Devo
imparare ad amare i miei cedimenti. Devo imparare a riconoscere i miei passi
falsi, a dare loro un nome, devo individuare le crepe della mia coscienza, i
punti precisi dove si attaccano le mie incertezze, iniziando ad erodere il
tutto. Perdono a tutti, ma non a me stessa. Mi infurio con gli studenti troppo
esigenti con il sé, incapaci di individuare dei limiti ma perfettamente
addestrati a indicare, ogni volta, un obiettivo più alto. E abilissimi a
rimanere schiacciati di fronte ad inevitabili delusioni di fronte a vette
troppo alte. Ma io non sono molto diversa da loro e forse è proprio vero che si
insegna meglio quello che si è per primi desiderosi di imparare.
Sono
sempre stata bravissima a credere che il giardino del vicino, qualunque giardino
di qualunque vicino, fosse comunque più verde. Al confronto, il mio appariva
pieno di erbacce infestanti. In effetti, se penso al prato dei Poggetti, non sono
molto lontana dal vero. Ma quella casa, quella campagna, quei tulipani piacevano
a mia madre, non a me. Sono sempre stata imbattibile nell’arte mimetica del
voler assumere la fisionomia degli altri, così a disagio nella mia, tanto
quella del corpo che quella della mente. Circondata da un vespaio di
concorrenti, tutti più belli, più bravi e, soprattutto, più fortunati di me.
Impareggiabile
nell’arte del piangersi addosso, insuperabile nell’esercizio sfiancante di
rintracciare solo mancanze, ho cercato, in questi ultimi anni, di salvarmi da
un profilo informe, quale per me era la
mia stessa vita. Ho pensato per anni che mia nonna avesse ragione nella sua
franchezza, che avrei dovuto fermarmi, aspettare, ho vissuto come una
menomazione il fatto che il mio ventre
non fosse diventato albergo di una nuova vita, che non fossi stata
capace di costruire un futuro dai contorni decisi. Così mi sono abilmente rinchiusa
in una caverna di platonica memoria e ho guardato le immagini della mia vita
scorrere come ombre sulla parete, consapevole che non fosse la mia, che fosse
un inganno, che stessi in realtà fuggendo da me stessa. “Somigliano a noi;
risposi. Credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni,
altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta
loro di fronte?”.
Adesso
è il momento in cui i miei occhi, avvezzi all’oscurità, si ritraggono
infastiditi a tutto questo bagliore. Perché questi mesi in cui ho scelto, ho
deciso e, soprattutto, ho reciso, mi hanno restituito a una luce vivida e
intensa. Anche il cielo scuro e opaco di Londra mi sembrava abbagliante.
“
Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lì a forza, su per l’ascesa scabra
ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non
ne soffrirebbe e non si irriterebbe di essere trascinato? E, giunto alla luce,
essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che
ora sono dette vere…dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo
superiore”.
Sento,
in questi giorni di aprile, che ho superato il rodaggio e che mi sono abituata
alla luce. Quella che mi fa vedere le cose dalla giusta prospettiva, che mi
libera dagli inganni, che mi mostra me stessa, limpida, in tutto il suo
splendore. Sì, in tutto il suo splendore. Perché stasera, dopo anni di innaturali
metamorfosi, non vorrei mai essere diversa da quello che sono. E sono pronta a
rischiare delusioni, cedimenti, cadute, pur di non perdere questa dimensione
dell’autenticità. Che bella la mia Londra che mi restituisce sempre a me
stessa.
“Così
me ne vado lontano lontano,
e
sopra il mio berretto ci sono solo le stelle”
(W.
Goethe)