mercoledì 30 agosto 2006

Tre cavalli


Sono di nuovo sotto questo cielo da alcuni giorni, a casa. Qui, come a Londra, è da poco cominciata una nuova giornata. Una giornata come le altre, per il calendario di molti. Per il mio calendario, quello che marca lo scorrere della mia esistenza, oggi è la giornata del giudizio, quello implacabile ed inappellabile, quello che decide tra la vita e la morte. Nei giorni londinesi non mi sarei mai immaginata di dover accompagnare la malattia di mia madre e di affrontare tutto questo con la forza e la lucidità che invece segnano le mie giornate. Bene, forse non faccio che trovarmi di fronte ad un nuovo anticorpo, regalatomi da una tanto attesa crescita che Londra ha così bene indirizzato.
Adesso mi trovo ad abitare questa casa in dolorosa solitudine, con il pensiero rivolto a quella stanza di ospedale e a chi la abita, assaporando l’amarezza di non poter pregare e la durezza dell’attesa, nella speranza che questa notte voli via insensibilmente.
In questi giorni ho dovuto adattarmi ad abitare di nuovo spazi non più familiari, a vivere relazioni illanguidite e sfocate dallo scorrere degli anni, a recuperare abitudini e movenze perse da tempo. Ma è tutto così terribilmente necessario, adesso.
Domani andrà tutto bene, ne sono certa. Ti resta ancora un cavallo, tesoro mio.

“Tre anni una siepe, tre siepi un cane, tre cani un cavallo, tre cavalli un uomo”
Erri De Luca, Tre cavalli.

lunedì 14 agosto 2006

Contaminazioni

Il mio modo di vivere Londra è in queste pagine. Le visioni che questa città mi ha regalato sono rinchiuse nello spazio, reale e metaforico insieme, del mio blog. Ho deciso di condividere le mie emozioni, ho deciso, partorendo queste pagine, di dirottare le mie parole dal loro luogo di origine, lasciandole in lenta infusione e facendole sedimentare su queste pagine virtuali. Se rifletto sulla mia scrittura capisco che non è altro che una nuova religione della parola a cui mi sono consacrata, religione che non solo mi consente di realizzare una nuova vicinanza a me stessa, aprendo il sipario sull’eternamente taciuto, ma si fa intercettazione, mescolanza, contaminazione. Se per anni il mio dire è stato un monologo, una conversazione in un’aria rarefatta, oggi le mie parole si fanno agili e percorrono chilometri, si trasformano in “frecce infuocate che il vento o la fortuna sanno indirizzare” ed operano una fruttuosa contaminazione, intercettando sguardi attenti e “compassionevoli” che danno ad una narrazione prima singolare il dolce sapore del riconoscimento, aiutandomi a distinguere i molteplici volti e voci che mi abitano. Se per lungo tempo le mie parole mi hanno trasmesso un leggero timore, oggi non ne ho più paura, ma le interpreto come segni lungo la strada impervia ed inevitabile che mi conduce all’appartenenza. Oggi mi appartengo molto di più di quanto non lo facessi prima della partenza e mi riconosco in me stessa, nei miei gesti, nelle mie parole, nella decisione di affrontare il tutto con ardente pazienza.

“Se un individuo si descrive con sincerità, la cosa tocca più o meno tutti. Impossibile fare luce sulla propria vita, senza illuminare in qualche punto quella degli altri”
S. De Beauvoir, L’età forte.

