venerdì 28 marzo 2008

Ritardi

Ho vissuto queste vacanze di Pasqua appena passate in maniera intensa, godendomi la mia amata Follonica e il suo odore di mare, senza nessuna nostalgia o voglia pazza di rintanarmi nella tana di Orbetello, al puzzo della laguna. Mi sono goduta la mia casa in campagna, nonostante i mille disagi, mi sono goduta, consumandola con le coccole, una mamma sempre più stanca ed in attesa di un nuovo ciclo di chemioterapia. Ho però vissuto questi giorni con un nuovo, inedito e direi fastidioso senso di ritardo, con una strana sensazione di essere "fuori tempo", rispetto a che cosa non so. O meglio lo so, ma non l'ho ancora decantato e messo attentamente a fuoco nella mia mente ovattata. Sono in ritardo rispetto all'immagine di Barbara nel 2008 che mi sono costruita durante la mia adolescenza e sono fuori tempo rispetto a tutte le persone care che realizzano ciò che a me sembra sfuggito di mano: una casa che parla di loro, una coppia stabile, un bambino o una bambina che sgambettano per casa. Mi chiedo, adesso, se questo sia davvero ciò che voglio o se sia solo un sentiero interrotto, uno di quei tanti sogni irrealizzati con cui devo fare, nolens volens, i conti. Con questo pensiero che non lasciava la mia mente smettere di ruminare, mi sono messa a cercare un articolo di giornale tra i tanti che ritaglio in maniera maniacale ad ogni lettura quotidiana. Non l'ho trovato (dove diavolo si sarà cacciato???), ma ho scovato una striscia di carta con un bel bezzo di Dario Voltolini, pubblicato sul "La Stampa" alcuni giorni fa. L'ho riletto ed ho pensato di trascriverlo. Riflette bene le mie sensazioni di questi giorni, nonchè un'ansia congenita che mi si scatena tutte le volte che sono a Roma a trovare la mia dolcissima Alida.

"In occasione della Giornata Mondiale della Lentezza mi è tornato in mente un ricordo di qualche anno fa. Mi trovavo a Roma, dove ero andato a fare visita a un amico. Questo amico, un giornalista molto preparato e professionale, doveva raggiungere un luogo in centro città dove era prevista per le 10 di quella mattina una conferenza stampa. Alle 9.30 eravamo ancora a casa sua, da tutt'altra parte della città. Io già mi stavo un poco agitando, come se fossi - io! - in ritardo. Ma l'amico mi tranquillizzava: 'A Roma diciamo le dieci per dire le dieci e trenta, o anche undici meno un quarto'. Alle 10 mi sembrò che fosse comunque ora di muoversi. Ma lui: 'Sì, sì, adesso scendiamo al bar e facciamo colazione, poi ci vorranno dieci minuti, un quarto d'ora'. Venti minuti dopo ero molto, molto in ansia. Lui mi guardava divertito: 'Questi del Nord...' vedevo che pensava. Entrammo al bar alle dieci e quaranta. Fatta colazione, ci dirigemmo verso il centro. Arrivammo alle undici e mezza. La conferenza stampa era finita da un pezzo. Il mio amico si rabbuiò. Non tanto per il suo ritardo, anzi, per quello proprio per niente: era indispettito invece dal fatto che quelli avessero già finito. Cercò di scusarsi con me per la pessima prova che la città aveva dato. "Che imbecilli", disse. "Ora devo leggermi tutta la cartella stampa per scrivere il pezzo!'. Questo ricordo mi permette di osservare come a nulla serva muoversi con lentezza, se gli altri sono veloci. Ma soprattutto, che la lentezza non è salubre se noi ci sentiamo in ritardo, mentre lo è se consideriamo gli altri come nevrotici istericamente in anticipo. Io, per esempio, mi sento sempre in ritardo, pertanto vivo la mia lentezza e la mia pigrizia in modo tutt'altro che riposante. Il massimo che ne ricavo sono certe scuse deboli. Per dirne una, avrei potuto sviluppare riflessioni molto più profonde di queste sulla Giornata Mondiale della Lentezza, osservare che dopo Einstein un concetto come la Lentezza preso da solo non significa nulla, citare coltamente Nadolny, svelare come lo sponsor ufficiale della ricorrenza fossero le nostre Ferrovie dello Stato, smascherare l'ipocrisia di chi vole vivere lentamente purchè il proprio computer diventi ogni giorno più veloce, e così via.
Ma purtroppo avevo poco tempo e il pezzo andava consegnato tempestivamente...e insomma, ho dovuto fare in fretta..."
Bravo Dario Voltolini.

