giovedì 4 aprile 2013

Sopra il mio berretto ci sono solo le stelle...




Devo imparare ad amare i miei cedimenti. Devo imparare a riconoscere i miei passi falsi, a dare loro un nome, devo individuare le crepe della mia coscienza, i punti precisi dove si attaccano le mie incertezze, iniziando ad erodere il tutto. Perdono a tutti, ma non a me stessa. Mi infurio con gli studenti troppo esigenti con il sé, incapaci di individuare dei limiti ma perfettamente addestrati a indicare, ogni volta, un obiettivo più alto. E abilissimi a rimanere schiacciati di fronte ad inevitabili delusioni di fronte a vette troppo alte. Ma io non sono molto diversa da loro e forse è proprio vero che si insegna meglio quello che si è per primi desiderosi di imparare.
Sono sempre stata bravissima a credere che il giardino del vicino, qualunque giardino di qualunque vicino, fosse comunque più verde. Al confronto, il mio appariva pieno di erbacce infestanti. In effetti, se penso al prato dei Poggetti, non sono molto lontana dal vero. Ma quella casa, quella campagna, quei tulipani piacevano a mia madre, non a me. Sono sempre stata imbattibile nell’arte mimetica del voler assumere la fisionomia degli altri, così a disagio nella mia, tanto quella del corpo che quella della mente. Circondata da un vespaio di concorrenti, tutti più belli, più bravi e, soprattutto, più fortunati di me.
Impareggiabile nell’arte del piangersi addosso, insuperabile nell’esercizio sfiancante di rintracciare solo mancanze, ho cercato, in questi ultimi anni, di salvarmi da un profilo informe, quale per me era la mia stessa vita. Ho pensato per anni che mia nonna avesse ragione nella sua franchezza, che avrei dovuto fermarmi, aspettare, ho vissuto come una menomazione il fatto che il mio ventre non fosse diventato albergo di una nuova vita, che non fossi stata capace di costruire un futuro dai contorni decisi. Così mi sono abilmente rinchiusa in una caverna di platonica memoria e ho guardato le immagini della mia vita scorrere come ombre sulla parete, consapevole che non fosse la mia, che fosse un inganno, che stessi in realtà fuggendo da me stessa. “Somigliano a noi; risposi. Credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?”.
Adesso è il momento in cui i miei occhi, avvezzi all’oscurità, si ritraggono infastiditi a tutto questo bagliore. Perché questi mesi in cui ho scelto, ho deciso e, soprattutto, ho reciso, mi hanno restituito a una luce vivida e intensa. Anche il cielo scuro e opaco di Londra mi sembrava abbagliante.
“ Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lì a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non si irriterebbe di essere trascinato? E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere…dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore”.
Sento, in questi giorni di aprile, che ho superato il rodaggio e che mi sono abituata alla luce. Quella che mi fa vedere le cose dalla giusta prospettiva, che mi libera dagli inganni, che mi mostra me stessa, limpida, in tutto il suo splendore. Sì, in tutto il suo splendore. Perché stasera, dopo anni di innaturali metamorfosi, non vorrei mai essere diversa da quello che sono. E sono pronta a rischiare delusioni, cedimenti, cadute, pur di non perdere questa dimensione dell’autenticità. Che bella la mia Londra che mi restituisce sempre a me stessa.

“Così me ne vado lontano lontano,
e sopra il mio berretto ci sono solo le stelle”
(W. Goethe)