Salite e discese

Sono sempre fuori nonostante il brutto tempo che si è abbattuto su Londra in questi giorni. Sto cercando di respirare a pieni polmoni l’aria di questa città, per costruirmi un deposito personale di energie da cui attingere nei prossimi mesi. Sono molte le cose su cui sto riflettendo in questi giorni, dalla strada che ho percorso, alle contaminazioni e mescolanze che mi ha offerto la mia scrittura, a quel rendiconto davanti a me stessa che questa archeologia del vissuto mi sta regalando.
Penso alla salita di questi mesi, al respiro affannoso durante le salite, alla gioia di respirare a pieni polmoni nelle tappe intermedie, al cammino veloce lungo le discese, al tentativo di individuare la cima innevata e vederla sempre più vicina. Rifletto sui paesaggi ammirati dall’alto, sui dirupi su cui mi sono affacciata, sulle immagini di fronte alle quali ho distolto lo sguardo, sui colori che ho contemplato con occhi assorti. Questi mesi sono stati per me la fatica di arrampicarmi lungo pendii scoscesi e pareti a strapiombo, per poi godere del recupero nelle pianure e respirare l’aria inebriante delle vette altissime.
Così ho capito che, nonostante il forzato rientro sembri, a prima vista, riportarmi indietro, questo non coinciderà mai con un ritorno al punto di partenza. L’aereo atterrerà da dove sono partita, ma adesso ho altri occhi con cui osservare il paesaggio che mi aspetta ed ho parole da urlare, non più da sussurrare. I muscoli delle mie gambe si sono ingrossati in questo cammino ed adesso faccio molto meno fatica a proseguire il percorso. E’ come una lunga corsa: i primi venti minuti servono per costruire il fiato e poi si va, si macinano chilometri e ogni volta la fatica è meno difficile da sopportare ed il respiro si fa via via più lineare e meno affannoso.
Dentro di me sento aprirsi fratture ed a volte percepisco l’acuto timore di perdermi in brandelli prima d’aver capito la nuova trama del mio essere; eppure in fondo in fondo percepisco un inedito senso di libertà, la sensazione di essere affacciata sul limite di un continente che finalmente potrò esplorare senza paura. Se prima ero, di fronte a me stessa, un oggetto indistinto e disperso oggi mi riconosco nei miei passi, nelle scelte che faccio, nelle cesure sofferte che ho operato.
Adesso mi aspetta una discesa ma, come dice Erri, è lì che si scorge la vera abilità dello scalatore.

“La cima è la promessa mantenuta al ragazzino che strepita in ognuno di noi, è il più certo dei limiti sul quale metti i piedi, ma è visita breve, solo in discesa si completa l’impresa”.
Erri De Luca, Sulle tracce di Nives.

giovedì 10 agosto 2006

Tremori

Anche stamani mi sono concessa alcune ore di piacevole cammino, nonostante la pioggerellina che mi ha costretto, per un po’, a tenere aperto l’ombrello. Ho camminato fino all’incantevole Muswell Hill, fermandomi in una pasticceria a Crouch End dove mi sono regalata un croissant e un black coffee, visto che devo recuperare qualche chilo dopo l’“inconveniente malattia”. Seduta a gustarmi una piacevole colazione ho ammirato i gesti affettuosi di una madre a una figlia ed ho focalizzato il mio sguardo su quelle carezze, chiedendomi quante volte lei li abbia ripetuti verso di me.
Vorrei che la voce non mi tremasse, ogni volta che parlo con lei. Mi sforzo a mantenerla calma, lineare, evitando quella balbuzie nervosa che caratterizza i pensieri di questi giorni. Vorrei comunicare ogni volta una sensazione di profonda calma e convinta serenità ma la mia voce, ogni volta, mi tradisce e mi rivela.
Poi se rifletto capisco che tra madre e figlia è proprio la voce il medium per eccellenza, perché è quella voce che ha stabilito i tuoi contatti, che ha creato le tue relazioni, che ti ha svelato il mondo. Siamo legate, io e lei, non dai significati ma da quelle vocalizzazioni che ci legano dalla nascita, che hanno stabilito il nostro contatto mediante echi e risonanze vitali. Anche lei mi dice che le piace sentire la mia voce, come a me piace sentire la sua: è una vocalità primaria e dolce come il latte.
Tutto questo per me oggi significa trasformarmi in premurosa madre, ribaltare la direzione della generazione, nonché riscoprire il significato oscuro della prima relazione e rivisitare completamente quella diade che ci marca dall’inizio fino alla fine. Recupero memorie infantili, leggo equilibri dolorosi, dissotterro atavici sensi di colpa. Tutto questo inaugura un cammino difficile ma necessario: vorrei solo urlarle di non sentirsi sola, di sentire la mia presenza in ogni fotogramma delle sue giornate e di sapere che non esiste, nella vita di una donna, relazione più forte di quella con la propria madre.
Ho anticipato il volo del ritorno: se nessuno mi fa saltare in aria, arrivo a casa nel primo pomeriggio di lunedì 21. Ho già cominciato a far capire alle mie radici che dobbiamo lasciare il terreno, sradicate con la peggior violenza. Sono tante le cose che mi fanno tremare, oggi: la sofferenza, la malattia, il ritorno. Vorrei anche scrivere sul tremore di questa città, su questa oscura minaccia che pende su Londra e che mi fa infuriare di rabbia, ma stasera non mi sento in forma.

“Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire,
sono qui, solo, con te, in un futuro aprile”
P.P. Pasolini, Supplica a mia madre.

domenica 6 agosto 2006

Anticorpi

In tutti questi anni non sono mai stata molto fiera di me, o meglio, non ha mai ben capito quale fosse il “me” di cui essere più o meno soddisfatta. Ho sempre altalenato la mia debole soggettività tra un modello e l’altro, convinta che dovessi per forza assomigliare a qualcuno, incapace da sola a costruire un mio personale ed esclusivo modo di essere. Ieri sera ho capito che adesso sono molto più forte e che è venuto davvero il momento di rinchiudere per sempre nell’armadio questa insicurezza cronica e questa scarsa autostima. Loro sono felici? Bene, anche io lo sono per loro. Sono sposati, hanno una bella casa di proprietà, aspettano un figlio? Che Dio li benedica. E se qualcuno osa chiedermi perché me ne sto ancora in giro per il mondo incerta e titubante alla mia età, invece di scegliere il vestito bianco e sfornare bambini ora non tremo più, ma rispondo che non è più quello che voglio. Questo è il primo anticorpo che Londra mi ha regalato, il non tremare di fronte alla notizia di una felicità altrui, che per anni ho desiderato essere anche la mia.
Oggi, per fortuna, comincio davvero a sentirmi meglio. Credo che domani sarò di nuovo in grado di uscire, pronta a gustarmi questa città, fino a farmi quasi stordire e narcotizzare dalla sua bellezza e dal suo calore, in modo da non soffrire troppo la sua mancanza. Nel pomeriggio un barlume di saggezza ha però visitato la mia mente sempre in movimento, facendomi capire che non c’è nessun motivo razionale di angoscia. Qualora le cose dovessero risolversi come tutti ci aspettiamo sono sempre in tempo a balzare in corsa sul primo aereo e tornare, qualora le attuali preoccupazioni dovessero invece risultare fondate, cosa che mi terrorizza come niente altro, Londra sarà certo l’ultimo dei miei pensieri. Diciamo che me ne sto andando a casa a fare un “sopralluogo” ed a farmi qualche bagno al mare….cosa che non guasta.

sabato 5 agosto 2006

To go back in time

Dopo una settimana di malattia, nonché due giorni di ospedale, oggi ho ripreso quanto meno a mangiare come si deve ed a muovermi dal letto. Ho ricominciato anche a studiare inglese, ma con deludenti risultati, visto lo scarso entusiasmo. In aggiunta ieri sera, prima di addormentarmi, ho prenotato il volo del ritorno: la partenza è così fissata per mercoledì 23 alle 20.15, dall’aeroporto di Stansted. Ho trovato un volo non proprio economico, per essere un volo Ryanair, ma almeno viaggio con Giovanna che anestetizzerà il distacco con il suo umorismo.
Sono terrorizzata. Non solo per le motivazioni del mio ritorno ma anche perché tutto questo non è altro che un passo indietro nel tempo e io, adesso, non sono affatto pronta. Non sono pronta a ritrovare tutto come l’avevo lasciato, non sono pronta a rivivere anche un solo minuto di tutto ciò che mi ero lasciata, con tanti sforzi, alle spalle. Mi aspetta una fatica bestiale, una salita ripidissima, niente affatto paragonabile a quella che ho dovuto affrontare per arrivare qui. E so che là sarò davvero sola, senza nessuna via di uscita, con tutti che mi chiederanno come è stata questa vacanza senza sapere che per me non lo è stata affatto e che mi ripeteranno allo sfinimento di quanto si viva meglio lì, magari nel modo che loro stesso hanno scelto. Appunto, scelto. Spero solo che questa Londra amatissima e indimenticabile mi abbia fatto il regalo inatteso di qualche anticorpo.
Stasera mi legherei alla statua di Nelson, pur di non andarmene. Ma ora c'è qualcosa più importante di me a cui badare e mi sento avvolta dai sensi di colpa a sentirmi così male all'idea di partire. Tu lo sai perchè ho paura, tu lo sai perchè sto male, ti prego, perdonami.

