un fascio di nervi indolenziti. Perciò li chiamo lavori dorsali. Con gli anni la cadenza della fatica è entrata nel sangue, la vena batte i colpi necessari, il corpo si conforma allo sforzo regolare. In quelle ore riesco ad accogliere pensieri, c’è un tempo per loro sotto il respiro corto, sotto il sudore. Passano parole in viaggio, appunti che trattengo a mente e mi fanno compagnia. D’improvviso sul cantiere un operaio sotto un lavoro intenso attacca un canto, un’allegria impossibile. E’ lo sfiato di un pensiero uscito dai colpi regolari, mentre spala macerie o attacca calce con il colpo rapido del polso….”
Erri De Luca, Aceto, arcobaleno

2 commenti:

fabio r. ha detto...

come ti posso capire..... io sono (un po' alla Guccini) il primo che ha studiato, da famiglia contadina poi operaia, infine di colletti grigi (troppo pveri per arrivare al bianco) e spesso mi confreonto con questa eredità, che amo e che sento mia, pur avendo scelto - come te - libri ed aule..ma a volte mi chiedo se ne valeva la pena.

p.s. Erri De luca l'ho curiosamente postato anch'io!

Prisma ha detto...

Intense parole, che rispecchiano quanto sono stata e quanto sarò.
Ho per parte di padre origini contadine, di cui vado fiera!
Il duro lavoro non sporca mai, e anche se né io né mio padre abbiamo vissuto in prima persona la fatica di una vita di lavoro nei campi, non posso non pensare ai miei familiari, e al fatto che il loro sudore e i calli sulle loro mani siano anche una parte di me.

(Sono Prisma TBFKA MusEum... scusa, mi è venuta la camaleontite ;) )