mercoledì 3 aprile 2013

Con l'infinito nel palmo della mano



Sono a letto con un terribile mal di pancia. Mamma diceva sempre che le mestruazioni dolorose fossero un brutto inconveniente dell’essere donna ma che presto mi sarebbero tornate utili, come a lei, nel rendermi più sopportabili le contrazioni del parto e i suoi consigli su come stemperare i dolori, tisane di melissa e borsa dell’acqua calda, reggono ancora ai segni del tempo. Ho provato a studiare oggi pomeriggio ma faccio fatica a rintracciare un minimo di concentrazione necessaria e vacillo di fronte ad obiettivi sbiaditi, di cui a stento percepisco il perimetro. Adesso, dopo che il rumore assordante dei lavori alla facciata del palazzo si è finalmente spento, cerco di concentrarmi sulle emozioni di questo ritorno, sugli incontri di questi giorni londinesi, sui profumi di strade terribilmente familiari. Penso ai miei arrivi e alle mie partenze. Penso a tutte le volte che ho dovuto scegliere. Penso a tutte le altre volte che qualcuno ha scelto per me.  Le mie partenze da Londra hanno sempre avuto un profumo di sottofondo e una colonna sonora. Nel 2003 partivo da sola, da Gatwick, e avevo addosso il profumo della casa di Camden e nelle orecchie l’allegria di quel gruppo americano che ancora oggi canticchio per alleviare la malinconia e per sentirmi ancorata a quei giorni.
Tre anni dopo sono partita da Stansted, con Giovanna, in un volo Rayanair acquistato di fretta per riuscire ad essere a casa il giorno prima l’operazione di mia madre. Lì non c’erano profumi, non c’erano musiche ad accompagnare un distacco vissuto come un esilio forzato, violento, ingiusto. C’era solo una paura che paralizzava ogni pensiero e che toglieva il fiato.
Quest’ultima partenza è stata accompagnata dal profumo di un cornetto alle mandorle mangiato in aeroporto e dalla musica di Gabriel Yared. E da tanti pensieri. Ogni partenza da Londra trabocca malinconia. Questa, forse, più delle altre volte. Perché mi sembra di darmi un obiettivo irrealizzabile, difficile, non più alla mia portata.  Mi guardo il viso e vedo le rughe di una donna che ha quasi quarant’anni. Poi penso che sto chiedendo a me stessa uno sforzo che potrebbe dare una mia studentessa di poco più di vent’anni: imparare bene una nuova lingua, reinventarsi un lavoro, magari fare un nuovo dottorato, prendersi un anno di aspettativa, provare, di nuovo. Tentare, senza paura. E con la consapevolezza che, questa volta, avrei il paracadute per salvarmi e tornare indietro. E come al solito di fronte a simili pensieri mi paralizzo in una immobile fissità: apparentemente sensate, simili prospettive mi sembrano ormai fuori tempo. Oggi mi sento vecchia, nonostante il mal di pancia sia lancinante come quando avevo quindici anni.  
Mi domando se continuerò sempre a rincorrere quello che non ho, mi chiedo se sarò continuamente alla ricerca di un nuovo obiettivo, mi interrogo su quanti nuovi tortuosi cammini saprò disegnare con le mie stesse mani, di fronte a quanti altri bivi dovrò ancora arrestarmi, senza tema di perdermi. Ma poi però capisco che una vita immobile, diversa da quella che vivo io, sempre in movimento, sempre insoddisfatta, sempre alla ricerca sarebbe di una noia mortale. Più semplice, senza dubbio, ma terribilmente noiosa, e assolutamente non mia. Allontano la borsa dell’acqua calda perché mi sto sciogliendo, mi accorgo che i muratori sui ponteggi hanno finito di smartellare, mi alzo e prendo dall’ultimo ripiano della libreria un libro amatissimo di Gioconda Belli. Penso a Londra, alle persone che ho incontrato, a quell’entusiasmo autentico, sincero e sfrontato che mi ha accolto appena arrivata in città e capisco che non posso fare altro che questo: vivere in questo lembo di Maremma, in questa città a pochi chilometri dal mare e tornare, ogni volta, appena posso, appena ho tempo, appena ne ho voglia. A respirare di nuovo aria di casa.

«“Ma tu  e Adamo, a differenza di tutte le altre creature dell’Universo, avete la libertà di decidere ciò che volete. Siete liberi di mangiare o non mangiare i frutti di quest’albero. Elohim sa che la storia comincerà solo quando avrete fatto uso di questa libertà, ma come vedi ha paura che lo facciate, perché teme che la sua creazione finirà per assomigliargli troppo. Preferirebbe contemplare per sempre il riflesso della sua innocenza. Per questo vi proibisce di mangiare questi frutti e di essere liberi. Ma forse la libertà non è per voi. Guardati, il solo pensiero ti paralizza”.
“Sembra che tu voglia farmi mangiare questi frutti.”
“No, invidio solo la tua possibilità di scegliere. Se mangerete questi frutti tu e Adamo sarete liberi come Elohim”.
“Tu cosa sceglieresti, la conoscenza e l’eternità?”
“Io sono un Serpente e come ti ho già detto non posso scegliere”»
(G. Belli, L’infinito nel palmo della mano)