giovedì 13 marzo 2008

Paradosso vivente

Spiego ai ragazzi di seconda la filosofia di Blaise Pascal e li vedo rapiti, come ero io alla loro età, di fronte ai suoi "Pensieri", a "quell'officina in pieno disordine" che sono i suoi appunti pubblicati postumi dai suoi allievi. Li vedo annuire, ascoltare in religioso silenzio (quando mai?), confrontarsi tra loro, chiedere. Mi soffermo con più attenzione sul tema dell'uomo come "paradosso vivente", come eterna contraddizione, come desiderio frustrato, come anelito verso un qualcosa che sempre si cerca e mai si raggiungerà.
Metto sempre un po' di me stessa nelle mie lezioni, cerco sempre di amalgamarmi con loro e con le riflessioni che cerchiamo ogni volta, con risultati ondeggianti, di costruire. Così stamani pensavo al mio paradosso, alle mie eterne contraddizioni. La primaria, non ancora diluita nella stabilità dell'età adulta, tra istinto di fuga e necessità di radicamento. Comincio ad essere stanca di questo nomadismo a cui mi condanna questo lavoro, sono esausta di non avere una casa mia, che parli di me, sono stanca di spostarmi ancora con pacchi e valigie e di sentirmi apolide, ovunque mi trovi. Sono stufa di questa sensazione di essere una eterna "fuori posto": a Firenze, qui sulla laguna, nella mia città. Vorrei mettere radici, vorrei trovare uno spazio da abitare con il corpo e con la mente, vorrei sentirmi a casa. Eppure, nonostante questa voglia di restare, sono notti che sogno il viaggio, di nuovo, come anni fa. Se riesco a non sognare le strade londinesi, sogno comunque una partenza, di solito in macchina, al buio, sola, impaurita ma decisa. E ripenso a Kafka, alle letture di anni fa, allo spirito della fuga che segnò un salutare rischiaramento. Ma dove me ne voglio andare? Con quali strane sensazioni mi trovo oggi a combattere...a volte vorrei essere inghiottita da questa terra, assorbita nel ventre materno, incollata al qui ed ora di questo momento che vorrei interminabile. Altre volte sogno vele aperte ed un vento forte che mi spinga al largo, anche se incerto e nebbioso. E così se oggi vorrei essere strozzata da questa rete ed immobilizzata all'oggi, so già che domani (o meglio stanotte, nella sincerità dello spazio onirico) cercherò avida una piccola maglia da cui balzare fuori.
Per adesso me ne torno in classe e penso che la maglia rotta nella rete, quella vera, l'ho individuata in quel maggio 20o6 quando ho chiuso la porta di quel maledetto Dipartimento. E già mi viene da ridere e da impazzire da gioia.
Vorrei scrivere di molte cose, ma sono così incostante in questi giorni.

martedì 4 marzo 2008

L'estate di Vermicino

Quando Riccardo mi confidò di essere nato nel 1980 io commentai così: “L’anno di Alfredino Rampi”. Non so bene per quali tortuosi giri della memoria, ma il mio pensiero andò a Vernicino e a quella ferita nella mia anima di bambina delle elementari che non so bene se si sia o mai rimarginata. In realtà la mia risposta non fu corretta: mi ero sbagliata di un anno, perché Alfredino fu inghiottito nel giugno del 1981 e, dopo alcuni giorni, morì la sotto, in quel pozzo artesiano di trenta metri che famelico se lo inghiottiva di ora in ora e lo divorava strappandolo alle mani ossute di quegli esilissimi speleologi che invano cercarono di riportarlo a sua madre. Ogni giorno sembrava che il piccolo avrebbe rivisto presto la luce del sole, il cielo dei castelli romani, risentito la voce della madre che la scaraventava in fondo a quel pozzo nella speranza di tranquillizzare il suo piccolo sparito laggiù. Invece le ore si susseguivano, i grandi incollati al teleschermo a scrutare le imprese di chi si calava in un buco largo appena trenta centimetri, sperando che Alfredino fosse lì, a portata di mano. E noi piccoli a chiederci quanto crudele fosse quella terra su cui camminavamo tranquilli se era davvero capace di divorare i bambini che su di lei muovevano i primi passi. Ricordo che quando Alfredino morì, a trenta metri di profondità, io non riuscivo più a giocare in campagna come ero solita fare. Ricordo che la Barbarina di quell’estate, in quella casa fuori città che adesso abito da sola quando non sono ospite della laguna, circondata da campi di grano, da frutteti, da vigne e da oliveti, non aveva la forza di giocare da sola per paura che la terra si aprisse sotto i suoi piedi e non la lasciasse più tornare in superficie. Vedevo buchi neri e profondi ad ogni passo, immaginavo voragini senza fondo nascoste ovunque ed ho continuato a pensarci per un bel po’, fino a che gli anticorpi di noi bambini non hanno spazzato vie le paure e le angosce di quel giugno 1981. Non avrei davvero pensato, dopo Alfredino, di provare la stessa identica angoscia di fronte a bambini inghiottiti dal buio. Di fronte ai fratellini di Gravina bloccati in quella cisterna mi si blocca il respiro e credo che tutti abbiano provato la vivida angoscia che si vive di fronte all’impensabile e all’assurdo. E magari, qualcuno, come me, di fronte a due innocenti Alfredini, ha riscoperto una ferita ancora aperta nella memoria e mai cicatrizzata.