giovedì 3 agosto 2006

A tua immagine e dissomiglianza

Piombino va attraversata di notte per averne davvero paura. Durante il giorno l’Isola d’Elba in lontananza ed il mare attenuano la violenza di quello che è stato fatto a quello che è, in realtà, un angolo di paradiso. Tutte le volte che attraverso quella città, che mi inoltro con lo sguardo in quella ragnatela di impianti, in quel puzzle metallico, in quel bagno turco di fumi nauseabondi sento pulsare nelle vene il tuo battito, e sento spuntare ai miei piedi quelle radici che si incuneano nel terreno simbolico della storia operaia di quella città, che è anche la tua. L’“inferno” lo chiami tu e, seppure non ci sia mai entrata, anche io mi sento un po' di inferno appiccicato addosso ed a volte mi sembra che anche la mia testa abbia il rumore di Piombino di notte.
Sento sulle spalle il peso di un impegno che mai sarò in grado di onorare, soprattutto qualora decidessi di percorrere strade che non sono le tue. La sensazione perenne di dover esaurire un debito adesso si è trasformata in un fardello pesantissimo che mi prostra a terra e mi blocca, rendendo difficile qualsiasi passo. O meglio, rendendo impossibile qualsiasi partenza verso lidi che non combacino con le tue aspettative.
Sento la tua andatura nelle mie scarpe e la tua fatica in ogni mio passo, in ogni conquista, in ogni giro di boa. Purtroppo, di tutto questo non sono ancora libera. Le tue parole sono per me ogni volta un peso nuovo da portare ed inaugurano un passo all'indietro rispetto ad un minuscolo pezzo di strada che con tanta fatica avevo percorso. Tu mi vorresti a tua immagine e somiglianza: vorresti che parlassi un identico alfabeto, che mi entusiasmassi per le stesse cose, che godessi dei medesimi piaceri, che riuscissi ad abitare quei tuoi spazi che, da anni ormai, non sento più miei. Sì, io lo sono, a tua immagine: negli occhi, in quel bozzetto sul capo che marcava il segno delle generazioni, nell’amore per quelle magliette cariche di sudore dopo una lunga corsa, nell’irascibilità che spesso segna i nostri atteggiamenti, nella volontà a non piegarsi, mai, anche di fronte alle più sfavillanti promesse. Ma io sono a tua immagine e dissomiglianza, perché non sono tu, nonostante continui a crescere sotto la tua ombra. Io sono diversa, io sono altro, io sono IO, nel bel mezzo della corsa. Che è la mia, ricordalo, e non la tua.

Forse non potrei agire con voi, casa di Israele, come questo vasaio? Oracolo del Signore. Ecco, come l'argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani, casa di Israele. Talvolta nei riguardi di un popolo o di un regno io decido di sradicare, di abbattere e di distruggere; ma se questo popolo, contro il quale avevo parlato, si converte dalla sua malvagità, io mi pento del male che avevo pensato di fargli. Altra volta nei riguardi di un popolo o di un regno io decido di edificare e di piantare; ma se esso compie ciò che è male ai miei occhi non ascoltando la mia voce, io mi pentirò del bene che avevo promesso di fargli”.
Geremia, 18-1;19-15

martedì 1 agosto 2006

Anamorfosi

Alla National Gallery di Londra c’è un quadro che ho sempre molto amato, sin dagli anni universitari, seppure non abbia mai studiato storia dell’arte. E’ stato il professore con cui mi sono laureata a farmelo apprezzare ed a farmene scoprire il significato nascosto. Gliene sarò sempre grata, come di molte altre cose. Forse è proprio perché ho perduto quel modello di intellettuale, colto, serio, rispettoso, che non sono riuscita ad andare avanti in un ambiente dove sembra che i libri, quelli veri, non trovino ospitalità.
Il quadro è di un pittore cinquecentesco, Hans Holbein il giovane e si intitola “The Ambassadors”. Ai piedi dei due ambasciatori c’è un’immagine deforme e incomprensibile che, una volta posizionatici ai lati del dipinto, per effetto dell’anamorfosi appare per quello che realmente è: un teschio tridimensionale (Memento mori!). Puoi stare ore a contemplare quel quadro, a cercare di indovinare che cosa volesse comunicare Hans Holbein con quell’ammasso di materia pittorica, ma fino al momento in cui non ti collochi nel punto giusto, ogni sforzo è vano. Le immagini anamorfiche diventano traducibili solo se il nostro sguardo si posiziona esattamente nel punto di vista dove la deformazione scompare. Forse questo è solo un altro modo di parlare di maglie rotti nelle reti. Mi sto chiedendo se, in questi mesi, la mia vita mi si stia mostrando in questa strana prospettiva, traducendosi in un ammasso di visioni indistinte. Sto solo cercando il punto di vista, mi sto muovendo con affanno alla ricerca della migliore posizione. Credevo di averla trovata, nei giorni scorsi. Oggi, purtroppo o per fortuna, non ne sono così certa.
Ma stasera mi chiedo, ma esisterà davvero un punto di vista che traduce l’indistinto in immagini dalla perfezione geometrica? Forse sto cercando invano e devo dimenticare il teschio di Holbein.