Ultima
settimana sulla laguna. Per le feste di Natale traghetto di nuovo nelle mie
stanze in campagna e nel frattempo organizzo il trasloco nella nuova casa e
divento grossetana. Una nuova città, un nuovo perimetro da abitare, un nuovo
inizio su cui concentrarmi. Questa novità mi concede una pausa da quel
malessere che mi si è incrostato addosso, sedimentandosi negli anni, dalla fuga
fiorentina, al distacco londinese, al fallimento di un amore e al naufragio di
un nuovo progetto. Mi sembra di respirare di nuovo, dopo essere stata per anni
soffocata alla ricerca di non so che cosa, dopo essermi sentita apolide ovunque
mi trovassi, dopo aver sperimentato il terribile iato tra i miei desideri e le
mie reali possibilità. Ho combattuto sempre, per anni, con un’assenza, ho riconosciuto
solo mancanze, ho calcolato solo sottrazioni. Io che non so contare, come mia
madre. Ho sempre posto l’oggi sotto la dissacrante e ingiusta lente dei miei desideri,
delle mie aspettative, sminuendolo fino a farmi male, fino a sentirmi sempre e
solo in apnea, alla ricerca di un sospiro ristoratore. Avrei voluto che
Follonica si trasformasse per magia, che “quel rivolo di merda detto Gora”
diventasse il Tamigi, la piazza del
Mercato Coperto Covent Garden e la pineta piena di merde di cani Regent’s Park,
quel polmone verde dietro a Camden dove mi perdevo sempre a correre. E così,
sperando in una impossibile metamorfosi, non sono riuscita a godermi le corse
lungo la spiaggia, il sole quasi perenne in ogni stagione dell’anno, gli odori
della mia campagna. Dopo anni in uno stato di anoressia emotiva, oggi mi sento
sazia. Qui, adesso, in questo posto, in questo lavoro. Con questa inedita
franchezza verso me stessa.
La
nuova casa è piccola, ma molto accogliente. L’ho sentita mia appena l’ho vista.
La casa di mia madre in campagna, perché di questo si tratta, ospiterà una
persona che ne avrà cura come ne avrebbe avuta lei. E anche questa scelta,
inaspettata ma decisa, mi dà un senso di leggerezza e di liberazione che
aspettavo da anni. Oggi, mentre guidavo
verso Orbetello, lo sguardo mi si è fermato come sempre sulla sagoma di quell’ospedale
che ci ha ospitato in quei terribili giorni e mi è venuto da urlare a un cielo
per me da sempre muto: “mamma, ce l’ho fatta”. E mi è sembrato il regalo più
bello che avrei potuto fare, non solo a lei, ma soprattutto a me stessa.
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